“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 25 November 2016 00:00

Un "Macbeth" tra luci ed ombre

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Per scrivere di questo Macbeth, produzione del Teatro Nazionale la cui regia è firmata dallo stesso Direttore Luca De Fusco, parto da quanto si può leggere nel foglio di sala di carta smaltata che accompagna lo spettatore e dalla dichiarata continuità con cui questo spettacolo si pone in relazione al precedente lavoro shakespeariano dello stesso De Fusco – Antonio e Cleopatra, del quale ricordiamo qui la non proprio riuscitissima messa in scena – il quale definisce (sempre nel patinato libretto in dote agli spettatori) i due spettacoli “fortemente connotati nel senso della sperimentazione e della contaminazione dei linguaggi”.

Ebbene, leggendo queste parole – e rileggendole ancora dopo aver assistito a questo Macbeth – pochi e mirati dubbi si aggiungono alle perplessità maturate durante lo spettacolo. Perplessità che, di contro, mi pare fossero almeno parzialmente compensate da una messinscena che, pur in un impianto che al mio sguardo è apparsa più tradizionale che innovativa per frontalità, impostazione classica e declamatoria della recitazione e concezione complessiva di segni e significati, lascia comunque una sensazione decisamente migliore rispetto al precedente lavoro shakespeariano di Luca De Fusco, che era apparso – soprattutto nella sovrabbondanza del ricorso a videoinstallazioni che parevano più stilemi estetizzanti fini a se stessi che effettivo elemento da ricondurre ad una significativa scelta registica o ad una precisa chiave interpretativa – come un esperimento infelice e incompiuto.
Nel caso di questa riedizione del Macbeth, invece, posso dire che la percezione non è del tutto negativa, sebbene si debba necessariamente ricondurre la visione nell’alveo di una concezione sostanzialmente classica della messinscena, a cui poco o nulla giova il gioco confuso del velame sfrangiato che a più riprese copre e scopre la scena (anche questo già visto in Antonio e Cleopatra), mentre l’illuminotecnica dello spettacolo, improntata ad una logica chiaroscurale che ora si rifrange sui freddi arredi scenici, ora si riverbera nel mortifero giallore delle fiamme, contribuisce a calare la storia in un’ambientazione dominata da un senso del cupo capace di trasmettere l’efferatezza di fondo che sottende alla lotta per il potere ed al dilaniante conflitto interiore di Macbeth stesso. Ed è quest’ultimo punto ad essere il più interessante nella visione che Luca De Fusco dà di Macbeth, che in scena non ci appare solo come ganglio di un meccanismo più grande di lui (il “Grande Meccanismo” di cui parla Kott), che indirizza e determina la storia, ma anche come emblema di una dicotomia interiore, dicotomia che lo consuma nei nervi e nella psiche, dimidiandolo fra necessità del male da compiere per il potere e coscienza impura che rimorde e che lo allucina sotto forma di incubi e spettri.
Come fa notare Harold Bloom in Shakespeare. L’invenzione dell’uomo, l’intervento del sovrannaturale (le tre streghe) non riesce ad alterare il corso degli eventi come invece riesce a fare l’allucinazione. È questa la parte che meglio riesce nel Macbeth di De Fusco, raggiungendo nella seconda metà del suo svolgersi una sua compiutezza che, per quanto non l’affranchi dalla strascicata convenzionalità dell’impostazione, quantomeno acquisisce senso e sostanza psicologica; la seconda parte di questo Macbeth è quella in cui anche le videoinstallazioni, che sin dall’inizio compaiono sul fondo ad istoriare in volo e movimento quel campionario avicolo doviziosamente evocato nel testo, assumono (finalmente!) un senso pregnante ed una valenza precipua, accompagnando lo spettatore in quel tetro viaggio negli oscuri e contorti meandri della psiche di Macbeth, visibili solo a lui in scena e a noi in platea e invisibili agli altri personaggi. Così la proiezione gigantografica del pugnale, la spettrale evocazione dello spettro del sovrano usurpato ed anche la visione dell’avanzata della foresta di Birnam divengono elementi visuali che concorrono alla sostanziale evoluzione drammaturgica, caratterizzandola significativamente, mentre l’evocazione di un volto fanciullo appare allusiva di quella prole di cui Macbeth e consorte saranno profeticamente infecondi; significativa appare pure la concezione della scenografia – spartana, prevalentemente nuda, che si trasforma ad esempio in una squadrata sala a gradoni quando accoglie la scena del banchetto in cui Macbeth è preda del delirio – scenografia che s’era imporporata del rossore del sangue al momento topico dell’omicidio. Tragedia del sangue in cui il sangue non si vede ma si evoca, questo Macbeth raggiunge il suo epilogo attraverso un duello in punta di spada (quello tra Macbeth appunto e Macduff) che si svolge al ralenti (in ciò ben incanalandosi nel solco di sostanziale staticità che promana dalla rappresentazione), con un evidente senso di goffaggine per un’azione scenica che forse avrebbe avuto bisogno di essere minimamente ispirata da un maestro d’armi, o quantomeno di essere condotta con minore approssimazione.
Nel complesso, questo Macbeth lascia un’impressione leggera leggera, destinata a volar via e non a sedimentare, frutto di una visione imprigionata in una confezione colossale al cui involucro non corrisponde un contenuto altrettanto consistente. Non siamo al mero esercizio di stile, beninteso, ma rimaniamo comunque lontani da una “visione” shakespeariana degna di conservarsi negli occhi e nella memoria per più del tempo della visione ed i cui buoni spunti di cui s’è detto finiscono per soccombere alla mastodontica obsolescenza dell’impianto complessivo, impianto in cui tra luci ed ombre si fatica a ravvisare traccia concreta di quella dichiarata "sperimentazione e contaminazione dei linguaggi", come fossero rimasti confinati nel fitto buio d'una foresta che non sia riuscita a muoversi verso il regista per compierne il destino.

