“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 29 October 2017 00:00

Sul “Progetto Amunì”: intervista a Giuseppe Provinzano

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“La civiltà è un movimento, non una condizione; un viaggio e non un porto”.
(Arnold J. Toynbee)
 

Palermo è storicamente un crocevia di culture, mediterranea per posizione, multiculturale per vocazione. Palermo (e più in generale la Sicilia) è snodo fluido per osmosi culturali possibili, luogo aperto e porto franco per identità in movimento che si mettono in relazione. Il Progetto Amunì nasce all’insegna di questo spirito, fattivo, progettuale e col dichiarato intento di sottrarre l’idea di migrazione alla stereotipia che l’etichetta come mera emergenza sociale; è un tentativo di conferire al concetto di migrazione un senso più profondo, che ha a che fare con l’essenza dinamica e creativa del viaggio, inteso come percorso stratificato e complesso, capace di generare valore sociale e culturale.
Abbiamo chiesto a Giuseppe Provinzano, che con l’associazione Babel Crew ha strutturato il Progetto Amunì, partito a maggio scorso, di raccontarci cos’è stato finora e cosa potrà ancora essere.


Che cos’è il Progetto Amunì, come è nato, quali sono le sue finalità e qual è il percorso che si è scelto per metterle in pratica?
“Amunì” è termine della lingua siciliana che indica contemporaneamente la proposta e l’accettazione ad andare: a domanda “Amunì?” si risponde “Amunì!”. Amunì è un progetto di formazione delle arti e dei mestieri dello spettacolo dal vivo ideato da Babel Crew e tra i vincitori del bando MigrArti 2017 indetto dal MiBACT: il progetto si è rivolto trasversalmente a “chiunque abbia vissuto nella sua vita la condizione di migrante” volendo far esplodere lo stesso significante del termine ‘migrante’ cercando di rintracciare quella linea, quel punto di partenza e di contatto tra esperienze diverse, quella spinta che ha attraversato ogni migrante di ogni tempo e luogo. Quell’“Amunì” appunto, traducibile nelle altre lingue in un “Lets’go”, “Alons”, “Vamos”, “Yalla”. Il Progetto Amunì è stato un ciclo di laboratori di formazione multidisciplinari e trasversali all’interno delle pratiche del teatro in modo da restituire ai partecipanti le competenze di base per intraprendere un percorso professionale. Quattro laboratori: quello teatrale multidisciplinare (teatro, danza, musica, canto e narrazione) e altri tre percorsi rivolti ai mestieri attorno alla scena: scenotecnica e scenografia, comunicazione, organizzazione. L’obiettivo è (iniziare a) dare le competenze di base per la creazione di una Compagnia dei Migranti con sede a Palermo che prenda questo primo percorso come input per poter continuare nella sua formazione e strutturazione attraverso un processo di auto-costituzione e determinazione che passasse direttamente alla e dalla pratica. Non teatro di comunità ma teatro d’arte o, se proprio vogliamo dargli una definizione contemparanea, “teatro sociale d’arte”: restituire nell’immediato un approccio professionale, che si è arricchito profondamente del confronto tra professionisti e non, che ha dato gli strumenti ai partecipanti per definire in ognuno il proprio talento e la relativa volontà di abnegazione al lavoro teatrale mentre al gruppo restituiva un potenziale sul quale costruire un futuro.

