“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 18 April 2017 00:00

Di Don Peppe Diana, ammazzato due volte

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Ventitré anni; sono trascorsi esattamente ventitré anni da quando Don Peppe Diana moriva per mano della camorra di Casal di Principe, freddato in chiesa prima di dire messa. A ventitré anni esatti di distanza, da un 19 marzo a un altro, separati da un tempo che non intacca la memoria, ma che anzi la rinfocola, e su cui s’innerva un teatro che prende forma di intenso afflato etico, traducendosi in immagini e parole che ricostruiscono quel che accadde, la storia di Don Diana diventa spettacoo teatrale. Ma non solo.

Nella produzione del Nostos Teatro incentrata sulla vicenda di Don Peppe Diana vibra forte il senso di appartenenza ad una storia all’ombra della quale si è cresciuti e che, se da un lato rappresenta una delle tante macchie di sangue con cui la camorra ha marcato questo territorio, dall’altro ha funto da stella polare per chi ha saputo contribuire alla costruzione di un’etica e di una cultura capaci di sottrarsi all’egemonizzazione – culturale, prim’ancora che concreta – della malavita.
È in questo caso il teatro uno strumento di testimonianza, un veicolo di perpetuazione necessaria di un esempio che s’è tentato d’infangare, per sporcarne il senso e la memoria, aggiungendo la calunnia all'omicidio, così reiterandolo: “Don Peppe Diana era un camorrista”, “Don Diana a letto con due donne”, i titoli ingiuriosi che un quotidiano locale (il Corriere di Caserta) pubblicava – dopo la sua morte – nel tentativo infamante di gettare discredito agli occhi della gente su una figura che aveva provato a sottrarsi al tacito giogo imposto dalla camorra dell’agro casertano.
Ma la memoria di Don Diana è sopravvissuta al refolo della calunnia, ai suoi denigratori, oltre che ai suoi assassini. E persiste, vivificata in uno spettacolo teatrale che riesce a farne vivere con intensa essenzialità il lascito profondo. Perché Ass ‘e Marzo è prima di tutto buon teatro, con una drammaturgia e una regia chiare nelle idee e nel modo di rappresentarle ed una interpretazione attorale validissima.
Giovanni Granatina concepisce la scena avvalendosi di simbologie essenziali, facendola occupare da un corpo d’attore designato per farsi plurimo: Salvatore Veneruso sarà di volta in volta Don Diana, sua madre, la personificazione della camorra e Antonio Bardellino, che del Clan dei Casalesi fu iniziatore, infine di nuovo Don Diana.
Circolare la struttura drammaturgica, con l’azione che comincia e termina in quello stesso rettangolo di luce che dapprincipio contiene la figura stretta di Don Peppe. Nel mezzo, una rappresentazione asciutta, su di una scena che presenta da un lato un incensiere dondolante che inonda l’aria d’acre odore, mentre a centro palco campeggia un’impalcatura di tubi innocenti, sopra e sotto alla quale si svolgerà parte dell’azione. È un simbolo significativo quell’impalcatura, ricorda l’escalation imprenditoriale della camorra di Casale, fondata sul cemento, sull’edilizia e sul controllo dei traffici dell’indotto che ne deriva, quel cemento in cui s’annega la coscienza in nome del malaffare.
Don Diana, prete informale, che spesso non indossava gli abiti sacerdotali, è il latore di una prima invettiva, contro il conformismo e l’inclinazione al compromesso di quel contesto sociale in cui era tornato per espletare il suo sacerdozio in forma di missione. E quella stessa invettiva sarà ripresa dalla madre di Don Diana, a lui sopravvissuta contro la naturalità delle cose, e trasfigurata in essenza a cui dà corpo e voce Salvatore Veneruso inforcando un paio d’occhiali, rammendando qualcosa mentre una coperta le è poggiata sulle gambe; il dolore di una madre si veste di rabbia, si scaglia contro il servilismo muliebre di genitrici mediocri che cullano amore meschino di bestia e che forniscono il morbido appoggio a una sottocultura neghittosa e feroce, sostrato su cui s’innerva una mentalità borghese che educa all’egoismo e grazie alla quale la cultura camorristica può pascersi florida.
