“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 23 May 2013 02:00

Dicerie con lo scrittore: intervista a Gesualdo Bufalino

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“Se dovete recarvi a Comiso, non dimenticate d’arrivarvi per i tornanti che rigano un fianco degli Iblei, lasciandovi alle spalle gli interminabili muri a secco della campagna ragusana, magari con ancora negli occhi il ricordo d’una Modica molle e signorile. Vi si spalancherà, specie in un giorno di cielo pulito, un panorama largo e commovente. In pochi minuti, assecondando pigramente volte e risvolte, vi troverete nel centro del paese”.

Così iniziava una sua bella intervista Massimo Onofri (Gesualdo Bufalino: autoritratto con personaggio in Nuove Effemeridi, anno V, numero 18) nel marzo del 1992: ripescata alla vista – come tutte le altre parole che seguono (fatta eccezione per l’insulso grassetto che l’autore qui sfoggia) – gli si dà nuova vita perché la strada di allora sia la strada di oggi. Dunque, pur non muovendoci (ché tanto gli spettri degli uomini del passato che ancora vivono il presente li si incontra dove si vuole, fosse pure in camera propria) abbiamo percorso i muri a secco della campagna ragusana e i tornanti che rigano il fianco degli Iblei e – così rifacendo – siamo giunti ad un piccolo bar nella piazzetta del centro, dove ci siamo seduti. Qui abbiamo incontrato colui che – a Comiso – chiamano ancora “Robinson” perché naufrago, per intere giornate, a un tavolino di marmo: lo stesso cui – davanti un caffè, un blocco di carta e una biro, accanto “una sporta di libri” ogni volta diversi, nel volto “un tic che gli elettrizzava lo sguardo” ad ogni lettura – ha passato gran parte della vita. Robinson, lo sappiamo, è Gesualdo Bufalino. A Comiso – in questa Comiso che vediamo senza poterla toccare davvero – lo interroghiamo ed egli, figurarsi, pare rispondere, pur con “il riserbo che dei cadaveri è proprio”…

 

“Non solo sono sedentario, mi creda, ma volontariamente, voluttuosamente segregato fra quattro mura ed al massimo posso spingermi a questo bar, dove lei mi sta immaginando. Sarà per un vizio da sanatorio (dove pure ho vissuto: ma prima c’erano stati la casa, la caserma, il ventre materno), certo è che la tana è il mio luogo d’elezione. Per questo ha fatto bene a muoversi lei piuttosto che attendere che fossi io a palesarmi in qualche maniera…”


Maestro,
partiamo da Comiso, luogo di nascita e mausoleo di finti atti e di finti commenti, che Lei definisce per iscritto “paese di sangue dolce, di umori fantastici, di serenate, dove ‘mafioso’ vuol dire ‘sgargiante’; paese straripante di colori, di…”
“…di odori, sapori, rumori, rossori, occhiate di fuoco, strilli neonati, balconi infiorati, fulgori di minigonne arricciate. Sa, a Comiso appartiene un destino di leggenda e di opra dei pupi; qui non c’è marciapiede dove non venga voglia di farsi prestare una sedia e sedersi a guardare. Perchè Comiso è una città-teatro, un carro di Tespi ambulante, arenatosi, come una paranza di Donnalicata, sul primo dosso asciutto che s’è trovato davanti. Questo spiega l’aria di volubile invenzione e improvvisazione scenica che si sente in circolo ovunque”.

 

Divisa a mezzadria fra monte e pianura Comiso, così marmorea tra il cielo e le zolle, sembra un teatro essa stessa, sembra – mi permetta l'azzardo lirico – un digradante anfiteatro sinuoso, una scena suadente che…
“Infatti, infatti… pensi – d’altronde – alla planimetria urbana, così mossa e pittoresca nel suo intreccio di saliscendi e gradoni, già scenario disposto, offerto alle sorprese dello spettacolo. Pensi a via San Lorenzo, prigioniera tra siepi di ballatoi giganteschi; alle viuzze che riversano i loro ruscelli sul Corso della Grazia; agli slarghi del Mercato, del Municipio, delle chiese nemiche: sono fondali e quinte ideali per miniambi quotidiani di vita”.

