“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 09 August 2017 00:00

Kilowatt, attraversamento di un'atmosfera

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Sansepolcro, borgo d’arte in cui l’arte si respira: in un’atmosfera rilassata, confortata da un clima benevolo che mitiga alquanto la calura estiva d’un luglio altrove ben più canicolare, Kilowatt Festival, sotto la direzione artistica di Luca Ricci, incornicia la sua quindicesima edizione. La attraverso nel suo mezzo, per tre giorni in cui si susseguono, raccolti nel perimetro circoscritto del centro biturgense, spettacoli, convegni, mostre, presentazioni di libri, oltre a tutto quel che già normalmente la cittadina toscana offre e che va da Piero della Francesca alla Deposizione di Rosso Fiorentino conservata in San Lorenzo, fino ad ogni angolo di questo borgo che trasuda arte e storia.

Il “principio speranza” è il motto ispiratore di quest’edizione, mutuato da Ernst Bloch e imperniato sul concetto concreto di speranza quale fondamento della realtà fattuale. E la realtà fattuale con cui ci confrontiamo è quella di un’offerta composita e multidisciplinare, nella quale ti imbatti misurando a passi brevi e fitti il centro storico di Sansepolcro. È il caso ad esempio delle esposizioni che vanno sotto il nome di Kilow’Art, come l’installazione video di Riccardo Lorenzi Chissà com’è invece il mondo visto da te, collage di istantanee sull’integrazione, ed è il caso soprattutto della mostra fotografica di Andrea Vezzini – tra l’altro uno dei “Visionari”, spettatori scelti di Kilowatt drante l’anno –  biologo di professione, la fotografia come qualcosa di più di una semplice passione. Rimango colpito e affascinato dai suoi scatti in bianco e nero, rigorosamente effettuati in analogico e non tanto per ricalcitrante misoneismo verso l’avvento del digitale, quanto per ricerca vocazionale di una purezza dell’immagine; la sua personale Dati incompleti, allestita nel Palazzo Pretorio, propone scatti che mettono a fuoco l’incompletezza della realtà e, all’interno di questa, la possibilità di ravvisarvi più piani, più storie, più vite, che ad un primo sguardo sfuggono e che invece abitano nei dettagli che compongono lo sfondo.
Ma il cespite d’interesse principale di Kilowatt è e resta il teatro. Lo spettacolo che dà il via al mio Festival è Opera sentimentale, una costruzione drammaturgica interessante di un piccolo romanzo famigliare, costruito come una fiaba memoriale e condotto in scena con una cifra espressiva tra il noir e il grottesco che colora di fosco e stempera con note di black humour la narrazione frammentata delle vicissitudini che contraddistinguono la prima cellula sociale, ovvero la famiglia, i cui simulacri campeggiano alle spalle sul fondo del palco. Sulla scena, divisa in capitoli che scorrono proiettati su un velario che taglia a metà l’assito, tre protagonisti (fratelli) appaiono mascherati da porcellini – il richiamo alla fiaba è immediato – e intessono un’interazione fondata sui ricordi di famiglia, dai quali emergono le polarizzazioni caratteriali e le distonie esistenziali dei tre, mentre i lutti s’elaborano quasi con indifferenza in un viavai tra le bare che prende forma di proiezione. Frammentario e graffiante, polifonico e distonico ad un tempo, Opera sentimentale appare come una drammaturgia magmatica e dalla forma non ancora ben definita, affidata ad un terzetto di interpreti – Matteo Angius, Riccardo Festa e Woody Neri – che si fa apprezzare per come riesce ad amalgamare le singole qualità attorali.
Un’opera perfettibile, se vogliamo disomogenea nella sua partitura complessiva, eppure animata da sapiente dosaggio di cinismo e introspezione nel condurre il proprio personalissimo tentativo di gettare uno scandaglio senza troppi filtri nel microcosmo della famiglia, istoriandolo in maniera desultoria e volutamente schizofrenica.
Ritornando all’atmosfera di Kilowatt, c’è un particolare che ne è significativamente esemplificativo ed è la scelta di far precedere gli spettacoli serali previsti in Piazza Torre di Berta dalla diffusione sonora delle Miniature campianesi, ovvero le narrazioni dell’infanzia di Ermanna Montanari, irradiate dalla sua voce; la Montanari è stata la madrina di questa edizione del Festival e la sua voce, diffusa in piazza a mo’ di preludio della messinscena di prima sera, oltre a raccontare lo sguardo di una bambina che scopre la crudezza della vita tra la neve ovattata e le consuetudini della vita in campagna in una Romagna d’un tempo lontano, i ricordi di una bambina che piange per i gatti annegati dal padre nel pozzetto dietro casa e impara poi a non sentire dolore per quel maiale macellato a cui aveva portato da mangiare per un anno intero, trasmette la sensazione profonda che la voce di Ermanna Montanari sia capace di contribuire a disporre lo spettatore/ascoltatore in un’atmosfera rarefatta e rituale che dispone all’ascolto e alla visione di quanto seguirà dopo, un po’ come se più che semplice madrina assurgesse al ruolo di nume poetico, la cui voce avvolgente permane nell’etere ben oltre il suo sfumare. Ed è sull’onda di questa suggestione sonora che ci dedichiamo alla visione di Che fine hanno fatto gli indiani Pueblo? di Ascanio Celestini, spettacolo di narrazione che si dichiara ancora nella sua fase di studio e che vede Celestini nella consueta veste di “narrattore” – più narrante che recitante, invero – imbastire un racconto fatto di storie che, mentre raccontano parlano d’altro, si staccano dalla narrazione tout court per offrirci lo specchio di condizioni interiori generali, che appartengono universalmente all’essere umano e che incidentalmente trovano vita nelle esistenze normali e marginali che si offrono al nostro sguardo se solo lo indirizziamo a un piccolo giro d’orizzonte; e così, in Violetta che fa la cassiera al supermercato e che conduce una vita sempre uguale, in Domenica che rovista nei cassonetti ed ama Said, nel bambino zingaro che fuma davanti alla scuola, c’è un po’ del nostro sguardo panoramico, del nostro affacciarci alla finestra per guardare nella finestra di fronte, per scrutare vite tra le vite pur tenendocene discosti e distanti. C’è, in Che fine hanno fatto gli indiani Pueblo? quella varia umanità che guardiamo senza vedere che sentiamo senza ascoltare e che scroscia via coi rumori di fondo del mondo, con la pioggia che lava via la visione scomoda e la derubrica in cronaca che ci sforziamo di credere non ci tocchi, che cerchiamo di convincerci non ci appartenga. La costruzione scenica è semplice: voce (quella di Ascanio Celestini) che narra con la consueta logorrea, senza soluzione di continuità, col suo tipico caracollare incalzante; a fianco a lui Gianluca Casadei, fisarmonica in accompagno; ma è la parola a dominare, è il racconto a farsi parabola, apologo sotto le spoglie di storie ordinarie, storie ordinarie in cui s’addensa l’umano universale.
Ed è l’umano ordinario ad essere protagonista anche in Nessuno può tenere Baby in un angolo, di Simone Amendola e Valerio Malorni, spettacolo sul quale già esprimemmo il nostro apprezzamento quando fece tappa a Napoli lo scorso marzo, rimarcandone il sottile e ambivalente gioco sfumato fra ciò che è e ciò che appare, tra il vero ed il reale, tra la colpa esteriore e l’essenza interiore. Poco mi sento d’aggiungere a quanto già scritto precedentemente, se non che lo spettacolo, in questa sua successiva visione, mi appare compattato, sfrondato di qualche passaggio che nulla toglie all’economia complessiva dell’opera, che ai miei occhi continua a possedere quella delicata intelligenza introspettiva a cui dà forza piena l’interpretazione di Malorni.