 

 

 

 

Macbeth
di
William Shakespeare
traduzione Gianni Garrera
adattamento e regia Luca De Fusco
con Luca Lazzareschi, Gaia Aprea, Fabio Cocifoglia, Paolo Cresta, Francesca De Nicolais, Claudio Di Palma, Luca Iervolino, Gianluca Musiu, Alessandra Pacifico Griffini, Giacinto Palmarini, Alfonso Postiglione, Federica Sandrini, Paolo Serra, Enzo Turrin
e con le danzatrici della compagnia Körper: Chiara Barassi, Sibilla Celesia, Sara Lupoli
voce fuori campo Angela Pagano
in video Lorenzo Papa
scene Maria Crisolini Malatesta
costumi Zaira de Vincentiis
luci Gigi Saccomandi
musiche Ran Bagno
installazioni video Alessandro Papa
coreografie Noa Wertheim
regista assistente Alessandra Felli
coreografa assistente Rina Wertheim
assistente scene Laura Giannisi
assistente costumi Elena Soria
direttore di scena Teresa Cibelli
capomacchinista Nunzio Opera
elettricista Marco Spina
tecnico video Sebastiano Mazzillo
fonico Italo Buonsenso
caposarta Roberta Mattera
sarta Daniela Guida
trucco Bruna Calvaresi
amministratrice di compagnia Simona Di Nardo
foto di scena Fabio Donato
musiche registrate eseguite da Karni Postel (violoncello), Gila Hai (viola), Nora Choir (voci)
dirette da Zvika Vogel
realizzazione scena L’Aquila scena
realizzazione costumi Tirelli
parrucche Audelio
calzature Pompei
materiale elettrico, fonico, video Emmedue
trasporti Autotrasporti Criscuolo
produzione Teatro Stabile di Napoli, Teatro Stabile di Catania
in collaborazione con Fondazione Campania dei Festival – Napoli Teatro Festival
lingua italiano
durata 2h 50’
Napoli, Teatro Mercadante, 27 ottobre 2016
in scena dal 26 ottobre al 13 novembre 2016

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