 

E chi l’abita vive o fa recita?
“Qui ogni persona tende senza sforzo a diventare personaggio; ogni gesto si accalora e s’illumina d’enfatico fuoco. Recita il venditore all’aperto quando decanta la merce infojando d’improperi e strabotti il cliente; recita il bevitore impegnato al gioco del ‘tocco’, dove beve chi vince la schermata di motti, promesse, di scherni; e non somiglia a un duetto drammatico il dibattito fra comare e ambulante sul prezzo tirato, sfranto, strappato da una parte e dall’altra? E il sensale? E il mendicante? E l’innamorato? È la pantomima l’atteggiamento di Comiso e… sì, è un teatro il paese, un proscenio di pietre rosate, una festa di mirabilie. E come odora di gelsomino sul far della sera lei neanche lo può immaginare…”

 

Dunque vi accade la vita e la recita della vita assieme, potremmo dire?
“Lo dica e lo scriva, se vuole o se crede: io direi o scriverei piuttosto: ‘Teatro e vita: unica risorsa contro il dolore della vita è recitarlo’. Meglio, no?”

 

Certamente… per questo il suo lessico…
“Per questo il mio lessico è alto, con iperboli e lussurie verbali. L’ambizione è unire artificio e pena, retorica e pietà, calligrafia e infelicità: sposare a ogni verità del cuore una frode della parola”

 

Dunque come direbbe Giorgio Manganelli, letteratura come menzogna per…
“Letteratura come menzogna, mi permetta, è formula ormai abusata. È la vita tutta che si mostra stravagante e misteriosa, fatalmente ingannevole. Tutta la mia opera nasce da un’istintiva persuasione all’inverosimiglianza della vita. Affacciato su un minimo squarcio di luce, io apro e chiudo le palpebre e vedo montagne e alberi, vedo di fronte a me la sua faccia, sulla parete a destra quel quadro…”

 

Come fossimo davanti a una scena…
“Se proprio desidera. Ma sia chiaro: tutto questo non dura che un attimo, anche perché allo stesso modo la vita, la mia e quella di tutti, non è che lo sbattere di due palpebre fra due tenebre: un miraggio”

 

La vita come menzogna ovvero come sua recita ipocrita, accettabile o meno; il gusto per l’inverosimiglianza; l’ostentazione del falso attraverso lessico e forma del lessico; il miraggio di una visione momentanea; la caducità del vedere e la fragilità di ciò che viene veduto; la frase “sulla parete a destra quel quadro”. A me, sentendola, viene sempre più l’idea del teatro e – a proposito di teatro – sa che, qui dietro, c’è un pertugio, un vecchio edificio di calcinacci decrepiti su cui c’è la scritta, a mala pena leggibile, ‘Teatru’? È proprio qui, nascosto dall’angolo a destra: se Comiso è un teatro allora questo ‘Teatru’ è un teatro in un teatro…
“E lei sa che lì, nel vecchio edificio di calcinacci decrepiti, una sera, sotto le volte di un soffitto tutto stucchi, sfolgorarono vampe d’oro e crepitarono battimani; che scarpette di raso calcarono gli scalini che ora ingombra l’ortica? Sa che venne Lei, la Patti, la divina Adelina, la voce più bella del secolo, bianca di luce e di cipria; apparenza d’angelo in cera… E sa che si perse nel buio? Ne parlarono a lungo, i vecchi, seduti alle soglie, nei pomeriggi d’estate. Se attizza l’orecchio… sente gli anziani del posto che ne parlano ancora?”

 

Com’è che questo paese ai piedi degli Iblei, che dirada i carrubi in pianura mostrando qualche rudere di terme e mosaici, nelle sue pagine evapora quasi sfrangiandosi in voce, sibilo o brulichio di “grasse, umide, calde parole”?
"È che – quasi ogni volta – il romanzo m’è detto da una memoria che mi fa la buffona dietro le spalle e sussurra ciarle che sono storte, bistrate, beffarde; agrodolciumi volti a corrompere come si corrompe un ragazzo. Non sono violino o piffero magico, pipata d’oppio, annunciazione di cronaca, copia, conteggio di calcolo le opere mie: sono il segreto di un re pagliaccio sussurrato alle canne di un fosso, sono un’impostura, una bagattella comica… chiami le mie opere, se vuole, ‘Sceneggiata che fa vece di vita’. Meglio: un surrogato di vita, durante il giorno, e un surrogato di sonno, quando non posso prendere sonno. Ma lo sa che mi basta un’inezia per non dormire? E lo sa che, invece di pecore, conto personaggi?”