Produzione “di casa”, La lotta al terrore, di Lucia Franchi e Luca Ricci è una drammaturgia semplice e lineare nella sua composizione – come dichiara già dal titolo – e s’appoggia salda sulle capacità recitative di tre attori che in scena conferiscono spessore ad una vicenda che dà forma ad una di quelle paure che più si sta radicando nel nostro tempo: lo spauracchio del terrorismo s’insinua con la prepotenza della psicosi in un ufficio comunale in cui, assente il sindaco, sono chiamati a far fronte ad un’emergenza inaspettata il suo vice (Simone Faloppa), il segretario municipale (Gioia Salvatori) ed un impiegato comunale (Gabriele Paolocà).
La situazione di tensione montante, scandita dallo scorrere del tempo su un display a vista e circoscritta all’angustia di uno spazio chiuso, s’impossessa dei tre personaggi, i quali incarnano altrettante polarizzazioni comuni nel modo di porsi verso l’estraneo: rinchiusi in un ambiente circoscritto (la casa comunale), privi di una guida a cui delegare le decisioni (il sindaco è in vacanza ed è irraggiungibile al telefono), i tre protagonisti instaurano tra loro un rapporto concitato e a tratti conflittuale in cui i nervi si fanno tesi ed emergono le divergenze ideologiche: c’è chi mette al centro il problema in sé (il vicesindaco), c’è chi fa fuoriuscire sull’onda emotiva degli eventi tutta la propria intolleranza venata di xenofobia,  fatta di pregiudizi e luoghi comuni (“turchi, arabi, è lo stesso”, “ognuno deve vivere nel proprio Paese” e via dicendo – l’impiegato comunale), e chi invece antepone a qualsiasi scelta e decisione le questioni formali e i protocolli giuridici (il segretario comunale). In tutti domina comunque un senso di spaesamento, un’incapacità palese di fronteggiare l’emergenza, oltreché un senso di inadeguatezza che li vede tentare di sottrarsi a turno alle responsabilità. Il senso di tensione è acuito dalla concezione dello spazio, sviluppato in profondità e attraversato in tutta la sua ampiezza dagli attori, che debordano frenetici anche oltre scena; il meccanismo scenico procede a buon ritmo, tenendo viva la tensione fino all’epilogo, in cui il consumarsi del dramma darà la stura ulteriore alle paure alimentate dalla situazione emergenziale.
Lavoro onesto e “quadrato” che le interpretazioni dei tre attori contribuiscono ad elevare di livello, La lotta al terrore dedica uno sguardo oggettivo e antiretorico allo stato delle cose, descrivendo con plausibile realismo quel che sta accadendo nella nostra società di fronte ad un pericolo, più vero o più presunto è difficile stabilirlo, ma che comunque s’è insinuato nel nostro contesto e nel nostro immaginario veicolando reazioni disparate e contrapposte. Contrapposizioni tra chi è dentro e chi è fuori che simbolicamente si evincono dalla messinscena che rinchiude da un lato i protagonisti in uno spazio interno e dall’altro confina l’estraneità e il pericolo all’esterno, significativamente indicato da una porta finestra a fondo scena che s’affaccia fuori dall’edificio e significamente evocato dal telefono in centro scena che rappresenta il diaframma fra la dimensione chiusa e claustrofobica dell'interno e ciò che invece accade all'esterno.
Uno sguardo, quello di La lotta al terrore, che sembra mostrare come il sentimento del terrore sia stato capace di rinfocolare la logica dell’homo homini lupus, persino verso chi ci è più vicino.
