“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 29 July 2016 00:00

Elegia di terra senza mare

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Il mare come un destino lontano, simbolo di qualcosa che manca e s’agogna, che manca ad un popolo di cui una famiglia è porzione esemplare. Mar, della Compagnia de los Andes è storia che giostra i due registri del particolare e dell’universale compenetrando l’uno nell’altro, elevando simbolicamente una famiglia ad essenza della perdita, della mancanza, su ciò che non si ha e si desidererebbe avere e su ciò che non si è mai avuto e non si potrà lasciare in eredità a chi rimane.

Tre figli, una madre morente (o meglio già morta), una porta, trasformata all’occorrenza in un asse di trasporto per condurre al mare lontano il feretro materno, in ottemperanza ad un ultimo desiderio; una porta, segno di passaggio, tra un al di qua e un al di là, una porta che si scompone in tre assi, ciascuna eredità di dolore e memoria per ogni figlio. Sette fari blu dapprincipio ci fanno immaginare il mare, questo miraggio lontano, reso desiderio mancante da una storia neanche troppo antica, che ha fatto della Bolivia un Paese chiuso fra le terre, arroccato su alture in cui l’aria si rarefà e al mare s’intona un canto d’invocazione come si fa con divinità di incerta esistenza; mare lontano, metafora di una fine, di un confine e di una solitudine, del vituperio di un popolo, vituperio non tanto (e non solo) legato alla politica, ma al proprio immaginario, reso monco da qualcosa che ha reso i boliviani "prigionieri" in un Paese chiuso.
Tre figli e una madre che indossano abiti tipici e parlano di sé e della loro famiglia come di un gruppo di capre, che fanno gregge. C’è il racconto di un’infanzia dura, difficile, di una normalità fatta di botte e affetto, non necessariamente scisse le une dall’altro. C’è una madre che muore come la patria e c’è un desiderio che sfiorisce come appassiscono i sogni destinati alla sconfitta, c’è un senso di mancanza – non colmata e non colmabile – che pervade la storia che prende forma sul palco del Teatro Nuovo e che negli abiti dalla foggia militare che ad un tratto compaiono allude a quella storia passata i cui effetti si ripercuotono sull'oggi. Una storia che, nel suo apparato poetico iniziale sembra affascinante, per il livello delicato della narrazione simbolica che assume, coi suoi toni accorati e intensi, ma che svolta in maniera inaspettata e non del tutto convincente nella sua seconda parte, quando dapprima i protagonisti “migrano” in una ambientazione tutta italiana e italiano diventa anche l’idioma in cui si esprimono, l’azzurro diviene il colore dominante e il desiderio di un mondo altro si trasforma in sogno, proiettandosi verso un Paese che il mare non solo ce l’ha, ma ne è circondato.
Parallelamente muta anche il registro espressivo, che s’alleggerisce deviando verso toni da commedia, per poi far ritorno, dopo questo interludio centrale, ad un linguaggio più simbolico ed evocativo, riprendendo la lingua d’origine e (ri)celebrando l’elegia della perdita, della mancanza (della madre, della patria), adottando però un affastello confusionario di immagini che si susseguono come quadreria non più cadenzata ma disomogenea, trasformando così il tenero e profondo afflato che aveva animato l’inizio dell’opera in una sorta di feuilleton, appesantito da un corredo di immagini che si susseguono perdendo la forza evocativa della prima parte. Sicché, pur sorretto da una ottima componente attorale, Mar finisce per non mantenere ciò che promette, restando, negli occhi e nella memoria, come qualcosa di non del tutto compiuto, non del tutto riuscito, uno spettacolo che progressivamente s’allontana dal proprio impulso iniziale, perdendosi fra le onde di un discorso confuso.

 

 

 

 

Napoli Teatro Festival Italia
Mar
creazione collettiva di Teatro de los Andes, Arístides Vargas
con Lucas Achirico, Gonzalo Callejas, Alice Guimaraes
musica Lucas Achirico
scenografia Gonzalo Callejas
costumi Alice Guimaraes, Jacqueline Lafuente Covarrubias
tecnico luci e suono Alejandro Bustamante
direzione attori Maria Del Rosario Frances
testo e direzione Arístides Vargas
assistente di direzione Alice Guimaraes, Gonzalo Callejas
traduzione Silvia Raccampo
organizzazione generale Giampaolo Nalli
produzione Teatro de los Andes
paese Bolivia
lingua spagnolo, italiano
durata 1h 20’
Napoli, Teatro Nuovo, 29 giugno 2016
in scena 29 e 30 giugno 2016

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