“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 28 November 2017 00:00

Sesso e regresso

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All’interno di quello che fu un plesso scolastico, nel quartiere Libertà di Bari, c’è Spazio 13, un hub che prende il nome dal numero delle associazioni che concorrono ad abitarlo e a farlo vivere di attività varie; tra queste, il teatro. Sworkers, della Compagnia Acasă è lo spettacolo itinerante che – come era stato itinerante già il precedente H24_Acasă visto al Palazzo Baronale di Novoli nell’ambito de I Teatri della Cupa – trasporta gli spettatori in un percorso che si snoda attraverso le stanze poste ai piani più bassi dell’edificio, come a voler condurre metaforicamente in un viaggio agli Inferi, per raccontare dell’intrinseco degrado di una condizione, quella della prostituzione, indagandone pieghe sfaccettate e offrendone un punto di vista che ribalta l’angolazione, guardando al fenomeno (e al suo sfruttamento) da una prospettiva che si pone dall’interno e che tenta di offrire una panoramica non solo varia sul piano delle casistiche, ma anche composita dal punto di vista della costruzione scenica.

Assistiamo così a sette vicende indipendenti e consecutive, che portano gli spettatori a spostarsi di volta in volta, di stanza in stanza, di monologo in monologo, in una transumanza che denota qualche fatica logistica che parzialmente inficia la funzione a cui è protesa e che apparirà chiara alla fine dell’intero spettacolo, ma che lascia qualche perplessità sul meccanismo dell’itineranza del pubblico. I quadri scenici che si succedono sono indipendenti l’uno dall’altro – sebbene legati da un ben evidente filo comune – e differenti per scrittura e fattura, qualcuno riesce meglio, qualcun altro ha meno consistenza, ma nel complesso sono come tessere d’un mosaico che vanno a comporre un disegno unitario e omogeneo, disegno che procede verso una progressiva rarefazione della parola, per concludersi con le ultime due scene praticamente solo mimiche, come a voler rimarcare un progressivo svilimento e svuotamento della figura femminile, degradata dallo sfruttamento mercimonico del corpo a mero oggetto di consumo, deprivato della propria essenza umana.
E, in comune fra loro, oltre al tema di fondo queste storie di prostituzione più o meno ordinaria hanno anche quel ribaltamento prospettico di cui s’accennava dianzi e che consiste nell’offrire uno sguardo panoramico e diversificato su un universo sordido, scrutato attraverso il cono visuale di chi lo vive, lo agisce (e per lo più lo subisce) dall’interno. Spettroscopia trasversale di un ambito vario e diversificato, che parte dalla strada, raccontando in prima persona – in 2 metri quadri di Rossella Giugliano – quanto l’ineluttabile perdita di appetibilità di un corpo che s’avvia all’età matura possa portare ad un progressivo esautoramento dal giro, complici il “turnover” e la “multietnicità”, sicché quella porzione di marciapiede faticosamente conquistata e marcata in terra con un tratto di rossetto, finisce per diventare isola assaltata ed usurpata a causa della spietatezza delle regole del mercato. Una descrizione, cruda e reale, di una condizione liminare e precaria, che mette in evidenza come si abbassi progressivamente l’asticella del degrado. E, sempre rimanendo nello stesso ambito, ma spostando di qualche metro scena e prospettiva, ascoltiamo il monologo di Marco Grossi L’abito della prima comunione, nel quale il cono prospettico è quello di un pappone, che con grottesca naturalezza racconta del proprio “lavoro”, finalizzato a soddisfare i bisogni di una famigliola dall’apparenza normale ma fondata in realtà sulla violenta sopraffazione delle donne che tiene soggiogate, barcamenandosi tra i due ruoli di protettore e di padre vissuti con paradossale identico senso di responsabilità e con diametrale differenza d’approccio umano.
Da un’aula all’altra, passiamo anche dalla strada all’evocazione di una dimensione differente, direi “manageriale”, con A. A. A. offresi – a mio avviso tra i monologhi quello più acuto e meglio strutturato – ottimo nel dipingere attraverso la figura sexy e imprenditoriale di una escort l’innalzamento di un livello “professionale” alla stregua di una vera e propria agenzia di servizi; ne viene fuori un monologo graffiante, acuminato, in cui Marianna De Pinto tratteggia un quadro desolante e spietato non solo del proprio universo valoriale di riferimento, ma anche di quell’”ammasso di frustrazioni e di rimpianti” che abita corpi e menti che giudicano ma che sotto sotto invidiano (“quanto siamo simili, quanto nel segreto della tua anima tu vorresti essere me”, dice rivolta sarcastica e sprezzante ad un’immaginaria donna emancipata e progressista), perché lei sembrerebbe incarnare una donna che ha preso in mano le briglie del proprio destino, conducendolo con piglio deciso e risoluto e sembra ostentare, oltre che una realizzazione economica, un’adesione morale al proprio ruolo, alla sua legittimità (“ci pagherei anche le tasse… ma per loro non esisto”), riuscendo a mantenere in bilico il giudizio, suggerendo sfumature di senso che esulano da un’ottica moralisticamente manichea per lasciarti ad un ragionare controverso, complice la concitata spigliatezza con cui ti ha dimostrato di non essere “una piaga sociale che si autoalimenta” quanto piuttosto un prodotto derivato del sistema.