A seguire è la volta di Andrea Cosentino, che in Piazza Torre di Berta presenta il suo Kotekino Riff, spettacolo che porta alle estreme conseguenze un discorso teatrale fatto di non sense a oltranza e di gag verbali in successione, ma che in realtà finisce per deludere alquanto le aspettative, alte visto il livello qualitativo a cui Cosentino ci ha abituato coi suoi lavori. Seppur penalizzato dalla dislocazione nel contesto dispersivo di una piazza – allestita come un lido con tanto di sdraio – che mal si coniuga con la vocazione “raccolta” del teatro di Cosentino, Kotekino Riff è uno spettacolo che spiazza per quanto e come scelga scientemente di non corroborare di sostanza la metateatralità spinta – che è cifra distintiva della poetica di Cosentino – e che qui non si poggia su alcun altro argomento che non sia se stessa. In scena, con un contrabbasso – e relativo contrabbassista, Michele Giunta – a fargli da contraltare musicale e con tutto il suo arsenale di consuete giocolerie e gadget sparpagliato all’intorno, Cosentino dà vita ad un monologo illogico e sghembo, che sembra dichiaratamente non voler andare da nessuna parte: suscita il riso, la sua comicità conserva intatta la verve surreale, ma questa vocazione al nichilismo che ben presto s’impossessa dello spettacolo alla lunga non sortisce gli effetti desiderati, presentandosi come uno scomposto e vivisezionato scheletro senza carne, per cui è come se stessimo assistendo ad una scarnificazione del corpus teatrale volta a mostrarne la nuda struttura. È vero che nel sottofinale la citazione di Artaud sembrerebbe offrire una chiave di volta significativa, ma di per sé non può bastare a sorreggere l’intera impalcatura di quest’idea audace del teatro che destruttura se stesso: il rischio in cui mi pare Cosentino incorra con Kotekino Riff è quello di un riduzionismo poetico immolato all’altare della presa di posizione intellettuale, così penalizzando la propria inventiva intelligente, nella fattispecie non suffragata – per scelta, senz’altro, ma ci piace meno del solito – da una sostanza teatrale su cui si innervi la metafora metateatrale.
Da una piazza all’altra, sempre attraversando il borgo, c’è uno spettacolo esperienziale che comincia prima del suo inizio: The Invisible City di Daniele Bartolini prende principio iniziando a farti entrare nella sua dimensione trasognata attraverso lo schermo del tuo telefono cellulare: ti chiede di preparare ricordi e desideri, prima di condurti, all’orario convenuto e insieme a compagni di viaggio prima sconosciuti, nel buio di una casa disabitata, nei suoi anfratti, fra stanze e cortili attraversati nella penombra rischiarata appena dal fioco lume delle torce, una abitazione che è città nella città, microcosmo che s’offre all’attraversamento, città invisibile (e Calvino è più che una semplice suggestione), città ideale da costruire insieme, tra ricordi, speranze ed illusioni, attraversando un percorso che ti chiede di mettere a nudo una parte di te per metterla in condivisione con gli altri, per creare (o almeno provarci) un filo empatico finalizzato a suggerire un senso di comunità. Il percorso è suggestivo e lo sviluppo dell’idea di fondo segue una progressione tutto sommato lineare, sebbene in alcune fasi non riesca a compiere quello scatto decisivo verso una dimensione compiutamente trasognata e magica (ad esempio il momento delle storie sussurrate all’orecchio di spettatori bendati manca di quel nerbo concettuale che possa arricchire di sostanza il viaggio esperienziale). The Invisible City ricorda per certi versi – e in taluni passaggi – atmosfere e passaggi del teatro sensoriale, sulla scorta di Enrique Vargas, e funziona soprattutto nella misura in cui riesce a creare un’interrelazione fra i partecipanti veicolando un discorso sociale e ‘politico’ che vede ciascuno di noi come unità che acquisisce senso se inserita in un discorso comunitario; dove però pecca e nella profondità dell’approccio, per cui le tracce lasciate lungo il percorso, nel loro progressivo ricomporsi, danno luogo ad una costruzione che è sì suggestiva, ma che non sommuove più di tanto, soprattutto per quanto concerne la dimensione socio-politica, mentre lascia un piacevole senso di comunanza tra i partecipanti, concittadini per un’ora di una città non vista e che ci lasciamo alle spalle come una porta che si chiude per non più riaprirsi.

