“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 16 April 2021 20:30

Graces Anatomy. Diario di bordo – Giorno 4

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Si ricomincia. Da ieri a oggi, dalla trasmissione alla sorpresa. È questa la parola chiave odierna. E la prima sorpresa di giornata è che per la prima volta da quando è iniziato Danza Pubblica-Graces – che Scenari Visibili organizza nell’ambito del programma ”Per chi crea”, sostenuto da MiBACT e SIAE – troviamo a menare le danze Siro Guglielmi, in scena insieme a Silvia Gribaudi, Matteo Marchesi e Andrea Rampazzo nello spettacolo da cui nasce questo progetto di residenza.

Chiaro dal principio il discorso programmatico: I Will Survive è la molla d’ingresso nell’attività di questa giornata, energia e fluidità sono i primi elementi che mi vengono trasmessi (tanto per rimanere nel solco tracciato dalla parola chiave del giorno prima).
Siro guida i partecipanti alla residenza in un alveo concettuale nuovo: li invita al movimento, allo stretching, a lavorare con la schiena, con le braccia; a tenere i gomiti dritti, a utilizzare le dita fino in fondo e a creare dei cerchi. Seconda sorpresa di giornata: Siro spalanca le porte al fantastico mondo del voguing: uno stile che consiste nell’ispirarsi ai movimenti delle sfilate, una ball culture nata nell’ambito delle comunità LGBT e che ispira il proprio nome alla omonima rivista patinata, Vogue. Anche questa, come già le altre incontrate nei primi giorni di residenza, è una delle componenti presenti nello spettacolo Graces, ed è dunque un altro degli elementi che si proverà a rielaborare.
Tra le fasi che compongono il voguing – e che in particolare fanno riferimento alla corrente del vogue fem, che trae ispirazione dall’imitazione della femminilità delle movenze – Siro ne percorre e ne mostra in particolare due: hands e duckwalk. Si spinge con la schiena, si gira e la schiena stessa non va mai a terra; esercizio arduo e complesso, difficile anche da imitare (infatti vedo che qualcuno si ferma), e il motivo di Ironside con la sua sirena, reso ancor più celebre da Kill Bill, sembra davvero calzare come colonna sonora di questo momento di sperimentazione corporea che spinge a confrontarsi con un limite.
Alla fine della sessione c’è una sorta di liberi tutti, in cui, dopo aver messo a frutto gli input del voguing, ci si lascia andare tutti insieme: i gesti angolari, le movenze fluide, le braccia che creano cerchi, le pose plastiche: come in Graces, questa pratica aiuta a esplorare le movenze e gli slittamenti tra il maschile e il femminile.
Ci si ferma: il dispendio energetico è stato cospicuo e prosciugante. Bisogno di bere e di allungare i muscoli.
Si riprende nel pomeriggio. Siro ha impresso un marchio evidente con le coreografie mostrate in mattinata, sicché si ricomincia da dove ci si era lasciati: ancora voguing. Si fa conto di aver acquisito tutta l’esperienza di questo stile, che nasce proprio dall’esigenza di non vergognarsi di una intrinseca femminilità.
Subentra Andrea a guidare il gioco, chiedendo ai ragazzi di abbandonarsi alla libera reinterpretazione di quanto visto e in parte fatto. Le linee di principio restano le stesse: gomiti portati in posizione angolare e fluidità plastica di movimenti, a ricreare l’effetto di una sfilata; libera la riproposizione, in cui danzatrici e danzatori si cimentano portando e immettendo ciascuno qualcosa di proprio, diversi ma simili, come orchestrali di un gigantesco ensemble, in cui ciascuno strumento vibra d’un suono proprio e tutti insieme concorrono alla partitura di una melodia, varia e polifonica (in questo caso polimorfa), ma unica e armonica.
Si chiede perciò di non seguire pedissequamente quel che fa Siro, di liberarsi del modello e partire liberamente per il proprio percorso interpretativo. Ciascuno prova a metterci del suo, tutti rimanendo dentro crismi e coordinate, con braccia e gambe, mani e piedi, gomiti e busto, con ogni singola parte del corpo, parte individuale di un’entità plurima.