Il percorso spettacolare ci porta poi in una stanza contigua, nella quale si trova un vero e proprio palco, su cui Erika Lavermicocca dà vita ad Interno, spaccato della dimensione mediata e cibernetica di una società dell’apparire in cui gli schermi telematici rappresentano la vera finestra dalla quale affacciarsi sul mondo e attraverso la quale al mondo mostrarsi: è una bambina che, mentre è ancora abbracciata al proprio orsacchiotto di peluche, nel chiuso della propria cameretta, si è aperta al mondo attraverso lo schermo perverso e distorto di un computer, così surrogando la disattenzione del mondo reale dei propri affetti, relegato oltre la porta chiusa della sua stanza; i suoni gracchianti, l’uso del microfono, il computer sono tutti elementi che sottolineano questa dimensione “mediata” e indotta e tracciano un microspaccato di una condizione diffusa, in questo caso descritta in uno dei suoi possibili sbocchi devianti.
Dall’altro lato della sala è poi la volta di una storia di violenza e segregazione perpetrata nei confronti di una bambina; Manuela Vista in Gramigna è confinata in un quadrato di terreno e racconta lo strazio di una bambina strappata alla famiglia insieme alla sorella, poi divisa anche da lei, e costretta a diventare giocattolo sessuale alla mercé della più laida clientela, costretta in uno spazio angusto e senza orizzonte, un’erbaccia sulle mura che la recludono il suo unico panorama, su cui veder spuntare un fiore giallo; prostituta bambina, preparata come una bambola, lavata pettinata e data ad un “signore”, vita strappata, fantasia negata, strazio a cui non c’è rimedio, devastazione da cui non c’è riscatto, fiore che affonda le proprie tenui radici in una terra infeconda, che finirà per sporcarla anziché farla fiorire.
Gli ultimi due quadri del percorso di Sworkers sono privi di parole, mute coreografie che riportano alla nuda verità del corpo e che completano la quadreria umana sul mercato del sesso: Fatou Cisse in Oboman è una ragazza di colore, capelli crespi e movimenti delicati; tenendo per le braccia un manichino nero, ci danza, lo accarezza, lo appoggia ad una parete, ne raddrizza le gambe flesse, lo coccola, lo stringe a sé in un abbraccio e nel simbolismo dei suoi gesti, intravediamo la rarefatta allusione ad un’umanità lontana e sradicata: chi è quel manichino? Un affetto lasciato lontano? Un compagno perduto? Non lo sappiamo, ma percepiamo di essere ancora nel solco di una muta sofferenza indotta e perpetrata nei confronti di chi patisce uno stato di minorità e debolezza, aggravate da una solitudine lontana.
Infine, si ritorna laddove il percorso teatrale aveva avuto inizio e – sempre lasciando che a parlare sia il solo corpo – Maristella Tanzi appare dal fondo di un corridoio per farsi bambola meccanica in Real Doll: movimenti convulsi e contorsioni, corpo che si snoda come quello di una marionetta meccanica, mentre in audio si diffondono suoni montanti in cui l’amplesso trascolora in sofferenza; corpo di donna che si fa oggetto, macchina di carne devoluta ad un’idea asettica di piacere, ganglio meccanico di un ingranaggio da produzione industriale, prodotto sessuale seriale. In questo approdo finale, nel progressivo fluire verso una costruzione drammaturgica più rarefatta e immaginifica, votata alla spersonalizzazione, sembra risiedere l’essenza itinerante di Sworkers: un percorso che, nel raccontare panoramicamente l’universo del sesso a pagamento, tende a voler porre l’accento sul depauperamento umano passando attraverso lo svilimento del corpo, reso sempre più impersonale simulacro di un’essenza violata, di un’umanità perduta.

 

 

 

 

Sworkers
ideatrice e dramaturg Valeria Simone
autori Valeria Simone, Marianna De Pinto, Maristella Tanzi, Marco Grossi, Rossella Giugliano
con Marianna De Pinto, Erika Lavermicocca, Maristella Tanzi, Marco Grossi, Manuela Vista, Rossella Giugliano, Fatou Cisse
costumi e oggetti di scena Porziana Catalano
visual design Maria Grazia Morea
disegno luci Michelangelo Volpe
organizzazione Marilù Ursi
produzione Acasa Associazione Culturale
lingua italiano
durata 1h 20’
Bari, Spazio 13, 22 ottobre 2017
in scena 21 e 22 ottobre 2017

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