“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Delio Salottolo

L'arte come pharmakon. Fabio Imperiale e Stefano Parisio Perrotti

L’arte è anche un mestiere, c’è ben poco da fare. Ma dire questo è dire nulla, in realtà. Il problema sta proprio in quell’“anche”, se proprio volessimo fare riflessione spicciola. Ma cosa si intende per mestiere? C’è l’artigianalità dell’artista vecchia maniera, cioè l’artista chiuso nel suo laboratorio, che incontra e si scontra con i materiali, che si sporca le mani, che lavora nell’officina della sua creazione, c’è poi l’intellettualità della rappresentazione di una pura idea mentale, come nell’arte concettuale, cioè il lavorare su una determinata relazione concettuale, sulle forme e sulla riduzione, c’è poi anche la serialità ossessiva delle forme d’arte più contemporanee (se è lecito utilizzare questa espressione) che compresa la tendenza epocale replicano e riproducono un modello, un’idea, figurativa o non, e ne fanno la propria personalissima cifra stilistica e la propria personalissima forma di sopravvivenza economica.

La vita è proprio una brutta bestia (parte I)

Comincia oggi la pubblicazione a cadenza settimanale di un nuovo racconto. L’esperimento demodé di “Ucciderò Roger Federer” ci ha divertito e così riproponiamo la stessa modalità. Ancora una volta si tratta di gettare uno sguardo sul nostro tempo e sul nostro mondo, questa volta da una prospettiva un po’ particolare. Il titolo è stato scelto un po’ a caso e va da sé che potrebbe essere adeguato a qualsiasi narrazione che descriva il nostro tempo, in questo senso il titolo è “universale” almeno quanto questa piccola storia risulta essere “particolare”. La storia ha la dolorosa intensità di una storia vera (e ovviamente dedichiamo questa scrittura a colui che l’ha ispirata e che ora non c’è più). Ma ci saranno anche delle sorprese, le quali non permetteranno comunque che i nostri “venticinque” lettori non si annoino nuovamente. Venticinque lettori. Sì, sempre se, almeno loro, lo vogliano.  

L'Arte e la Storia. In cammino tra le opere di Andrea Cefaly

Non esiste soltanto l’arte che cambia la Storia, quella che riempie i musei e che studiamo sui libri. Certo l’arte che cambia la Storia ci fa gonfiare gli occhi di stupore o ci racconta il senso di un epoca, e così può essere decisivo un determinato uso della pennellata o una rivoluzione nella tavolozza. In poche parole l’arte che cambia la Storia è quella che fa la Storia, e forse proprio per questo la cambia, e la cambia per tutto un insieme di coincidenze e di incontri fortunati. Soprattutto l’arte del XX secolo ha proceduto in una direzione tale per un insieme infinito di concause, ma forse quella determinante, il “caso” o forse più correttamente il kairos, il saper cogliere il momento opportuno a partire dalle circostanze, non è stato mai troppo approfondito.

Ma queste sono ciance.

Arrivederci (o addio?) capitalismo! L'arte di José María Cano

Perché nasconderlo? Siamo andati a vedere la mostra di José María Cano soprattutto per un motivo e questo motivo (perché nasconderlo pur nella sua banalità?) è tutto intero contenuto nel titolo dell’esposizione: Arrivederci capitalismo!. Siamo andati a vedere una mostra prevalentemente a causa del suo titolo. Non di certo un buon modo di presentarsi da parte di un giornalista che si vorrebbe serio. Ma torniamo al titolo, a questo Arrivederci capitalismo! Non che il recensore o giornalista o scribacchino che sta scrivendo questo pezzo ritenga veramente che sia così semplice o così immediato associare un saluto alla parola “capitalismo”, in poche parole che sussistano le condizioni sociali ed economiche affinché questo saluto possa sostanziarsi attraverso (quella cosa che un tempo non procurava vergogna e accuse di infantilismo a chi la pensava, e cioè) la rivoluzione, no! non lo ritiene così semplice o così immediato, ma la curiosità per quel titolo diveniva sempre più acuta perché, lapsus o volontà conscia – lo lasciamo decidere allo spettatore e/o lettore, la mostra ha nel suo titolo la parola arrivederci che, come tutte le persone che conoscono le buone maniere ben sanno, indica la possibilità di un nuovo incontro, magari sottintendendo anche la volontà che ciò avvenga, e non (magari) la parola addio che, come le persone che conoscono le buone maniere ben sanno (soprattutto quando non sono credenti), significa grossomodo “a mai più rivederci”, sottintendo magari anche la volontà che quella persona o cosa non si presenti mai più al nostro cospetto.