Tra gli allestimenti che punteggiano quest’edizione di Kilowatt, in un angolo del borgo – all’interno dell’Ex Scuola Luca Pacioli – era possibile visitare la stanza delle meraviglie di Zaches, un percorso campionario che offriva in visione le maschere create e adoperate in un decennio di lavoro: manifatture minuziose e raffinate, caproni, minotauri e creature collodiane che affascinano alla vista e che prendono forma di breve percorso performativo. Assisto a quello incentrato sul Minotauro, entrando nella wunderkammer e seguendo un filo di canapa rossa che si dipana fra il grano e la segatura; una creatura fatata dai capelli turchini mi favorisce l’ingresso, mentre rumori cupi e sordi corroborano l’attesa insufflando un’atmosfera sospesa e magica; da uno spioncino vedo la maschera del Minotauro prendere vita in corpo d’attore, dolente e ferale. L’attraversamento è breve e fugace, ma sufficiente a rendere l’essenza pulsante che vibra nel legno intagliato delle creature di Zaches e a suggerire lo stimolo di rivedere – dopo il Pinocchio che fu finalista a In-Box nel 2015 – altre evoluzioni drammaturgiche in cui la sapienza artigiana di Zaches prenda vita in scena.
Ma la parte eminentemente teatrale della giornata biturgense ha decisamente il suo clou nello spettacolo dei Quotidiana.com Monopolista: per come è costruito e per il senso di cui si fa portatore, il lavoro dei Quotidiana piace, diverte e convince. Un tavolo, una partita a Monopoli, due giocatori che si fronteggiano: nel loro stile graffiante e surreale, Roberto Scappin e Paola Vannoni costruiscono una metafora pregnante attorno ad un gioco da tavolo, uno dei più conosciuti, la cui invenzione è datata 1935 e che ha visto avvicendarsi tra Imprevisti e Probabilità svariate generazioni di giocatori più o meno capaci e consapevoli. Ed è proprio la “consapevolezza sistemica” il fulcro sul quale s’incentra la teatralizzazione del gioco; sicché questo gioco spietato in cui “i marxisti non arriveranno” perché “troppo impegnati a depliarsi” ci racconta di una società mutata antropologicamente, in cui il Capitale ha vinto dettando le proprie leggi, mentre l’antagonismo si è imborghesito. Sulla scena, l’uno di fronte all’altro, i due attori si contendono Vicoli, Larghi, Parchi e Società a colpi di lire (“non con l’euro che è già fallito”), propalando lei l’etica della spietatezza, mentre lui sembra incarnare l’ingenua sprovvedutezza dell’uomo comune, fatalisticamente disposto al fallimento come destino etico. Sfida, spietatezza, sopraffazione sono le tre “S” che ispirano il gioco, un gioco che in realtà è la vita e che presuppone che prima o poi l’altro vada in rovina. Vale l’etica inumana del libero mercato, in cui puoi per quanto hai. La partita si gioca su toni surreali ed evocativi, tra citazioni kubrikiane (Shining e il Nadsat di Arancia Meccanica) e musiche del Padrino solfeggiate all’atto di finire in galera, costruendo una drammaturgia in cui il registro comico alleggerisce ma non depotenzia di tono il discorso di fondo incentrato su una critica senza sconti alla aberrazione di una società che riproduce le dinamiche del Monopoli, un luogo dove impera la finanza, dove non c’è ciò che non si vede, come la coscienza, non esiste una chiesa, non c’è un cane e non è prevista nemmeno la toilette. Da ciò discende una riflessione conclusiva, che vuole rifiutare che le vite di ciascuno ballino sull’alea di un lancio di dadi e rimangano in balìa di regole che discendono direttamente dai poteri politici e finanziari. C’è bisogno che si riscrivano delle regole a cui improntare il vivere sociale: è quel che ci dicono Roberto e Paola mentre tirano dadi e spostano segnalini, giocando in scena una partita bella come il teatro, amara come la vita.
A seguire, in Piazza Torre di Berta, un gruppo di acrobati etiopi composto da due uomini e due donne inscena uno spettacolo circense (Be-On) in cui spicca l’elastica fisicità dei quattro performer/giocolieri, i quali costruiscono una piccola sequela di acrobazie, singole e di gruppo, mostrando come la propria creatività corporea e coreografica sia stata strumento di affermazione in un contesto difficile, nel quale questi ragazzi stanno lottando per poter riavere un tendone sotto cui poter inscenare ancora il proprio circo. Un’attrazione che diverte – soprattutto i più piccoli – ed il cui senso speciale va al di là della semplice rappresentazione.