Chi sono stati i partecipanti? Come è avvenuta la chiamata? Di che provenienza sono?
I partecipanti sono stati davvero tanti: in totale, tra tutti i percorsi laboratorali, hanno partecipato circa sessanta persone e tanti altri si sono avvicinati al progetto. Le richieste per il laboratorio artistico multidisciplinare sono state tantissime (circa centocinquanta) ma abbiamo deciso di selezionare quei venticinque che rispondessero maggiormente ai requisiti necessari. Non abbiamo chiesto nessun curriculum, proprio per guardare tutti con lo stesso sguardo. E quelli di coloro che li hanno inviati lo stesso non li ho guardati proprio. Piuttosto a tutti ho chiesto di declinare il concept del progetto, la trasversalità del concetto di migrante, il diritto alla mobilità di ogni essere umano come diritto dell’uomo, di dirci come e se interessato a questo processo di auto-costituzione. È venuto fuori così un gruppo veramente eterogeneo, composto da professionisti e non, ragazzi che non avevano mai messo piede in un teatro nemmeno come spettatori insieme ad attori e attrici con la dovuta formazione. Tutti però, al di là della loro esperienza artistica e professionale, con un minimo comune denominatore che li ha legati sin dall’inizio: tutti sono stati in qualche modo migranti e potevano dare al gruppo il necessario apporto e avere il giusto approccio verso la direzione di questo progetto.
Abbiamo aperto delle open call pubbliche, organizzato diversi incontri di approfondimento ma soprattutto abbiamo percorso tanta ma tanta strada per le vie di Palermo a parlare vis-à-vis con i ragazzi e le ragazze che magari erano impossibilitati a intercettare le open call attraverso i canali social e di comunicazione tradizionali. Preziosi in tal senso sono stati i partner del progetto: MoltiVolti, un co-working che ha messo al centro del suo modus operandi il confronto culturale e linguistico, frequentato quotidianamente da uomini e donne da tutto il mondo, il Centro Astalli che si occupa di prima accoglienza e che ci ha permesso di incontrare i ragazzi ospiti per cercare di spiegare nel dettaglio il percorso e carpirne curiosità e interesse; il Pyc_Palermo Youth Centre, The Factory e CSF_Cooperazione Senza Frontiere, tre associazioni che si occupano di volontariato europeo che hanno avvicinato al Progetto una diversa tipologia di soggetto migrante. 
Non cercavamo grandi numeri ma grande passione, grande voglia, talento e abnegazione. I laboratori sono stati molto intensi e veramente formativi: alla fine di questi il gruppo si è selezionato quasi da solo. Posso dire di non aver operato grandi scelte: mi è bastato stare in ascolto con quello che mi suggerivano le dinamiche in scena e attorno alla scena, il livello del confronto tra i ragazzi, la necessità di cercarsi e riconoscersi nell’altro, la capacità di ascoltarsi che trasversalmente ha unito i ragazzi dalla scena alla vita e viceversa.
Dieci attori e attrici (Marta Bevilacqua, Meniar Bouatia, Molka Bouatia, Bandjougou Diawara, Rossella Guarneri, Fabio Hirrera, Youssif Jaralla, Hajar Lahmam, Bright Onyeuse, Andrea Sapienza), provenienti da Mali, Nigeria, Marocco, Tunisia, Iraq e Italia. Tutti diversamente migranti. Altri otto ragazzi (provenienti da Egitto, Venezuela e Italia) sono stati selezionati per la creazione del gruppo scenotecnico che ha lavorato a fianco delle attività sceniche, seguendo laboratorio e prove, per poi ideare e realizzare le scene dello spettacolo, mentre per altrettanti ragazzi i laboratori di organizzazione e comunicazione si sono trasformati ben presto in veri e propri staff che hanno alternato momenti di formazione e confronto alla pratica del lavoro attorno al processo creativo.

Ci racconteresti cosa è stato il progetto? Come si è sviluppato, com’è cresciuto e quale sarà il suo completamento?

