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Tuesday, 13 April 2021 00:00

Graces Anatomy. Diario di bordo – Giorno 1

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Abbiamo una barriera da rompere; quella di spazi resi angusti da un presente critico e aberrante, fatto di solitudini confinate tra quattro mura, che ci privano della possibilità dell’incontro, del contatto con l’altro. E ci privano, tra le altre cose, di quella che abbiamo scoperto essere più “altra” di tutte: il teatro. Che è “altro” e residuale nella considerazione di chi governa e che sconta una marginalità che – pur essendone stato sempre consapevole, e in qualche modo persino intimamente fiero – non lo aveva mai visto relegato a un’importanza così subalterna e a un ruolo ritenuto così poco primario nell’economia delle nostre vite.

Sicché il teatro in quanto tale, così come lo conosciamo, nel nostro Paese è fermo. Lo è nella sua forma “spettacolare”, quella che offre in visione e in presenza la propria forma e sostanza. E che oggi può essere tutt’al più demandata a una fruizione che passi attraverso canali virtuali, “mediati” da strumenti tecnologici che ne violano inevitabilmente l’essenza.
Per lo spettacolo dal vivo, unico strumento che mi sento di adottare è l’attesa.
Diverso il discorso per i processi creativi e formativi, che per la loro stessa natura di fasi transizionali possono anche sfruttare le opportunità tecnologiche del presente per surrogare (ché comunque sempre di surrogare di lavoro che non è possibile svolgere in presenza si tratta) opportunità d’incontro e di lavoro che altrimenti non ci sarebbero. E che si spera tornino buone e propedeutiche per quando torneremo in teatro di persona.
E così, Scenari Visibili, compagnia di stanza al Tip Teatro di Lamezia Terme, ospita la residenza creativa Danza Pubblica – Graces, della Compagnia Zebra, diretta da Silvia Gribaudi. Residenza che prende le mosse dallo spettacolo realizzato dalla compagnia (Graces, appunto), e che era originariamente destinata a selezionare quindici performer under 35, il cui numero ha poi superato le quaranta unità. E si è scelto di accogliere dentro tutti.
E tutti trovarsi giornalmente su Zoom e lavorare “da remoto”, come abbiamo imparato a dire adesso. Con tutte le problematicità del caso, che scontiamo noi stessi sotto forma di difficoltà iniziali di accesso alla piattaforma.
Ma una volta entrati, una volta appropriatici della nostra postazione “voyeuristica”, è bello abbandonarsi alla visione di corpi in azione, disposti a firmare tacitamente un patto che li mette in gioco, sotto la guida di Silvia e dei suoi danzatori – oggi Andrea Rampazzo e Matteo Marchesi – facendosi prendere per mano in un percorso del quale proveremo a tenere diario giornaliero.
E la locuzione “mettersi in gioco” non è casuale, dal momento che la cifra del gioco è e (intuiamo facilmente) sarà pregnante nel lavoro di questi quindici giorni di residenza.
Silvia entra immediatamente in medias res, sparata, netta, entusiasta, coinvolgendo da subito i partecipanti in un fremere gioioso. A ciascuno viene chiesto un piccolo video di presentazione; il gruppo è cospicuo, lavorare con oltre quaranta persone potrebbe sembrare problematico: lo è, ma non lo sembra affatto. I ragazzi partecipano con un entusiasmo tangibile, assecondano le richieste di invenzione e movimento che Silvia, Matteo e Andrea porgono loro. Gli si chiede di ricercare la bellezza nell’espressione massima di cui si sentono capaci, li si esorta a uscire dallo spazio in cui si trovano, di spostarsi – per chi ne ha la possibilità – all’aperto, di “prendersi ciascuno la propria scena” per poi convogliarla in una condivisione piena in cui ognuno dovrà mostrare qualcosa, avendo cura di non lasciare mai vuoto lo spazio scenico virtuale.
Nei pochi centimetri quadrati di uno display mi trovo a dover scegliere cosa guardare, passo in rassegna in rapida carrellata gli schermi, cercando di soffermarmi su qualche dettaglio, ad esempio su come ognuno instauri il proprio rapporto con la musica: vedo Viviana scomparire progressivamente dall’inquadratura, Beatrice che sembra stia svitando il tappo di una bottiglia, mi soffermo sulle dita di Amina, o su Alessandra che sfrutta una poltrona come perno per muovere il proprio corpo, Domenico e Benedetto che si lasciano andare seguendo il ritmo concitato della musica, Sara che muove la testa scuotendola, o ancora Elena che la testa la tiene stretta tra due cuscini, Francesco e Antonella a testa in giù o Maria Stella che si muove sfogliando un libro; la concitazione di Kelly, Angela che offre il volto in primo piano alla camera, mostrandoci un dettaglio del proprio occhio che mi fa pensare a “un film di Ėjzenštejn sulla rivoluzione”.