Una trattazione a parte mi pare giusto dedicare alla sezione danza, della quale ho intercettato tre spettacoli, parte di un più ampio cartellone tematico: Food for Thought, New Horizon e Cosmopolitan Beauty. Ebbene, l’impressione complessiva è stata al di sotto delle aspettative, soprattutto per i primi due spettacoli, mentre nel terzo, coreografato e danzato da Davide Valrosso mi è parsa rintracciabile nell’uso del corpo e nell’attraversamento dello spazio una linearità compositiva funzionale, in cui l’essenzialità della figura umana percorre una traccia onirica segnata da una linea di conigli sul fondo scena raccontando con brevi lampi dinamici un microcosmo individuale circoscritto e sospeso tra la dimensione del sogno e della realtà. Food for Thought invece parte da un’indagine sociologica, condotta incontrando nel corso del tempo produttori alimentari nel luogo, che però nel suo farsi scenico, non riesce a tradurre l’impianto concettuale – volto a trattare il tema della sana alimentazione – in maniera convincente, affastellando immagini e movimenti che faticano a convergere in una direzione chiara e omogenea; discorso simili si può fare per New Horizon di Francesco Marilungo, che è cervellotica costruzione protesa ad un’indagine del rapporto esistenziale con l’Assoluto cosmico che però s’assesta su un registro talmente rarefatto e minimale da creare un diaframma concettuale tra ciò che appare in palco e ciò che giunge in platea; l’uso delle proiezioni e le dinamiche corporee ridotte all’essenziale, calati in un’atmosfera luminosa e sonora in cui il tono cupo del blu dominante si coniuga a musiche che contribuiscono ad evocare uno spazio cosmico immateriale, concorrono a creare un ritmo estenuato, in cui l’afflato comunicativo finisce disperso.

