“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Michele Di Donato

Una città a prova di bomba

Lo spazio domestico di un salone si regala al teatro e gremisce i propri posti a sedere; la quarta parete è velo di sfoglia sottile che cede ad un contatto quasi tattile fra scena e platea. Occupa la parte di sala riattata a ribalta una donna (Federica Aiello) la cui loquela dichiara quand’ancora è fuori scena il proprio status di straniera; status che, una volta fatta la sua comparsa, si arricchirà di altre significative prerogative: straniera, di religione islamica, pasionaria della jihad.

Un artefice filmico

In un’atmosfera insolita per un convegno, scevra dal paludato pontificare ex catherda, si rendeva omaggio alla figura di Eduardo De Filippo. Occasione d’incontro e di dibattito, nello specifico, era il Sik-Sik riportato in scena nel corso della attuale stagione teatrale e che si avvale, grazie ad una registrazione audio “di contrabbando” (ovvero effettuata senza il consenso di Eduardo), di una rappresentazione eduardiana del Sik-Sik, appunto, andato in scena al Teatro San Ferdinando nel 1979 e la cui copia audio è stata gelosamente custodita da Giulio Baffi per un trentennio e più per poi essere messa a disposizione come documento unico di una messinscena che differiva dalla partitura originaria.

Giobbe e il riscaldamento globale

Disporsi alla visione di uno spettacolo di Giobbe Covatta è un po’ come prepararsi all’incontro con un vecchio amico, uno di quei vecchi amici che prim’ancora di ritrovare al luogo ed all’orario convenuti, già sai grossomodo quel che ti dirà e come te lo dirà; eppure ciò in nessun modo inficia la piacevolezza del ritrovarsi, perché sai che proprio ti piace ascoltare quel che sai ti verrà detto, perché sai che proprio ti piace il modo in cui sai che ti verrà detto.

Malinconia saltimbanca

Che bel circo questo Circo Equestre Sgueglia! Nato dalla penna di Raffaele Viviani, passato per le tavole d’assito polverose del teatro napoletano degli anni Venti del Novecento, viene ripreso, riadattato e messo in scena da Alfredo Arias, il quale fa d’una messinscena d’epoca spaccato senza tempo d’una condizione connaturata all’essere umano ed alla sua essenza saltimbanca.

Fra ciò che è e ciò che appare

Vero è ciò che è o ciò che appare? La realtà è vera in quanto tale, oppure è vera solo quando è legittimata dalla propria rappresentazione? Come si discerne il vero dal falso? E dal verosimile? Possiamo credere a tutto ciò che vediamo, oppure i nostri occhi possono essere ingannati? Miraggi, fate morgane, allucinazioni, immagini deformate, o anche semplicemente angolazioni e prospettive differenti, punti di vista in base ai quali la medesima verità può apparire diversa e cangiante.

Appunti d'attore sulla palingenesi

A teatro, dove tutto è già stato fatto, visto ed applaudito, dove nulla s’inventa e non sempre tutto funziona, può capitare di imbattersi in costruzioni d’immagini e parole che, che riempiono gli occhi riempiendosi di contenuti. È quanto accade in questo diluvio con un uomo al centro, provvisorio nel titolo, conchiuso nella sua forma teatrale, che porta in scena Valerio Malorni. Incentrato su un uso della metateatralità fondamentale nell’economia del testo, L’uomo nel diluvio vede un attore solo su di una scena semivuota, sul cui fondale campeggia un blocco di muratura messo lì ad evocare una vasca da bagno, il cui profilo stilizzato ricorda vagamente una barca; la “b” iniziale potremmo anche ometterla.

Musil, Mattiello ed "I Fanatici"

“Fanatici sono coloro che portano nelle relazioni umane tutto quel che sono”; non è un incipit, non è una frase paradigmatica, solo uno dei tanti motteggi apodittici che punteggiano I Fanatici di Musil. Nel riadattamento che ne firma Salvatore Mattiello sulle tavole di Sala Ichòs si compone sulla scena una sofisticata interpretazione del testo che lo libera dalla taccia atavica di irrappresentabilità.

La danza delle ombre, in bilico fra vita e morte

Dissolvenza alterna di buio e luce, alternanza cromatica tra il cupo e lo sgargiante, marcia inesorabile fra vita e morte, bilico perenne lungo un’indefinibile linea di confine, al ritmo incessante di un movimento che abita la scena senza soluzione di continuità: Le sorelle Macaluso sono stormo in formazione, in perenne migrazione fra un qua ed un altrove, una masnada di carni vive strappate da un tempo (presente, passato, poco cale) per farsi archetipo di una condizione, ovvero il bilico perenne fra vita e morte.

Fra sogno e utopia

“Mi chiamano psicologo: non è esatto, io sono soltanto realista nel senso più alto, cioè rappresento tutte le profondità dell’anima umana”.
(Fëdor Michailovič Dostoevskij)

 

Fra i portatori di cultura che maggiormente hanno segnato l’esistenza dei bipedi abitatori di questo globo terracqueo, un posto preminente spetta senz’altro a Fëdor Michailovič Dostoevskij, la cui opera possiede una profondità introspettiva con pochi corrispettivi nella storia della cultura.

Zio Vanja coi pugni in tasca

Esseri umani come macchie grigie su un tappeto di noia; la stagnazione, il ripetersi del vivere sempre uguale come i cicli delle stagioni. In casa Serebrjakov la prigionia dell’inazione attanaglia come una gabbia dalle sbarre invisibili. È una gabbia, una prigione, quella in cui Čechov inscrive i suoi personaggi, è una gabbia, una prigione che Marco Bellocchio costruisce in chiaro legno di betulla (o almeno dalla platea si ha l’impressione che il ligneo candore della scena di betulla sia materiato), separato dal proscenio in legno più scuro.

il Pickwick

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