Una frenesia gioiosa e condivisa, che si conclude in uno sperticato ringraziarsi a vicenda, lodarsi e scambiarsi frasi che diventano tacita convenzione di un nonsense con cui giocare: “Posso fare una domanda?” diventa richiesta burlesca di un interrogativo che non verrà mai posto davvero. Come pure chiedere (e chiedersi) se si ha fame diviene gioco verbale che prelude a una pausa. Ma non solo. Tutto questo riportato finora concorre a creare un clima e un sostrato comune: mangiare è un bisogno. Così come lo è muoversi. Così come lo è esprimersi. Il patto è sancito.
Ed è da lì che si riprende. Da Silvia che immette da subito un’energia che si diffonde come tra vasi comunicanti: sembrerebbe che si sia creata sin da subito una base condivisa, tavola d’appoggio solida per il lavoro da sviluppare nei giorni a venire. La Gribaudi esorta i partecipanti a muoversi anche oltre le mura domestiche (per chi ne ha la possibilità), portandosi dietro i propri dispositivi, fissi o mobili che siano. Si susseguono gli stimoli: far entrare un pezzo di corpo per volta nell’inquadratura – magari scegliendo una parte del proprio corpo che più piace – per poi vibrare come se ogni singolo corpo fosse un mazzo di fiori. Il tutto funzionale alla destrutturazione dei codici, una destrutturazione fatta, perché no, anche di pernacchie e linguacce, di corpi che si contorcono e facce che si distorcono in smorfie, una destrutturazione che possiede un eversivo senso di libertà, capace di travalicare la consapevolezza d’essere separati e distanti.
È un gioco “serio”, incessante, che sfrutta i principi di Graces e i suoi elementi, come l’uso di un fiore, simbolo di bellezza, mèta a cui tendere, obiettivo da raggiungere e al contempo strumento di lavoro, oggetto con cui costruire immagini. Un fiore o un suo surrogato, un fiore vero, finto o disegnato, col quale danzare, entrare in romantica relazione nel poetico momento di creazione di un assolo che diventa un passo a due, ‘io e il mio fiore’.
E il gioco continua, entrando e uscendo dall’inquadratura, muovendosi come la macchina da scrivere di Jerry Lewis (ché è quello il sottofondo in accompagno).
Alla fine di questa tranche creativa si ripete il gioco già visto in cui ci si complimenta vicendevolmente, in una esagerazione polifonica che è caotica armonia di voci e d’entusiasmi; entusiasmi che un attimo dopo sono demandati ai soli gesti, senza voce.
Le fasi si susseguono, dal lasciarsi ispirare da un mood che richiama una sfilata all’attraversare una fase di “noia”, distrazione, scazzo e sbadigli: anche questa è una burla, un gioco a cui si è aderito tacitamente, senza aver nemmeno bisogno di dirselo; gioco superato col gioco: gli si oppone una fase che ha come denominatore comune e principio ispiratore il concetto di “resistenza”, che ciascuno declina a modo proprio, chi muovendo tutto il corpo, chi solo due dita (resistenza quasi gandhiana), chi facendo esercizi, chi invece trattenendo il respiro.
I corpi in azione introiettano gli input che ricevono, vengono stimolati a farsi recettori totali, come avessero occhi in ogni loro parte, occhi con cui guardarsi, con cui appropriarsi dello spazio circostante, con cui scrutare la forma che assumono progressivamente, fino a diventare sculture in movimento, immagini da assaporare per un attimo per poi lasciarle andare.
A questo punto, dopo aver fatto esperienza seppur parziale di alcuni principi cardine di Graces, viene chiesto a ciascuno di rielaborarli personalmente  in un video di un minuto, un video incentrato sul virtuosismo e su ciò che fa stare davvero bene.
Aurora mostra la sua abilità nel mangiare e truccarsi contemporaneamente; Didi ci offre con comica efficacia il suo “cavallo di battaglia”: nitrisce; Beatrice suona la chitarra col volto incastonato in un cappuccio di fiori, Giorgia ci dimostra come sappia scrivere col corpo, impiastricciando con le mani una lavagna affissa al muro.
È un gioco, il gioco serio del teatro. È un gioco che sa che non deve prendersi troppo sul serio.
Si finisce cantando a squarciagola, in una sorta di karaoke in playback, Sei bellissima della Berté, ciascuno imbracciando qualcosa che surroghi un microfono: una bottiglia, un fiore, una bambola, un lecca-lecca. Mentre Angela si tiene le orecchie tra le mani. E sorride.
Osservo, seguo, registro, prendo nota, provo a capire e a estrapolare. Ma nemmeno troppo. E mi ritrovo a sorridere.

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