Difficile raccontarlo in poche righe. Ho tenuto un diario di bordo che sono i miei appunti, ma ad un certo punto io stesso ho perduto la rotta, perché il Progetto Amunì è stato quanto di più intenso umanamente e artisticamente abbia mai vissuto nella mia carriera. Non esagero quando mi esprimo in questo modo. Però il coinvolgimento da parte di ogni singolo partecipante che ha vissuto il percorso dal primo all’ultimo giorno è stato devastante e totalizzante. In ogni senso. Tre mesi ad alta intensità temporale ed emotiva che mi sono sembrati trenta, tali e tante sono state le storie che ci hanno attraversato, le problematiche che abbiamo affrontato e risolto, tale e tanto è stato il confronto umano e artistico, tale e tanta la strada che hanno percorso questi ragazzi, talee tanta la loro crescita. Abbiamo iniziato con un laboratorio multidisciplinare della durata di tre settimane, mettendo sin da subito i ragazzi di fronte alla quotidiana continuità e all’approfondimento delle pratiche necessarie per intraprendere, a nostro avviso, il percorso di auto-costituzione e l’allestimento di questa prima produzione. Tre settimane, sei giorni a settimana, otto ore al giorno: una selezione assolutamente naturale che ha visto i partecipanti comprendere giorno dopo giorno la serietà e l'abnegazione necessarie. Molti si sono persi per strada, altri abituati alle attività che propongono le numerose associazioni sul territorio con appuntamenti bi\tri-settimanali non hanno retto la mole del lavoro quotidiano, altri ancora non hanno retto la richiesta fisica, emotiva e mentale che il teatro, questo modo di fare teatro, richiede; mentre diverso è stato l’apporto dei professionisti al progetto che si sono dovuti calare in una dimensione in cui era loro richiesta una partecipazione che li ponesse in un confronto alla pari da un punto di vista umano ma anche che li facesse essere punti di riferimento per chi era alle prime armi.
Il gruppo si è formato e scelto da solo, come un gruppo di uomini e di donne che davano e ricevevano dagli altri la necessaria fiducia per intraprendere questo viaggio che, senza soluzione di continuità, è diventato allestimento, intensificando senza sconti di nessun tipo la partecipazione e la frequenza: durante il laboratorio ho deciso di non presentare ai partecipanti il testo (Il rispetto di una puttana, liberamente ispirato a La Putain respectueuse di Jean-Paul Sartre)  ma di raccontare loro la storia, col piglio del narratore, non facendo mancare una certa dovizia di particolari che restituisse loro diversi spunti di riflessione, affrontando le tematiche mentre si tentava di guidarli verso un linguaggio scenico ed espressivo, per dare loro la possibilità di rintracciare la necessità di una storia da raccontare senza che perdessero la bussola dietro alla parola. Parole che sono arrivate: durante il laboratorio i ragazzi hanno lavorato sia all’avvicinamento e all'approccio alle arti sceniche sia allo svisceramento delle tematiche, con un contributo attivo che individuasse quali fossero per loro le più necessarie e di conseguenza anche ponendo degli accenti su un aspetto o su un altro, facendo delle proposte anche sceniche che, per quanto scarne, hanno poi fatto parte in qualche modo del tessuto e dell’ossatura dell’intero allestimento. Si è scelto insieme, per esempio, dando seguito a una richiesta del gruppo, di recitare in italiano, così come di rifuggire qualsiasi retorica in merito a tematiche come quella trita e ritrita del viaggio, della speranza e delle difficoltà in salsa da storytelling spesso presenti in questo genere di operazioni, concentrando la nostra attenzione sulla discriminazione all’interno della società contemporanea, tematica al centro della drammaturgia dello spettacolo e dello stesso testo di Sartre.
Infine uno spettacolo, coi suoi pregi e i suoi difetti come è normale che sia, ma in cui ognuno è stato investito da una responsabilità scenica importante: nessuno è stato emarginato perché meno talentuoso di un altro, lo spettacolo e il teatro in senso lato non ha sovrastato alcuno dei partecipanti per salvaguardare e ben confezionare un prodotto, nessuno ha fatto da “comparsa\presenza” perché non in grado, piuttosto il Progetto Amunì è stato in grado di dare ad ognuno di loro gli strumenti per reggere la responsabilità scenica a cui era destinato. Perché credo che la cosa più importante che passa sia la voglia di questi ragazzi di stare in scena ed è la cosa che ho chiesto loro sin dal primo giorno, dimostrare di volerci stare, a me, a loro e a chiunque venisse a vederli.
Non meno importante il lavoro che è stato fatto attorno alla creazione scenica: i ragazzi che hanno seguito i laboratori inerenti ai mestieri dello spettacolo hanno vissuto quest’esperienza con grande passione, hanno inteso l’importanza dei ruoli tecnici e organizzativi attorno alla scena, hanno mostrato interesse, curiosità, abnegazione e capacità di altissimo livello: anche in questo contesto si sono confrontati ragazzi provenienti da studi accademici con ragazzi che magari avevano semplici esperienze di falegnameria o da elettricista, o ragazzi che avevano studiato comunicazione con altri semplici millennials avvezzi di default alla comunicazione social. Tutti trasversalmente in costante contatto con quanto avveniva sulla scena, consci di dover dare sostegno e contributo − e forse maggiormente lucidi rispetto ai loro compagni sul palco − a questo processo di auto-costituzione in corso, consapevoli dell’obiettivo che è stata questa prima produzione e dell’importanza di un confronto reale che creasse relazioni e sortisse potenziale futuribile. 
Come si completerà? È un processo in fieri: lo spettacolo vogliamo provare a portarlo in giro, laddove riteniamo importante che questa prima produzione debba mostrarsi il più possibile e non relegarsi alla considerazione da esito di progetto. Giusto per delineare una certa atipicità. Comprenderai quanto sia difficile portare in giro uno spettacolo con dieci attori in scena, praticamente siamo fuori mercato secondo gli standard attuali, ma i ragazzi vogliono gettare il cuore oltre l’ostacolo e provarci ugualmente, consapevoli delle difficoltà ed entusiasti del nostro lavoro. Sarà molto difficile riuscire a varcare questa soglia.
Di contro, vorrei ugualmente che lo spettacolo riesca a far parlare di sé in quanto tale, ma anche che racconti il processo di creazione che ci sta dietro, il progetto e la sua potenzialità, il suo vulnus creativo e la sua relatività sociale, che non venga valutato come mero prodotto da cartellone da applaudire, fischiare, recensire, stroncare ma come processo in divenire in cui il teatro è sia mezzo che fine; e in tal senso mi piace citare Andrea Porcheddu e la sua “nuova” definizione di Teatro Sociale d’Arte (da Che cosa c’è da guardare, Glifo Edizioni), una riflessione a mio avviso importante, pertinente e lungimirante in questo nuovo millennio che vede tanti artisti, anche ben più strutturati e di spessore del sottoscritto, confrontarsi con una certa diversità scenica guardando anche verso una nuova estetica che si compenetra appieno con il processo di creazione e le sue dinamiche, processo che genera un prodotto che non può essere sottovalutato o analizzato senza una necessaria attenzione. 