La figura materna passa dall’invettiva al sentimento della perdita, attraversando il ricordo, facendo memoria delle tappe della vita di Don Diana, per poi lasciare il posto in scena ad una personificazione femminea della camorra, in cui Veneruso si trasfigura con repentina trasformazione, arrampicandosi velata di nero in cima all’impalcatura – come a voler rimarcare una preminenza egemonica – di lì celebrando la ritualità familista dell’antistato, di quell’antistato che conosce a perfezione l’arte della metamorfosi e sa mimetizzarsi nel tessuto sociale.
Contro questo stato di cose la voce di Don Peppe Diana si è levata in solitudine armata di coraggio: “Don Peppe Diana, ‘o prevete che parlava tropp’ assaje”, eletto agnello sacrificale di una terra in cui non si è esitato a cavalcare l’onda dell’ignominia e della diffamazione più bieche e volgari, anche post mortem, ad opera di una stampa complice e connivente con la malavita.
Nel gioco delle personificazioni, una quarta figura completa la quadreria di una nequizia: è Antonio Bardellino capostipite del Clan dei Casalesi. Bardellino era già morto da anni (anche se il suo corpo non è mai stato trovato) all’epoca dell’omicidio di Don Diana; eppure la sua apparizione in scena, nei panni vistosi del capo, che con fare smargiasso smazza carte da gioco all’intorno, assume un forte valore simbolico, come se ad un simbolo apicale si volesse contrapporre una figura opposta di paritetica valenza, ovvero quella di Don Peppe Diana.
Carta da gioco, questo “asso di bastoni” di un irrimediabile tressette a perdere, Don Peppe Diana è l’ultima figura che chiude il cerchio, venendo in proscenio per una sorta di orazione civile, in cui rivendica la responsabilità di essere segno di contraddizione, di rappresentare una parola da offrire alla gente, rigurgito d’insorgenza per una vita che è stata immolata, per una morte che s'è tentato di delegittimare.
Con parole che sopravvivono all’assassinio, rimarca come la scelta per chi vive in terra di camorra non sia fra lo stare con o contro, ma fra lo stare dentro o fuori; aveva scelto il ‘fuori’, Don Diana, “perché coi casalesi ci devi saper parlare”,mentre chi aveva scelto il ‘contro’ era stato costretto ad andarsene. Lui no, Don Diana era tornato apposta, facendosi portatore di un’ottica e una prospettiva forti, strutturate sulla base della conoscenza del proprio territorio e del milieu che lo componeva.
Omelia postuma per amore di un popolo, della sua gente, Ass’ e Marzo è un tuffo all’indietro nella storia, un salto a ritroso necessario in una memoria da conservare e mantenere viva in tutto il suo spessore. Un ottimo lavoro, asciutto, essenziale, in cui una regia pulita inquadra in un alfabeto di segni precisi e nitidi una storia che ci tocca nel profondo – dato anche l’ampio spettro di memoria condivisa che abbraccia – senza mai farsi celebrazione agiografica, senza mai scivolare nel facile esercizio retorico; molto bravo Salvatore Veneruso nella connotazione di personaggi – e personificazioni – che scegliendo di essere quadreria sbozzata e non caratteri a tutto tondo, raggiungono in pieno l’obbiettivo di trasmetterci una storia e la gamma dei sentimenti che l’animano e l’attraversano, fino all’applauso finale in cui confluisce un moto diffuso di commozione.

 

 

 

 

Ass' e Marzo
drammaturgia
Gina Oliva, Giovanni Granatina
regia Giovanni Granatina
con Salvatore Veneruso
scene costumi e disegno luci Gina Oliva, Dimitri Tetta, Giovanni Granatina
supervisione alle regia Gina Oliva, Dimitri Tetta
foto di scena Giovanni D’Angelo
produzione Nostos Teatro
lingua italiano, napoletano
durata 50’
Aversa (CE), Nostos Teatro, 19 marzo 2017
in scena 18 e 19 marzo 2017

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