“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 31 December 2016 00:00

Triplicità pirandelliana

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Il Magma Teatro è una grotta a un passo dal mare, uno spazio ricavato tra le rocce nere che spuntano fra la sabbia sul litorale di Torre del Greco e parte di quella roccia – nera come il magma che solidifica – ancora insiste permanendo in un lato di quel palco che Libero e Donatella hanno realizzato lì, a un passo dal mare; una piccola sala, accogliente, che si apre per diventare spazio di visioni teatrali alla sua prima stagione.

I prerequisiti ci sono tutti: un teatro messo a norma, l’entusiasmo che accompagna una nuova avventura, un bacino d’utenza potenziale. Resta un progetto artistico con cui riempire e far vivere tali presupposti, ed è quel che capiremo nel corso della stagione. Come primo approccio col Magma Teatro ci confrontiamo proprio con la visione di una regia – ed una riscrittura scenica – dello stesso Libero de Martino e l’esito è decisamente felice.
Mette mano Libero de Martino a Pirandello e non lo fa semplicemente prendendone un testo e inscenandolo, ma mettendo in correlazione più scritture pirandelliane (un atto e due novelle: L’uomo dal fiore in bocca, Il marito di mia moglie, La carriola), suggerendo così un ragionamento possibile che, con lo scandaglio attento di una regia acuta e rigorosa, produce una messinscena che esplora coerentemente l’universo pirandelliano seguendo la traccia di un filo comune alle tre opere fino a confluire in un’unitarietà congruente; fili che s’intrecciano in quel cosmo antropico che fa dell’uomo un “animale metafisico”, in quanto consapevole d’essere mortale, “animale metafisico” inguainato in una gabbia sociale, fatta di convenzioni e lacciuoli che ne vincolano l’agire, “animale metafisico” che si rinchiude nelle proprie consapevoli solitudini.
E sono proprio tre solitudini messe in fila a comporre I fiori del kaos – con quel kappa adoperato alla greca – quelle che si susseguono su scena: è solo l’uomo dal fiore in bocca, nel suo errare notturno che lo conduce all’interlocuzione con un pacifico avventore; è solo Luca Lèuci, il marito prossimo a lasciar vedova la propria moglie e orfano il proprio figlio; ed è solo nella sua piccola perversione di afferrare la cagnetta per le zampe posteriori l’avvocato protagonista de La carriola. Tre solitudini, le prime due delle quali sono sulla soglia del passo d’uscita dalla vita, mentre la terza, pur non presaga di morte, s’accomuna alle altre due per quella percezione di vacuità della vita che il protagonista sente, guardando a sé come da fuori da sé. Tre solitudini, tre uomini col loro contraltare, ora interloquente, ora muto, in ogni caso accomodante; e queste tre solitudini prendono forma triangolare sulla scena nell’idea di Libero de Martino, vedendo confluire in una riuscita amalgama le due novelle attorno all’atto unico de L’uomo dal fiore in bocca. A marcare maggiormente l’antitesi fra le solitudini interiori ed il mondo esterno concorre l’ambientazione, che sposta il luogo dell’azione dal “caffè notturno con tavolini e seggiole sul marciapiede” de L’uomo dal fiore in bocca ad una piazza paesana in cui è in corso una festa patronale, con le sue musiche e i suoi balli: sul fondo scena campeggia l’immagine della facciata di una chiesa con attorno le sue luminarie, le musiche della Banda Jonica riempiono l’atmosfera di un vitalismo gioioso a cui farà da contrappunto emotivo la sostanza interiore della scena.
In assito due figure assolvono al compito di polarizzare gli stati d’animo dissonanti – eppure complementari – che compongono questa trilogia pirandelliana: due attori, Vincenzo Liguori e Rodolfo Medina, agiscono in scena, sullo sfondo chiassoso della festa paesana che lentamente sfuma, “abitando” due prismi a base triangolare; triangolarità che ricorre: tre sono le opere pirandelliane chiamate in causa, tre facce hanno i prismi/periaktoi che i due attori gestiranno a vista sulla scena, diventando di fatto due gabbie in cui i due protagonisti alternativamente s’imprigionano, metaforicamente impigliandosi, mentre i dialoghi delle tre opere si alternano nelle voci di Vincenzo Liguori e Rodolfo Medina, formando un unicum armonico.
I due attori in scena sono ottimi interpreti delle due polarizzazioni che s’intende rimarcare: da un lato c’è Vincenzo Liguori che molto bene interpreta la parte del pacifico avventore, trasferendo al proprio ruolo (multiplo, come quando riprende il testo de La carriola) le peculiarità di bonomia quasi svampita, di uomo compito e svagato che ne fanno il contraltare ideale per il ruolo (multiplo) che un eccellente Rodolfo Medina – autore di una prova attorale di grande spessore – interpreta passando dall’uomo malato di epitelioma al morituro Luca Lèuci de Il marito di mia moglie, connotandone splendidamente lo spessore speculativo e la cifra interiore, fatta di amara consapevolezza e dignitosa accettazione dell’ineluttabile.
Sembrerebbe un garbuglio difficile da districare, quello che va in scena; e invece il “kaos” che potrebbe ingenerarsi dalla commistione delle tre opere finisce per dipanarsi con una sua intrinseca coerenza, così sbocciando nel fiore di un’opera che piace sia per l’acume concettuale che ne sottende la stesura, che per l’efficacia con cui viene reso su scena.
I due prismi triangolari, scheletri lignei con tanto di rotelle che all’occorrenza divengono evidenza degli ambienti evocati, vengono giostrati e addobbati con drappi e frange, finendo per diventare simili a due simboliche dimore (e cos’è la casa, se non il simbolo dell’interiorità più intima?), da cui Liguori e Medina entrano ed escono, si relazionano, si portano, rispettivamente e alternativamente in giro per il palco, inseguendo metaforicamente idee e pensieri che suggeriscono riflessioni ultime sul senso precario dell’esistenza, che si consuma mentre in lontananza si spengono gli echi di una festa (emblema di effimera vitalità) che sta andando avanti per tutta la notte. A quegli stipiti scheletrici entrambi si abbarbicano, come a rimarcare un attaccamento alla vita, labile e fugace, fino a rifrangersi in ultimo in un gioco di specchi in cui il composito dialogare sembra farsi riverbero concreto di sostanza psicologica e interiore.
Macchina scenica che sa trasformare le idee in immagini in movimento, I fiori del kaos appare come una raffinata riflessione inteatrata, che soffermandosi sulle tematiche precipuamente pirandelliane del senso della vita, dell’essere e dell’apparire, riesce a svilupparle con freschezza ed efficacia espressiva.
Dal “kaos” tutto interiore finiscono per sbocciare i fiori della sua rappresentazione.

 

 

 

I fiori del kaos
suggestioni da L’uomo dal fiore in bocca, La carriola, Il marito di mia moglie
di Luigi Pirandello
drammaturgia e regia Libero de Martino
con Vincenzo Liguori, Rodolfo Medina
scene, costumi, aiuto regia Donatella Faraone Mennella
produzione Balagancik Teatro
lingua italiano
durata 1h 15’
Torre del Greco (NA), Magma Teatro Club, 4 dicembre 2016
in scena dal 2 al 4 dicembre 2016

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