Cosa ha significato e sta significando l’avvicinamento alle professioni del teatro per i partecipanti?
Un’alternativa. Sicuramente questa è la parola più esaustiva per esplicare i vari significati che attraversano la loro partecipazione al Progetto Amunì. E quando parlo di alternativa intendo le diverse declinazioni che il termine in questione può dare: un’alternativa nella vita reale perché occasione di un confronto alla pari con persone con storie diverse ma che hanno deciso di mettersi in gioco allo stesso modo allo stesso livello nello stesso contesto e con lo stesso linguaggio; un’alternativa culturale se, come è stato, i ragazzi hanno scelto per esempio di recitare in italiano e partecipato al processo creativo in maniera attiva apportando modifiche e contributi degni di nota alla creazione; un’alternativa professionale perché hanno tutti compreso molto chiaramente quanto sia complesso poter fare del teatro un mestiere e sono pienamente consapevoli di quanto il loro percorso di formazione sia assolutamente agli albori ma ognuno di loro ha preso questo avvicinamento come una nuova possibilità, presente e futura. Dare loro gli strumenti professionali, farli immergere nelle pratiche quotidiane ha fornito a ognuno di loro una consapevolezza dei propri mezzi artistici, tecnici, organizzativi, comunicativi e sociali diversamente intesi e pertanto gli ha offerto un’alternativa a un percorso di vita, portandoli a confrontarsi con le proprie difficoltà e con quelle di un gruppo come quello del Progetto Amunì. Credo che sia proprio questa la cifra del progetto per loro: è stato formazione, breve, intensa ma a tutto tondo, è stato processo di creazione per uno spettacolo con tutti i suoi crismi, in cui il teatro è un mezzo per confrontarsi e il fine per dare e darsi uno spunto di riflessione. Porsi delle domande. Reali e funzionali. Imparare a conoscersi e riconoscersi nella diversità e nella fiducia che ha l’altro nei tuoi confronti.
Qualche giorno fa una delle ragazze partecipanti, davanti ai miei occhi, a una sua coetanea che le chiedeva cosa facesse nella vita ha risposto: “Lavoro in un locale e poi faccio teatro”.