Il banchetto della democrazia. Il Lincoln di Spielberg

Non è trascorso molto tempo dalle presidenziali negli Stati Uniti, presidenziali che hanno visto la rielezione di Obama, di colui che resterà nella storia come il primo presidente afroamericano. E allora sembra che la fabbrica dei sogni americana abbia voluto festeggiare questo avvenimento, questo ringiovanimento del mito americano (dopo aver fatto addirittura un afroamericano presidente, che rimane più da fare?), attraverso due film, Django unchained di Tarantino che, con il suo modo un po’ farsesco e surreale, racconta la vendetta di un afroamericano nella quale è contenuta la vendetta latente di un intero popolo e, forse, di tutti gli oppressi di tutti i luoghi e tutti i tempi (http://www.ilpickwick.it/index.php/cinema/item/134-laltra-nascita-di-una-nazione-django-unchained-di-tarantino) e Lincoln di Spielberg che, con il suo solito e indiscusso mestiere, confeziona un film ben fatto, non eccessivamente retorico, non eccessivamente agiografico. Entrambi i film, ovviamente, non mettono in discussione assolutamente l’intero significato storico-politico di un Paese che ha mantenuto l’istituto della schiavitù fino a oltre la metà dell’‘800, che ha esportato fino a poco fa (ora sarà sempre più difficile farlo) la democrazia con la guerra, che ha mantenuto in soggezione il Sud America e tanti altri stati in giro per il nostro globo mediante l’utilizzazione sistematica di dittature militari e ci fermiamo qui perché non è questo il luogo consono. Insomma Hollywood è Hollywood: può anche capitare che faccia pensare, ma deve soprattutto far divertire e ripetere la serena ideologia americana. In questo senso se Django di Tarantino se n’è (ma soltanto appena appena) scostato, il Lincoln di Spielberg n’è dentro fino al collo ma con astuta sapienza e in maniera, per così dire, sommessa.

Profili urbani e umani. L'arte di Alessandro Valeri

C’è sempre qualcosa di misterioso che fa sì che la fotografia produca effetti imprevisti nello spettatore. Certo si potrebbe discutere sulla capacità che soltanto lo strumento fotografico dà di cogliere in profondità l’essenza dell’attimo, di quell’attimo che non esiste nella realtà, essendo il reale un continuo fluire e un continuo eccedere di ogni attimo in quello successivo, oppure raccontare la capacità della fotografia di descrivere un volto, sostituendo in questo senso il ritratto pittorico che tanto ruolo ha avuto nella storia dell’arte moderna, di un volto che, colto dall’occhio del fotografo, non è soltanto ripetizione della realtà ma già sempre interpretazione significante.

Ucciderò Roger Federer (la conclusione)

Si conclude oggi la pubblicazione di questo strano racconto a puntate. Si è riusciti, in questi due mesi e mezzo, a portarne avanti la pubblicazione a cadenza settimanale, cosa che, in tempi come questi in cui tutto si consuma rapidamente, non può che procurarci una (seppur minima) gioia. Sperando (ovviamente e soprattutto) che i nostri "venticinque lettori" (non ce ne voglia il grande Alessandro per questa importuna citazione) si siano comunque almeno un po' divertiti e abbiano avuto almeno un po' la possibilità di inquadrare da un'altra prospettiva (che poi è già sempre la nostra) questa epoca che nella sua miseria, nella miseria del suo risentimento e della sua solitudine, si trova ad essere decisiva. Viviamo a cavalcioni di una soglia anzi, forse più correttamente, lungo lo scorrimento di una faglia epocale. E la viviamo a cavallo di un secchio. Il mondo, poi (quando giungerà questo "poi"), sarà realmente differente. Probabilmente peggiore. E per questo allora abbiamo sentito la necessità di un "lieto fine" (ce lo si conceda, almeno nella fictio!). Sull'ironica malinconia che porta con sè ogni "lieto fine" il lettore potrà farsi, qualora proprio lo voglia, una propria personalissima idea.