Riparto da Sansepolcro dopo un ultimo attraversamento del borgo: è martedì, giorno di mercato, e il silenzio è rotto solo da un vociare sommesso e educato appena più alto di quello conosciuto nei giorni di Festival, in questa cittadina in cui ti imbatti in una chiesa ogni tre metri e che percorri col naso all’insù per scrutarne ogni scorcio, un luogo che, per tre giorni, ho attraversato assaporandone il clima festivaliero, fatto di visioni e condivisioni, di teatro e d’arte, portandomi via un’immagine composita, difficile da condensare in un’istantanea unica e che ho provato a raccontare e restituire con le parole di quest’articolo.

 

 

 

Kilowatt Festival
(dal 14 al 22 luglio 2017)

Opera sentimentale
di Camilla Mattiuzzo
progetto registico Matteo Angius, Riccardo Festa
con Matteo Angius, Riccardo Festa, Woody Neri
video Versus (Cristiano Carotti – Desiderio)
scenografia Caterina Guia
produzione Angus | Festa feat. Woody Neri
paese Italia
lingua italiano
durata 1h 10’
Sansepolcro (AR), Auditorium Santa Chiara, 15 luglio 2017
in scena 15 luglio 2017 (data unica)

Food for Thought
direttori artistici Jennifer Nevin, Mike Auger
dramaturg Iain Bloomfield
movimenti Fabiano Culora
scene Matt Sykes Hooban
elaborazioni video Fabric Lenny
produttore Ben Rothera
produzione Displace Yourself Theatre
nell’ambito di progetto europeo Be SpectACTive – CapoTrave/Kilowatt Sansepolcro (IT), Bakelit Multi Art Center Budapest (HU), Domino Zagreb (HR), LIFT London (UK), Tanec Praha (CZ), Teatrul National Radu Stanca Sibiu (RO), York Theatre Royal (UK)
con il supporto di Lotteria Nazionale tramite Council England
paese Italia, Regno Unito
lingua italiano, inglese
durata 50’
Sansepolcro (AR), Teatro alla Misericordia, 15 luglio 2017
in scena 15 luglio 2017 (data unica)

Miniature campianesi
testi e incisioni sonore di Ermanna Montanari
paese Italia
lingua italiano
durata 5’
Sansepolcro (AR), Piazza Torre di Berta, 15, 16 e 17 luglio 2017
in scena dal 14 al 22 luglio 2017

Che fine hanno fatto gli indiani Pueblo? Storia provvisoria di un giorno di pioggia
studio per uno spettacolo di
Ascanio Celestini
con Ascanio Celestini, Gianluca Casadei
suono Andrea Pesce
produzione Fabbrica
distribuzione Associazione Culturale Lucciola
paese Italia
lingua italiano
durata 1h 20’
Sansepolcro (AR), Piazza Torre di Berta, 15 luglio 2017
in scena 15 luglio 2017 (data unica)

Nessuno può tenere Baby in un angolo
di Simone Amendola, Valerio Malorni
scritto da Simone Amendola
collaborazione al testo Sandro Torella
regia
Simone Amendola, Valerio Malorni
con Valerio Malorni
scenografia Faisal Dasser, Giulia Giorgi, Fosca Giulia Tempera
produzione Blue Desk
residenze produttive TAN Teatri Associati di Napoli, Carrozzerie not, Roma
con il sostegno di Festival Attraversamenti Multipli
lingua italiano, romanesco
durata 1h 25’
Sansepolcro (AR), Auditorium Santa Chiara, 15 luglio 2017
in scena 15 luglio 2017 (data unica)

La lotta al terrore
di Lucia Franchi, Luca Ricci
scene e regia Luca Ricci
con Simone Faloppa, Gabriele Paolocà, Gioia Salvatori
direzione tecnica Luca Giovagnoli
organizzazione Massimo Dottorini
costumi Lucia Franchi
produzione CapoTrave
con il sostegno di Regione Toscana, MiBACT
residenze creative Teatro di Roma, Teatro dell’Orologio di Roma
paese Italia
lingua italiano
durata 1h
Sansepolcro (AR), Teatro alla Misericordia, 16 luglio 2017
in scena 16 luglio 2017 (data unica)