Come è stata recepita questa iniziativa dal contesto circostante? Se c’è stata interazione tra progetto e città, prima ancora dell’esito spettacolare, che relazione si è stabilita tra i partecipanti al progetto e il contesto sociale in cui è inserito?

Sinceramente non saprei dirti con coscienza oggettiva: siamo stati talmente immersi all’interno del nostro viaggio e del nostro lavoro che non abbiamo una percezione chiara di come la città abbia percepito il Progetto Amunì in corso d’opera. Palermo è una città abbastanza all’avanguardia in merito ad integrazione e confronto culturale. Siamo storicamente una città che dialoga con le altre culture, che le accoglie, che si interroga sull’importanza dell’integrazione sociale, seppure ancora ci sia tanto bisogno di lavorare soprattutto per far emergere queste tematiche in contesti di povertà culturale e sociale, ma questo porta Palermo a essere una città molto attiva in tal senso e di conseguenza anche nei confronti del progetto l’interesse è stato molto alto sebbene all’interno di un contesto cittadino comunque molto attivo. Il Progetto Amunì è stato residente, grazie alla collaborazione con il Teatro Biondo, nel complesso del Montevergini, in pieno centro storico, un ex convento a cui negli anni passati è stata data un’importante vocazione artistica e culturale (sebbene le istituzioni odierne lo stiano lasciando in uno stato di assoluta decadenza) e questa nostra presenza tra i cittadini del quartiere e i turisti delle isole pedonali è stata molto simbolica: la città ha visto questi ragazzi impegnarsi nel progetto in tutte le sue pratiche artistiche, tecniche, organizzative; i ragazzi sono stati continuamente stimolati da domande e curiosità di altri ragazzi che dopo un'iniziale diffidenza hanno poi mostrato interesse. Abbiamo ricevuto la visita di amici e conoscenti curiosi del nostro percorso. L’interesse c’è stato, ma infine credo che la chiave di volta di un progetto come Amunì stia nella continuità che il suo potenziale può costruire, che non sia un progetto come tanti − pur di altissimo profilo − con un suo tempo determinato e circoscritto, ma che trovi la sua specificità nella continuità.

Che tipo di rapporto si è instaurato tra i diversi partecipanti ad Amunì? In particolare, com’è stata l’interazione tra professionisti e non professionisti?