Dapprima giri e cadute, poi stesso esercizio effettuato tenendo il proprio computer o il proprio cellulare in mano, trasmettendo così un vorticoso senso di movimento avvolgente; la difficoltà aumenta progressivamente, il dispositivo che riprende viene poggiato a terra, così cambiando, nell’occhio di chi osserva, la prospettiva da cui guardare.
E per finire, rallentamento graduale, compiendo i medesimi movimenti: rallentato il respiro, sempre di più, sempre più dilatato il tempo, ci si riappropria di una densità, si procede verso una sospensione che viaggia verso la stasi, lentissimamente, fino a che ognuno giunge a spegnere la webcam che lo riprende, senza però fermare il proprio corpo, ma lasciandolo proseguire verso un oltre che scompare allo sguardo senza cessare di essere.
Ma non è finita: si ritorna. E siccome la parola d’ordine resta “sorpresa”, Andrea propone un esperimento improvvisato, che proprio sul concetto di sorpresa sia incentrato. Sul come sorprendere, come sorprendersi, come riuscire ad essere sorprendenti; un gioco di improvvisazione al cui esito sarà funzionale accendere e spegnere la telecamera. Cosa che faccio anch’io, eclissandomi e recuperando una posizione abituale, riabituandomi a ruolo consueto, fatto di ombra, di buio, di posizione ancillare e discosta rispetto al palco in cui riverbera piena la luce, situazione più consona al testimone che sono che al protagonista che non voglio essere.
Danzatori e danzatrici iniziano ringraziando e salutando, e quando si decide di riapparire, a ognuno è chiesto di farlo in modo sorprendente, comparendo da un’altra parte. Qualcuno riappare con un oggetto in mano, qualcun altro tenendo qualcosa in bocca, chi sotto le coperte chi in una stanza diversa da quella in cui si trovava prima, chi a testa in giù, chi all’esterno del posto in cui era. E questo gioco di accendere e spegnere le webcam crea in automatico una sorta di rapidissimo montaggio che trasmette la sensazione di stare a guardare un videoclip.
Continua a colpirmi il senso di leggerezza con cui tutti si lasciano gioiosamente trasportare nella dimensione del gioco. Una fragola, una racchetta, una padella, un accendino, un barattolo di conserva, un fon, una bambola: ognuno mostra un oggetto, chi un avocado, chi un bicchiere, chi un pomodoro, o ancora un pezzo degli scacchi, un martello, un rotolo di carta igienica, una maschera, un salvadanaio, un foglio scritto, le carte dei tarocchi, un ventilatore.
E all’apparire della parola, il “palcoscenico” deve svuotarsi, per poi riempirsi nuovamente di entrate sorprendenti; ingressi dapprima liberi, con i corpi nella loro interezza, poi solo coi piedi: vediamo piedi nudi, piedi calzati, piedi in scarpe coi tacchi a spillo o con indosso solo dei calzini, scarpe indossate o solo mostrate, piedi veri o solo evocati per iscritto. Fino a svuotare di nuovo la scena. E aprirla ai fiori: fiori veri o di carta, di tessuto o disegnati, facendo i danzatori attenzione ad apparire a non più di cinque per volta in scena, dandosi il cambio e mostrando ognuno il proprio virtuosismo.
Cercando posizioni impossibili, posture improbabili, dettagli sorprendenti.
È un lavoro sulla fantasia, che è motore di sorpresa, sull’inventiva: un dettaglio anatomico, una smorfia, una posizione stramba, un gesto inconsueto, un’espressione inusuale, tutto ciò che consente di allargare l’orizzonte della creatività e dell’immaginazione è utile alla bisogna.
Il montaggio spontaneo che ne sortisce somiglia ancora una volta al ritmo incalzante di un videoclip, nel quale si susseguono immagini di volti ma non solo: il dettaglio di una calcolatrice, un calzino che diventa un guanto, un momento di giocoleria o uno strafalcione smaccato.
E poi ancora voguing, di nuovo voguing, fortissimamente voguing, fino alla nuova sorprendente uscita di scena, improvvisa e inaspettata.
Chiudendo grati. E ripetendoselo, col piacere di farlo, di dirselo e di assaporare il gusto di codici espressivi che, un giorno dopo l’altro, diventano sempre più traccia e segno di appartenenza a questo gruppo. Che resta insieme anche oltre la fine dell’attività stabilita.
È l’ultima sorpresa di giornata.
Appuntamento a domani.

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