“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 22 March 2016 00:00

Diario di un testimone teatrale

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Giorni e giorni di prove... filate, flussi, primi tocchi, mappe concettuali, librerie emozionali: assisto alla creazione di uno spettacolo, alla sua gestazione progressiva: Testimone oculare sta per andare in scena, con la regia di David Jentgens ed io a mia volta sono stato testimone privilegiato del suo percorso in fieri.

Comincio ad osservare il lavoro del regista e dei suoi attori quando già stanno provando da qualche giorno; si lavora nella sala dell’Asylum Anteatro ai Vergini, nel cuore del rione Sanità; mentre raggiungo la sala prove mi capita di guardarmi intorno, di scrutare la varia umanità che compone la fauna antropica del quartiere, mi soffermo su un microcosmo che è città nella città, con quel suo coacervo di contraddizioni che spaziano dal calore e dall’umanità che spesso fanno oleografia fino alla parte – a mio avviso – più deteriore di quella stessa oleografia partenopea, con santi e madonne portati in processione, oboli richiesti ai passanti ed una ostentazione di fideismo che ai miei occhi continua a conservare un che di medievale. Eppure è sempre Napoli, quella Napoli “porosa” di cui parla Walter Benjamin in Immagini di città... sembra io stia divagando, ma non è così: c’è un nesso... non lo colgo da subito, lo metterò in relazione dopo non molto, parlando con lui, con la presenza di David Jentgens a Napoli, per realizzarvi questo spettacolo; agli occhi di chi la vede da lontano, Napoli è ancora la città del teatro e, se quegli occhi la raggiungono, ricevono ben presto la conferma di trovarsi in cospetto di un teatro mobile a cielo aperto. David desiderava lavorare a Napoli, se ne sono creati i presupposti grazie alla prospettiva di una collaborazione con Ettore Nigro e così hanno messo in cantiere questo spettacolo: Testimone oculare, ossia la storia vera di Franz Jägerstätter, contadino austriaco – dell’Austria ormai fatta tedesca dall’Anschluss – che preferì la lama della ghigliottina all’uniforme del Reich. La drammaturgia originale, firmata da Joshua Sobol, è stata tradotta in italiano dallo stesso Jentgens insieme ad Anna Marchitelli. David Jentgens non lesina apprezzamenti sulle potenzialità attorali presenti in questa città, ma sottolinea le due mancanze fondamentali che caratterizzano la teatralità napoletana: disciplina e fiducia. Il suo lavoro è, all’opposto, rigoroso, seppur condotto con una bonomia che tende a creare un rapporto empatico con i suoi attori; l’atmosfera che si respira, durante le prove, è quella di un’allegria fattiva, da cui promana il piacere di compiere il lavoro che si sta svolgendo.
Osservare il lavoro di Jentgens con gli attori consente di entrare in relazione con un metodo che punta forte sulla componente emozionale; Stanislavskij è un antipode lontano, Peter Brook un parente prossimo (la ricerca non sulla forma, ma su ciò che anima la forma, che poi verrà da sé).
“Librerie emozionali” è un’espressione che mi colpisce da subito e che da subito vedo messa in essere nelle prime prove a cui assisto: il regista lavora sui suoi attori stimolandone nervi e muscoli durante le prove di recitazione, sì da ingenerare una forma di dolenzia fisica che entri e permanga nella memoria muscolare dell’attore, che saprà poi richiamarla e riutilizzarla quando andrà in scena; il lavoro è personalizzato, su ogni singolo attore, e copre uno spettro emotivo ampio, su una gamma di sensazioni che consentono a ciascun attore di scegliere – in base anche all’impatto emotivo – cosa far uscire e come farlo uscire; resto sorpreso e affascinato dalla messa in opera di questo procedimento, svolto anche contemporaneamente su più attori disposti in sala, i quali ad un tratto vedo avere la medesima reazione a pochi metri di distanza l’uno dagli altri: un pianto che li accomuna in partecipazione empatica mentre le rispettive stimolazioni emotive raggiungono l’apice, l’una indipendente dall’altra.
