“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 17 April 2016 00:00

Psicodramma hitchcockiano

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Il cinema e il teatro, si sa, parlano due linguaggi diversi: contigui eppure differenti, frammisti eppure separati; talvolta può capitare che si intersechino e che l’uno mutui dall’altro idee, tecniche e immagini in un processo di ibridazione che talvolta funziona, talaltra no.
In questo caso ci troviamo a parlare (a scrivere) di una volta sì, di un fatto eminentemente teatrale che – rimanendo essenzialmente tale – si serve di un sostrato cinematografico per condurre un discorso articolato e intelligente, le cui sfumature si sfaccettano in una sequela di piani susseguenti e inanellati che concatenano visione e fruizione in un gioco di rimandi in cui il cinema (e specificatamente il cinema di Alfred Hitchcock) è il pretesto, il teatro lo strumento ed i destinatari (pubblico, critica) oggetti compartecipi in una visione caleidoscopica che con gusto e leggerezza – ma senza per questo rinunziare ad una strutturazione articolata dell’impianto drammaturgico – regala un icastico spaccato teatrale e metateatrale.

Anna Favella e Luca Mannocci sono due attori che interpretano due attori, luogo d’incontro un provino per uno spettacolo incentrato sulla filmografia di Hitchcock; li vediamo entrare in scena avendo ciascuno una borsa da dottore, ciascuno parlando della professione medica e di come questa consenta loro di pagarsi vizi e sfizi. Le due borse da dottore trasleranno ben presto in valigie d’attore, lasciando sullo sfondo la scia dell’unico passaggio invero oscuro della rappresentazione, che lascia aperto un ventaglio di possibilità interpretative sulle analogie e le distonie fra la professione medica e quella attoriale, accomunate da un valore terapeutico (vocazionale in un caso, inteso in senso più estensivo nell’altro) e distanti per la solidità dell’avvenire che garantiscono a chi le svolge.
Superato questo primo impasse, assistiamo poi ad un raffinato gioco di cornici concentriche, in cui i due attori che fanno gli attori inscenano un gioco in cui realtà e finzione si confondono, s’impasticciano andando a comporre un affresco satirico della teatralità contemporanea, quella in cui “quello che conta è l’energia, la sperimentazione, pochi oggetti e molta semantica”, in tal modo nascondendo all’occorrenza la povertà di mezzi; ed è una satira dagli accenti parodistici che si rivolge anche a chi il teatro lo recensisce, alludendo ad alcune figure di critici facilmente riconoscibili, pur se velati da (poco) dissimulati nom de plume e toccando la dibattuta questione dell’attendibilità della critica – precipuamente di quella che, diffusa sul web, patisce una sorta di secondogenitura rispetto a quella cartacea – una critica tacciata senza mezzi termini di indulgenza allo stereotipo e di autoreferenzialità.
Su questa farcitura tematica s’innerva poi tutto il discorso hitchcockiano, che entra come pretesto sotto forma di uno spettacolo per il quale essere provinati e rimane come sottotesto di riferimento, continuamente rimandando alla filmografia di Sir Alfred, non tanto e non solo per i film citati ed evocati, quanto piuttosto per un sottile gioco di rimandi concettuali che richiamano tematiche significative del cinema di Hitchcock. Pertanto l’evocazione de La finestra sul cortile suggerisce un rimando alla dimensione voyeuristica del teatro nel teatro a cui si assiste e al contempo vi applica quella particolare angolazione che, nel cinema hitchcockiano, assegnava allo spettatore la posizione privilegiata da cui scrutare la scena, mentre il riferimento a Gli uccelli e ad un mondo rovesciato in cui i ruoli si capovolgono, con gli uomini costretti a ingabbiarsi dinanzi alla minaccia animale, sembra ulteriormente suggerire un ribaltamento dei ruoli tra chi guarda e chi è guardato, fino ad una delle scene conclusive, in cui la sagoma travestita in stile Psycho alluderà in maniera netta al tema del doppio teatrale.
In queste cornici concentriche si svolge la storia d’amore di due attori, un uomo e una donna, figure tipiche della fauna antropica teatrale: lui, gigione e tenebroso, cascamorto e seduttore, fragile e orgoglioso del proprio magistero artistico; lei inesperta e non ancora artisticamente definita, eppure con la strada spianata da un padre autorevole in campo teatrale. Tra i due s’instaura un rapporto di attrazione conflittuale, fatto anche – e non potrebbe essere altrimenti – di dissimulazioni e omissioni, evidenziando le differenze tra due percorsi e due modi di intendere il lavoro d’assito che rispecchiano le consuete polarizzazioni tra arte e intrattenimento, con la purezza del teatro da un lato e la compromissione rappresentata dalle fiction televisive dell’altro.
Luca Mannocci e Anna Favella appaiono perfettamente a loro agio nei rispettivi ruoli, con lui che riesce a gigioneggiare sopra le righe interpretando un personaggio a cui tale attegiamento s’addice appieno, mentre lei tratteggia con aplomb più misurato, ma decisamente riuscito, una figura d’attrice di piccola caratura e di mediocri aspirazioni.
Il risultato è una farsa metateatrale dai toni scanzonati e leggeri, che però cela dietro il proprio meccanismo ironico uno spessore corrosivo che sa coniugare tra loro, pur con qualche orpello di troppo – vedi l’omaggio a Jerry Lewis del tutto avulso, anche scenicamente, dal contesto – una piccola storia ed un tema ampio, in ciò avvalendosi della filmografia hitchcockiana come nume semantico.
Sicché la storia d’amore tra due attori che dà il titolo all’opera sembra tradursi, sotto l’egida simbolica del regista britannico, in un connubio tra due arti, distanti e contigue, che per una volta trovano un punto d’incontro.

 

 

 

 

Hitchcock. A Love Story
di Leonardo Ferrari Carissimi, Fabio Morgan 
regia Leonardo Ferrari Carissimi
con Anna Favella, Luca Mannocci
costumi Alessandra Mascella
disegno luci Martin Emanuel Palma
foto di scena Manuela Giusto
produzione
CK Teatro, Progetto Goldstein
lingua italiano
durata 1h 25’
Napoli, Nest – Napoli est Teatro, 10 aprile 2016
in scena 9 e 10 aprile 2016

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