Michele Di Donato
Un "Macbeth" tra luci ed ombre
Per scrivere di questo Macbeth, produzione del Teatro Nazionale la cui regia è firmata dallo stesso Direttore Luca De Fusco, parto da quanto si può leggere nel foglio di sala di carta smaltata che accompagna lo spettatore e dalla dichiarata continuità con cui questo spettacolo si pone in relazione al precedente lavoro shakespeariano dello stesso De Fusco – Antonio e Cleopatra, del quale ricordiamo qui la non proprio riuscitissima messa in scena – il quale definisce (sempre nel patinato libretto in dote agli spettatori) i due spettacoli “fortemente connotati nel senso della sperimentazione e della contaminazione dei linguaggi”.
Nelle Fibre di Pasolini
Tappeto purpureo la scena nuda, la riempiono solo una poltrona di pelle e due microfoni inastati. Di Pier Paolo Pasolini le parole, di Licia Lanera la voce e il corpo che a partitura preesistente danno consistenza scenica in una rivisitazione in cui la regia della stessa Lanera si dedica al testo pasoliniano (Orgia) esplorandone le sfaccettature, ma soprattutto instaurando con esso una relazione dinamica e dialettica, che dialoga sì col testo, calandolo nella contemporaneità, ma che sembra prima di tutto metterlo in relazione con il Manifesto per un nuovo teatro di Pier Paolo Pasolini, traducendosi in particolar modo in una regia “funzionale”, in cui corpo, voce e visione registica si fanno tutt’uno per fondersi in una cassa armonica in cui risuoni il verbo pasoliniano che vede l’attore “non essere dunque interprete in quanto portatore di un messaggio […] che trascende il testo: ma essere veicolo vivente del testo stesso”.
Il (non) senso della vita
Officina delle Idee è un cortile che si adatta a farsi teatro, spazio non eminentemente teatrale, con piastrelle in luogo dell’assito, sedie e divani a far da platea e una leggera pendenza a favorir visione. La drammaturgia – e quindi la scenografia – s’adattano pertanto allo spazio che la ospita, riempiendosi di sei sedie a corroborare, per metonimica sottrazione, la partitura di Ionesco (Le sedie, appunto).
Il cunto del disonore
Un testo, un attore; e potremo già fermarci qui, parlando di Dissonorata, visto che nella compattezza drammaturgica e nella bravura scenica di chi lo interpreta – ovvero Saverio La Ruina, che ne è anche autore – è compreso tutto quel che serve a fare d’un testo teatrale e della sua messa in scena qualcosa di pregevole bellezza.
Dissonorata è storia che ha sapore antico ma che al contempo suggerisce subdole persistenze radicate in un ancestrale retaggio; Dissonorata racconta una storia del tempo passato coniugata al tempo presente, in forma di cunto memoriale, ma il cui concetto di fondo ritorna, mutatis mutandis, tante volte nelle storie di cronaca che ancor oggi raccontano a intervalli irregolari delle efferatezze perpetrate verso donne tenute ancora relegate in una condizione di minorità subalterna, intabarrate in un reticolo di costrizioni aberranti.
Psicopatafisica
Corpo di donna a farsi clown in una messinscena dal vago sentore patafisico. Vago sentore, perché l’evocazione di Ubu Roi appare come qualcosa a metà fra un significativo pretesto e un orpello ipnotico. Giduglia, ovvero la spirale patafisica, che vorticosamente gira e rigira, è un motivo che correda la scena in una dicromia bianca e nera; bianco e nero che si ripropongono in ogni dettaglio, indossato o recato in scena da Patrizia Aroldi, dal cappello alle scarpe; dalla valigia a fasce oblique, bianche e nere, da cui cava fuori una valigetta più piccola a fasce bianche e nere anch’essa; cerone sul viso, un vestito – bianco e nero – che culmina in uno sbuffo di gonna.
Drammaturgia argomentativa
Per raccontare, descrivere e considerare Scusate se non siamo morti in mare bisogna necessariamente partire dal testo drammaturgico. Bisogna farlo perché, per questo come per altre drammaturgie firmate da Emanuele Aldrovandi, il testo è ben più di un semplice punto di partenza; è drammaturgia in cui si dipana un filo narrativo che è strumento funzionale all’articolazione di un ragionamento complesso, strutturato, che si compone e si costruisce attraverso studiati meccanismi (uno su tutti: il ribaltamento, che sia di senso o di prospettiva).
La Cupa e la strutturazione di un pubblico
Novoli, Campi Salentina, Trepuzzi: tre luoghi, un’anima – quella salentina – che, ad onta di un meteo che ha visto Giove Pluvio mostrarsi particolarmente beffardo, ha vissuto e si è fatta respirare nella seconda edizione de I Teatri della Cupa, festival teatrale che sotto la direzione artistica di Tonio De Nitto, ha inscenato quest’anno la sua seconda edizione.
Balletto Civile e la visione del Bardo
“Credesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevole parte d’Italia; nella quale assai presso a Salerno è una costa sopra ‘l mare riguardante, la quale gli abitanti chiamano la Costa d’Amalfi, piena di picciole città, […]. Tra le quali cittadette n’è una chiamata Ravello”.
(Giovanni Boccaccio, Decamerone, Seconda giornata, Novella quarta)
Il belvedere di Villa Rufolo s’affaccia su una suggestione lontana quanto l’orizzonte, ideale per accogliere, nel suo raggio tendente a infinito, evocazioni di storie lontane, che rivivono nell’abbraccio suadente della notte ravellese, carpite dalla penna del Bardo e cullate fra cielo mare e stelle per essere rielaborate in una sintesi tra dramma e movimento. Balletto Civile rivisita Shakespeare.
Coralità corsara
Questo spettacolo ha un padre nobile, questo padre nobile si chiama Francesco Rosi, e segnatamente l’imprimatur di una paternità lontana riporta a Le mani sulla città. Ma questo spettacolo – Il cielo in una stanza – a quel nobile riferimento è tributario, ma non pedissequo referente e da quel nobile riferimento s’affranca, pur non disconoscendolo, ricalibrandolo sulla base della propria poetica.
Elegia di terra senza mare
Il mare come un destino lontano, simbolo di qualcosa che manca e s’agogna, che manca ad un popolo di cui una famiglia è porzione esemplare. Mar, della Compagnia de los Andes è storia che giostra i due registri del particolare e dell’universale compenetrando l’uno nell’altro, elevando simbolicamente una famiglia ad essenza della perdita, della mancanza, su ciò che non si ha e si desidererebbe avere e su ciò che non si è mai avuto e non si potrà lasciare in eredità a chi rimane.