Questo lavoro emotivo, che sarà cifra costante delle prove, si esplicita anche nel lavoro ragionato sul testo: non c’è praticamente mai un testo definitivo, ma si discute continuamente delle sfumature linguistiche e semantiche del testo medesimo; Jentgens evita agli attori la lettura preventiva, preferendone una lettura discussa dopo averne provato le azioni topiche, sicché offre all’attore l’opportunità di entrare in un rapporto empatico e dinamico col testo. Affinché ciò avvenga, a ciascun attore è affidato il compito di approntare mappe concettuali, fatte di bolle contenenti parole, che ramificano il senso progressivo della parte da recitare: da queste bolle “esplodono” emozioni che si sostituiscono ad una pedissequa pianificazione, sicché le cose “succedono” e non si organizzano. Cervello e cuore, con il primo ancillare al secondo, sono gli organi deputati a far sì che tra l’attore e il proprio testo s’instauri empatia; quella di Jentgens non è una regia “scritta”, ma una regia che emerge progressivamente, con un lavoro montante.
Tutto questo lavoro avviene immerso in un’atmosfera ilare, giocosa, eppure tutt’altro che antilavorativa: David Jentgens è flemmatico e sorridente, spiega le cose con pacatezza, non lo vedo mai arrabbiarsi con un attore, eppure è rigoroso nel chiedere ed ottenere che le cose vadano secondo i suoi dettami: organizzazione e fiducia, quei due termini che identificano due mancanze che egli ascrive agli attori napoletani, vengono da lui incarnati e forniti alla compagnia come un dono; un dono che percepirò in tutta la sua portata quando, al termine di una filata, sentirò il regista “ergersi” a garanzia di riuscita dello spettacolo per i suoi attori: “Abbiate fiducia in me, io sono la vostra roccia”, un modo per infondere serenità nella compagnia attraverso un’assunzione di responsabilità; lo fa dopo aver guidato in scena i suoi attori, partecipando alle scene provate, variandone arbitrariamente la successione, in modo da incanalare la prova lungo il binario emotivo desiderato: la memoria del copione non è ancora piena, ma non importa... quel che conta è, anche mediante una “improvvisazione con regole”, che si riesca a creare un’atmosfera che stabilisca i presupposti per poi poter lavorare sul testo in un secondo momento.
Questo lavoro emozionale funziona tantissimo, lo percepisco dalle reazioni degli attori, che introiettano praticamente da subito le peculiarità interiori dei propri ruoli; in particolare, in una delle filate a cui assisto, la gabbia che dovrà costituire la scena, viene allestita in una sala contigua, visibile attraverso l’andito di una porta: lì, in quello spazio chiuso, gli attori provano come rinchiusi in una specola emotiva in cui si concentrano, si racchiudono ed infine esplodono le reazioni intime dei personaggi, dalla rabbia al dolore.
Prende così forma quello che sarà poi lo spettacolo, ragionando su ogni scena, ridiscutendo ogni volta un passaggio dialogico che non convince, analizzando i diversi modi in cui ad esempio una pistola deve fare la sua comparsa sulla scena. Colpisce la dinamica “orizzontale” che si instaura tra regista e attori: beninteso, rimane sempre chiaro chi sia il regista che indirizza le linee guida del lavoro, ma l’approccio metodologico è impostato su una condivisione dialogica intorno alla messa in scena, sul modo di impostare scelte e registri. Questo perché sono tante le strade perseguibili per raggiungere una “verità” da mettere in scena ed alla fine un percorso viene fuori da sé.
Il lavoro emozionale (lo so, questo termine sta diventando ridondante, ma ricorre per quanto preponderante è nel tipo di lavoro condotto da David Jentgens) si declina in varie forme: assisto ad una scena che Ettore Nigro e Teresa Raiano provano bendati, immersi nella semioscurità della sala, fino a che il regista, dopo aver creato una situazione di intimità tra gli attori in scena, complice un brusio immesso a voce dall’esterno, chiede a noi che assistiamo di lasciarli soli, in modo da “sollevarli” dal giudizio, dall’occhio esterno che li scruta inermi e vulnerabili.