 

Già, i personaggi…
“I personaggi non sono che marionette per questo teatro da cranio, marionette mosse da un filo sottile: metà ombre; metà cose salde. Mi vengono incontro sulla soglia, mentre provano i gesti d’esordio e fanno amicizia col caldo di vita. Se ci pensa sono uno spettro i personaggi: a guardarli vicino rivelano una labilità viziosa, intermittente, storpiata. Sono magri frantumi, portatori fragilissimi di un istante apparente, un tic, una battuta; di un moto scelto del corpo capace di permearsi in eterno e di permeare in eterno la mia messinscena prevista…”

 

A Sciascia mormora (in ben altra intervista, me ne rendo conto…) che Le importa, per esorcizzare l’esperienza e la vita, “coagulare eventi e persone intorno a un centro di parole che ho dentro”. Un po’ come se fosse autore, drammaturgo o regista di un’autobiografia recitata da attori, da comparse ingaggiate per fare delle repliche...
“Sa infatti cosa mi accade? Mi accade che mi reciti dei giorni, dei giorni vissuti, da cima a fondo. Mi spiego: io col passato ho rapporti di tipo vizioso, e lo imbalsamo in me, lo accarezzo senza posa, come taluno fa coi cadaveri amati. Le strategie per possederlo sono due. Dapprincipio mi visito da foriero turista, con agio, sostando davanti a ogni cocciopesto, a ogni anticaglia…”

 

Come fosse Lei stesso una specie di teatro di cui si perlustra il palco, le quinte, il fondale carezzando i vecchi oggetti in ribalta?
"Esatto. Diciamo che l’incontro, la memoria o il caso – come dice lei e, forse, ho detto una volta anch’io (ma in quale pagina? Oddio, non rimembro) –  mi permettono di dissotterrare con furia gli attimi: quanti ne ho vissuti apposta per potermeli ricordare! Dagli attimi, però, non so trarre pensieri: io non ho una testa forte, e il pensiero o mi spaventa o mi stanca. Ma bagliori, invece… bagliori di luce e di ombra, e quell’odore di accaduto, rimasto nascosto con milioni d’altri per anni e anni in un castone invisibile, qua – tocchi – dietro la fronte. E poi il demone suggeritore, la memoria buffona… Sa che le dico: riessere, ‘This is the question’… Conosce Shakespeare?”

 

Diciamo che cerco di aver confidenza con le opere di Shakespeare. Tornando a noi: “Riessere, this is the question” mi dice, parafrasando l’Amleto. Ebbene, parafrasiamolo ancora: il teatro (questo suo teatro che, mi sembra, abbia la forma di romanzo) pare regga lo specchio non alla natura (come si dice in Amleto), ma alla memoria…
“Scusi: ma secondo lei perché si scrive? Perché ci si affanna a tessere sogni e raggiri, si dà corpo a fantocci e fantasmi, si fabbricano babilonie di carta, s’inventano esistenze vicarie, universi paralleli e bugiardi, mentre fuori, così plausibile, piove la luce della luna nell’erba, e gioca d’un semplice gioco la vita? Glie la do io la risposta, se mi permette: scrivere non significa solo adulare i minuti con la cosmesi dell’immaginario, ma nutrirli dei nostri segreti mentali, addobbarli viziosamente delle nostre maschere nere”

 

E…
“E mi faccia finire: i miei libri non sono altro che giuochi paraletterali – lei dirà metateatrali, forse – ai quali mi abbandono perché servono a distrarmi del pensiero della fine, a consolarmi dell’unica certezza, questa sì veramente imprescindibile: il fatto che io non ci sarò più, così come saranno niente le cose che ho scritto, salvo che non vi si posino, per un attimo, gli occhi di qualcuno che le ami a suo modo”

 

Si recita (o si scrive la recita e si spera poi nella sua replica) per non finire, quindi. Sa chi mi viene in mente adesso? Beckett!
“Su questo concordiamo: se dovessi cercare un referente (non un modello, che sarebbe troppo alto), farei il nome di Beckett. E – forse per farle piacere, forse perché mi annoio, forse perché invece mi va – le ricordo che c'è una mia poesia (che non avrà letto, probabilmente) intitolata Lamento degli attori e che mette in sillabe proprio il rapporto tra la recita, la fine della recita, la morte e la scomparsa. Vuole che le dica gli ultimi versi?"