L'altra nascita di una nazione. Django unchained di Tarantino

Non c’è che dire, un film di Tarantino è sempre un film di Tarantino, e quindi va preso e accettato per quello che vuole offrire e dare, e va goduto per quello che intende mostrare. Lo si sa fin troppo bene, Tarantino è uno che ha studiato in maniera anticonvenzionale, non è un “regista” laureato, ma uno che, cresciuto senza padre e con un madre giovanissima che gli faceva vedere sin da bambino di tutto, la sua formazione l’ha fatta in un negozio che noleggiava videocassette. Il suo cinema è allora sempre e comunque puro divertimento, anzi il suo cinema è geniale proprio perché ha per oggetto costantemente l’ironico gioco sullo stesso strumento (non a caso dov’è che in un attentato muore Hitler in Inglourious Basterds? In un cinema, ovviamente) e una passione smodata per i film di serie B, specialmente quelli italiani.

Treglie e altre superfici temporali. L'arte di Ianniello

Ci spiega Arturo Ianniello che la treglia è un vecchio strumento agricolo, “molto vecchio” pensiamo al momento, che funzionava grossomodo così: una serie di assi di legno con grossi chiodi di ferro che andavano conficcati nel terreno, al di sopra di essi veniva montata sulla struttura portante una grossa cesta all’interno della quale venivano posti oggetti pesanti che potevano essere pietre ma anche bambini (che percepivano il tutto come un gioco, sottolinea Ianniello) in maniera tale da permettere al macchinario di affondare ancor di più e ancor più in profondità nel terreno, l’intero strumento così organizzato veniva poi legato a un animale da soma, mettiamo un cavallo, e il gioco era fatto, il cavallo si muoveva e la struttura conficcata nel terreno e resa più efficace dal peso di pietre o bambini dissodava il terreno in vista della semina.

L'eterno scontro tra il canarino e i gatti che lo volevano morto

Non c’è che dire, ci troviamo di fronte a un film che è già sempre uno stereotipo, ma che ha anche, e non per giocare con le parole, la forza di un archetipo, riuscendo a dare vigore a un immaginario che all’epoca era presente prevalentemente in letteratura e che poi avrebbe inondato le sale cinematografiche di tutto il secolo successivo (cioè fino a oggi). Si tratta infatti di un film che pone le basi per ogni horror che si rispetti che si vuole ambientato all’interno di un’antica dimora. Siamo alla fine degli anni ‘20 e Hollywood, che non è ancora la fabbrica dei sogni che sarebbe divenuta poco più tardi ma che è comunque già una ben avviata fabbrica di soldi e può permettersi dunque ottimi contratti e ottimi ingaggi, chiama registi e fotografi di scena dall’Europa (prevalentemente dalla Germania) per rivitalizzare la propria industria cinematografica e per far giungere grandi talenti che un po’ addomesticati e con la necessità di campare del proprio mestiere possano rendere grande il cinema americano. Perché Paul Leni è un regista di razza, uno di quelli che ha ben chiaro non soltanto ciò che vuole raccontare, ma anche il come e il perché, e questo film lo dimostra pienamente. Intendiamoci, non si tratta di un capolavoro assoluto, ma, per così dire, di un capolavoro “minore”, girato bene, ben recitato, eccellente fotografia, storia grottesca e realistica. Non si tratta del suo capolavoro, L’uomo che ride, ma quella è (come si suol dire) un’altra storia.

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il Pickwick

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