Devo dirti che la cosa per me più difficile è stata proprio questa: trovare una prassi metodologica che andasse bene per i professionisti e per i non professionisti, che non facesse “annoiare” i primi e desse loro gli strumenti per un processo creativo e di condivisione e che non fosse “troppo” per i secondi bensì afferrabile e interpretabile. C’è stato uno scambio di energie molto positivo sin da subito: un piano di ascolto emotivo e intellettivo di altissima qualità che ha portato i ragazzi a scegliersi, a creare spontaneamente un gruppo e una dinamica di gruppo. Non so dire quanto fosse merito loro e quanto nostro che conducevamo il laboratorio, ma di certo al momento di procedere a una selezione che stringesse il gruppo in realtà non ne abbiamo fatta alcuna, era il gruppo che si era scelto, che aveva creato delle relazioni, i non professionisti hanno scelto in qualche modo i professionisti con i quali confrontarsi e di cui fidarsi e viceversa, così ci è bastato restare in ascolto con questo dinamica ed esplicitarla. Il gruppo che si è formato credo che sia la cosa più bella.

Cosa credi che lascerà in eredità questa esperienza a chi vi avrà partecipato?
La full immersion è stata talmente intensa che se mi avessi posto questa domanda nel pieno delle attività non avrei saputo dire quale potesse essere il contraccolpo: sono stati tre mesi intensissimi in cui siamo stati insieme per tantissimo tempo, dove ci siamo conosciuti come persone, dove abbiamo creato dei legami, superato dei limiti (sociali, culturali, personali, artistici e scenici), dove siamo cresciuti tutti, come persone e come artisti, in cui abbiamo imparato un sacco di cose, io per primo. Non mi piace parlare di eredità, perché è un termine che si lega a qualcosa che non ci sarà più, alla morte di qualcosa, mentre invece quello che avverto a distanza di qualche tempo, quando ormai ognuno in qualche modo ha ripreso la sua quotidianità, è che c’è un legame forte per questo viaggio intrapreso e per le persone che con cui è stato condiviso, c’è la voglia di nuovi viaggi e la cura che si ha quando si creano dei legami di fiducia e di affetto, c’è la consapevolezza che si sia trattato di un inizio e quindi piuttosto che di eredità vorrei parlare di ricchezza acquisita in termini di nuova conoscenza di se stessi, della pratica teatrale, del confronto umano.


Il Progetto Amunì sarà un’iniziativa destinata ad avere un seguito? E se sì, in che forme?
Il Progetto Amunì è stato ideato e strutturato con l’intenzione di avere una sua continuità finalizzata alla costituzione di una Compagnia dei Migranti gestita e diretta dai ragazzi che stanno iniziando questo percorso e da altri che ne verranno. Questa è la nostra speranza e a questo stiamo lavorando. Sin dal primo giorno ci siamo fissati obiettivi a breve medio e lungo termine e lo spettacolo che ha debuttato è stato considerato quello a breve termine. Perché vogliamo fare tutti tanta strada. Il processo di formazione intrapreso è ancora all’inizio e pertanto vorremmo che si completasse e avesse la possibilità di dipanarsi nel tempo con maggiore costrutto e approfondimento: questo necessita, ovviamente, come qualsiasi altro progetto del genere, di un sostegno particolare e costante − inutile prenderci in giro − economico e strutturale. I ragazzi hanno bisogno di una certa continuità di formazione perché le pratiche acquisite non si releghino nella sporadicità esperenziale di un’età, come la loro, in cui è viva e mutabile la necessità di costruirsi un futuro. La prima cosa che faremo per continuare a sviluppare le attività di formazione è dare innanzitutto una stabilità fisica e una residenzialità al progetto che si sposterà presso lo Spazio franco, un nuovo luogo che Babel Crew gestirà tra qualche mese a Palermo all’interno dei Cantieri Culturali alla Zisa (una storia che magari ti racconterò in un altro momento): avere una casa, un luogo in cui poter investire, darà sicuramente una grossa spinta e una certa concretezza. Struttureremo un progetto di formazione di base con gli artisti che già sono stati protagonisti di questo primo step e lavoreremo per reperire nuove risorse e nuove collaborazioni con altri artisti, altre strutture e anche con altre istituzioni, artistiche e non. Insomma le strade siamo pronti a batterle tutte... poi vedremo come andrà... se sarà questa un’utopia da inseguire o solo una grande ambizione.

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