“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Annibale Rainone

L'ultimo Guccini

Gran bel disco L’Ultima Thule di Francesco Guccini. Rotondo, pieno, tutto cantato e a lungo, finalmente in una generosa forma-canzone (che fa giustizia dei piccolo commerciale cabotaggio italiano) lenta e cupa, profonda e ricca di luminescenze di quell’Apennino (Pavana), estrema terra dei fuochi e del gelo.

Dalla fine (la farfalla di Belen)

Fa bene Carlo Cerciello a dare al suo spettacolo la temporalità del c’era una volta, a trasformare il divenire di quel lungo giorno, il ’68, in storia, in mito; con presa diretta sui fatti del giorno, tra tele-discese in campo e tic ‘choosy’ di Fornero, è giusto si parta dal presente, intervenendo con empito sullo schema lineare del tempo: “fu un martedì che scoppiò il Sessantotto”, dice la voce col parlare rapido e compulsivo di quegli anni, una grossa mela verde sull’impiantito a centro scena, vinili, mangianastri Penny e megafono a cornice dell’amaro aide-mémoire per le musiche originali di Paolo Colletta e per quelle, assai più cattive, da The Rokes, Mal dei Primitives, Creedence Clearwater Revival, sino a Beatles e New Trolls.

Liturgie della rivolta

Una donna furente utilizza la forza del pensiero per fare a pezzi il mondo e porrà se stessa, alla migliore distanza, dalla parte – da questa parte – di un buio a dirotto, insazio e veggente, dove poter lesta indire i riti dell’ombra (agitare, aguzzare; ricucire, dar di filo), finalmente, a teatro, nel solo luogo che permetta la compresenza del molteplice, in scena: ella si rivela, solo così si rivelerebbe: esplode, freme, e dietro scomposte azioni, a nient’altro abbrivo che il proprio dolore, depaluda tutta la vita sua dai personaggi che le gravitano attorno, dal marito come dai fantocci, squallida razione di veleno borghese (se allevare o meno balle di gatto sull’erba dei gardens, prescegliere ozi o foto ritratti, qualche grado di gelo per contraddire la smania sociale con un po’ di protocollo, eccetera).

il Pickwick

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