Nei giorni successivi c’è il primo contatto col palco del Teatro Bolivar, dove lo spettacolo andrà in scena; David Jentgens percepisce le paure e le insicurezze dei propri attori, che combattono con la paura di non sapere, non avendo ancora fiducia in un testo che non ancora posseggono pienamente; c’è bisogno che essi aprano il mondo dell’istinto e recuperino il lavoro emozionale svolto fino a quel momento. Nella prima filata svolta in teatro ciò non avviene ancora, ma è un passaggio intermedio prevedibile e che, prevedibilmente, avrà il suo sblocco.
Lo sblocco, per gli attori, passerà anche attraverso un esercizio di rinascita (il rebirthing) a cui mi capita di assistere ed in cui vedo corpi d’attore ritornare bambini, recuperare una sorta di memoria prenatale, abbandonare tutto ciò che è raziocinio e costruzione in favore di una componente istintuale primigenia; quello che potrebbe sembrare un esercizio avulso dalle prove dello spettacolo rivela invece ai miei occhi tutta la sua importanza quando, il giorno dopo la “rinascita” mi sembra di sentire in Dario Rea una voce mutata, trasformata, che sento più aderente al personaggio che deve interpretare.
Da una prova a un’altra prova, da una filata alla filata successiva, vedo gli attori memorizzare, ma soprattutto interiorizzare le proprie parti, in un processo che è un continuum ragionato e progressivo, che vede scene che mutano, idee che si trasformano, testo che si rielabora... Gli attori hanno cominciato non solo a recitare, ma anche ad “ascoltarsi” sulla scena, quel che si chiede loro è di evitare di “pensare” e di avere fiducia nel testo, di scegliere le proprie azioni da compiere non preventivamente in base ad un disegno ragionato, ma sul momento. David Jentgens guida i suoi attori ad un teatro ‘volatile’ e non monolitico, in cui ogni volta è differente dalla volta precedente e da quella successiva: “Il teatro è scritto nella sabbia. Scriviamo nella sabbia per scrivere nelle anime” è una frase che giunge a chiosa finale di una giornata di prove e che sembra epitome che racchiude il senso (o uno dei sensi) di una poetica.
Seguo le prove fino all’immediata vigilia del debutto e continuo a cogliere un’atmosfera sostanzialmente rilassata; anche senza il bisogno che lo si dica esplicitamente, percepisco da parte di tutti la sensazione, o meglio la consapevolezza di aver lavorato bene; il modo di lavorare di David Jentgens infonde tranquillità ponendosi come garanzia e, contemporaneamente si è concretato in una opportunità di crescita professionale per coloro che lo hanno seguito in un percorso, quello della gestazione di questo spettacolo, che abbiamo potuto seguire nel suo divenire progressivo: David li ha presi attori e li ha resi strumenti, fatti di carne e cuore, pronti a sacrificare il proprio ego e vibrare per la storia che andranno a inscenare.
Nel momento in cu scrivo queste note, cucendo fra loro appunti sparpagliati su un paio di taccuini, ancora non so se Testimone oculare, nella sua forma compiuta di spettacolo, sarà una messinscena riuscita o meno; ma mi accorgo, mentre ne scrivo, che è questione, dal mio punto di vista, addirittura accessoria: quello a cui ho assistito durante le prove, il prendere forma di uno spettacolo, il suo evolvere dinamico e continuamente discusso, con scene e dialoghi reinventati, attori in perpetua fase di scavo, messi a contatto e in relazione con la parte più intima dei propri personaggi, tutto questo ha rappresentato agli occhi miei – che sono stato un semplice spettatore privilegiato – un’opportunità di crescita non solo professionale, ma anche umana per coloro che vi hanno preso parte e che hanno avuto modo di arricchire il proprio bagaglio come attori, come persone. L’ho percepito io, occhio esterno, posso pertanto solo immaginarlo moltiplicato per chi vi ha lavorato dall’interno.
Il palco dirà cosa è davvero questo spettacolo, io posso solo dire che il lavoro che lo ha preceduto è già stato, in sé, un’opera compiuta e profonda.

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