Kotekino Riff
di e con Andrea Cosentino
musiche in scena Michele Giunta
supervisione dinamica Andrea Virgilio Franceschi
assistenza Dina Giuseppetti
produzione Karamazov Associati (CapoTrave/Kilowatt, Progetto Goldstein, Pierfrancesco Pisani)
in collaborazione con Modus Maris s.n.c.
paese Italia
lingua italiano
durata 1h
Sansepolcro (AR), Piazza Torre di Berta, 16 luglio 2017
in scena 16 luglio 2017 (data unica)

The invisible City
ideazione, drammaturgia e regia Daniele Bartolini
assistente alla regia Gilda Foni
aiuto alla logistica Aurora Betti
suono Matteo Ciardi
produzione CapoTrave/Kilowatt
in collaborazione con Associazione Laboratori Permanenti, Scuola Comunale di Teatro di San Sepolcro
paese Italia
lingua italiano
durata 1h 10’
Sansepolcro (AR), Palazzo delle Laudi, 16 luglio 2017
in scena dal 14 al 22 luglio 2017

Wunderkammer 10. Adoratori di feticci – Reperto 2
Il Minotauro. Viaggio di un eroe
produzione
Zaches
paese Italia
lingua italiano
durata 10’
Sansepolcro (AR), Ex Scuola Luca Pacioli, 17 luglio 2017
in scena 17 luglio 2017 (data unica)
(Esposizione dal 14 al 22 luglio 2017)

Monopolista
drammaturgia, regia, interpretazione Roberto Scappin, Paola Vannoni
produzione Quotidiana.com
co-produzione Kronoteatro
con il sostegno di Regione Emilia Romagna
paese Italia
lingua italiano
durata 1h
Sansepolcro (AR), Auditorium Santa Chiara, 17 luglio 2017
in scena 17 luglio 2017 (data unica)

Be-On
regia e drammaturgia Clio Abbate
coordinamento scenico e preparazione Dereje Dange
con Solomon Balcha Yani, Gashaw Woldemichael Lemma, Shewaye Demeke Tarekegn, Aziza Kedir Redi
responsabile tecnico Andrea Bondi
scenotecnica Di Fonzo Design and Manufactoring
produzione Fekat Circus
paese Etiopia
durata 50’
Sansepolcro (AR), Piazza Torre di Berta, 17 luglio 2017
in scena 17 luglio 2017 (data unica)

New Horizon
concept, regia, coreografia, luci, suono, interpretazione, video Francesco Marilungo
con Alice Raffaelli
assistente alla regia Francesco Napoli
collaborazione al disegno luci Gianni Staropoli
video Chiara Caterina
produzione Karamazov Associati (CapoTrave/Kilowatt, Progetto Goldstein, Pierfrancesco Pisani)
co-produzione Network Open Latitudes (Latitudes Contemporaines, Vooruit, L’Arsenic Body/Teatro delle Moire/Danae festival, Sin Arts Culture, le phénix, MIR Festival, Materiais Diversos)
con il supporto di Culture Program UE
in collaborazione con Compagnia di danza Enzo Cosimi, Sin Arts and Culture Center, Officina LachesiLAB, ACS Circuito Abruzzo Spettacolo
paese Italia
durata 55’
Sansepolcro (AR), Teatro alla Misericordia, 17 luglio 2017
in scena 17 luglio 2017 (data unica)

Cosmopolitan Beauty
di e con Davide Valrosso
produzione Associazione Culturale VAN, CANGO Centro di produzione sui linguaggi del corpo e della danza
con il sostegno di Teatro Pubblico Pugliese
paese Italia
durata 16’
Sansepolcro (AR), Teatro alla Misericordia, 17 luglio 2017
in scena 17 luglio 2017 (data unica)

Kilow’Art #1
Andrea Vezzini
Dati incompleti

Palazzo Pretorio
Sansepolcro, dal 13 al 22 luglio 2017

Kilow’Art #2
Riccardo Lorenzi
Chissà com’è invece il mondo visto da te

in collaborazione con Associazione Cultura della Pace di Sansepolcro, Ufficio Diocesano per il dialogo ecumenico e interreligioso, ACLI – Arezzo
Chiostro del Duomo
Sansepolcro, dal 13 al 22 luglio 2017

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