 

Le sarei grato
"'Tutto qui finisce e dell'immenso / fuoco che m'arse, del lume di sogni / che illuminava le mie veglie, e d'ogni / palpito, d'ogni mio più caro senso, / cenere mi rimane, e palandrane / da circo, e bistri, e trucchi, e finti risi, / e lacrime, e dipinti paradisi / di carta eretti sulle scene varie... / Tutto così finisce: eppure ancora / oggi uscirò e affronterò con grazia / l'applauso della folla che mi strazia / e giocherò con lei fino all'aurora'. Che le pare?"

 

Una meraviglia. Sa che sentendoLa fare verso ai suoi versi mi viene anche in mente “Colui che dice io” ovvero il protagonista di Diceria dell’untore. Lei scrive che questo retore, sensuale ed ipocrita, è una “controfigura mentale dell’autore, uno stuntman o cascatore, cioè, che rischia in vece sua, ma gli somiglia solo di spalle”. E scrive che “l’autore lo plagia, lo invade, lo manda allo sbaraglio” in una dinamica di “rapporti burrascosi e amorosi”. Insomma: è il suo interprete o, meglio, è l’interprete che l’autore-regista sceglie per rappresentare se stesso…
“Sa cosa mi ha insegnato, da bimbo, un’affabile maga? Che graffire su un muro quattro nomi di diavoli – 'Furcu', 'Rifurcu', 'Lurcu' e 'Cataturcu' – bastava a farli apparire. Così con le figure. E, tanto per restare all’opera mia più famosa: secondo lei cos’è la Rocca?”

 

La Rocca? È un sanatorio… un ospedale, un carcere forse…
“Certo, certo, comprendo: lei è un giornalista e si attiene all'evidenze ma, badi, non è solo carcere, clausura monastica, rocca assediata: è, soprattutto, luogo d’incantesimo. Allo stesso modo i malati, oltre che asceti, galeotti, difensori assediati, sono eroi affatturati, fra i quali potrebbe ambulare fraternamente il Sigismondo di Calderón. Vede: luogo d’incantesimo, dunque teatro. E, d’altronde, il libro comincia con un sogno. E se tutto fosse un sogno? Ogni ricordo, in fondo, è una favola…”

 

Anche quest’intervista?
“Anche quest’intervista.: un sogno, un ricordo, una favola…”

 

 

 

 

 

NB: non sfugge, naturalmente, che l'intervista è un'intervista impossibile e che i ritagli di chiacchiera sono, effettivamente, ritagli di chiacchiera ovvero citazioni da opere varie, cui si è aggiunto solo qualche inciso per rendere la pagina più scorrevole: come l'olio per quello che cigola, come il miele per la medicina che è amara. Molto si deve, e lo si accenna in maniera più o meno esplicita, alle interviste compiute, al tempo, da Leonardo Sciascia (Che maestro, questo don Gesualdo in L'Espresso, del marzo 1981) e Massimo Onofri (Gesualdo Bufalino: autoritratto con personaggio in Nuove Effemeridi, numero del marzo 1992). Il resto è ripresa e aggiusto dalle molteplici scritture dell'autore, ai cui brandelli si sono aggiunte le domande tardive. Per bibliografia, dunque, i due volumi in cui tutte queste scritture (ed altre ancora) stanno ristrette, contenute una dopo l'altra, una con l'altra.

 

Gesualdo Bufalino
Opere/I 1981-1988
introduzione di Maria Corti
a cura di Maria Corti, Francesca Caputo
Bompiani, Milano, 2006
pp. 1424

Gesualdo Bufalino
Opere/II 1989-1996
introduzione di Francesca Caputo
a cura di Maria Corti, Francesca Caputo
Bompiani, Milano, 2007
pp. 2080

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