Il testo di Copi si traduce su scena in un disco volante che occupa il centro del palcoscenico; all’inizio se ne mostra il retro, poi ruotato di centottanta gradi da figure accessorie (servi di scena che rimarranno come corona di voci e rumori fuori campo), mostrando attaccato per le cinghie di un corpetto di cuoio al torace e da legacci d’identica fatta intorno ai suoi stivaletti rossi l’attore che sarà Loretta (Paolo Oricco, braccia nude e bigodini a coronarne il platino della chioma), avvinto ad un fondale colorato di spire bianche a pois rossi, pendant col suo gonnellino a rabbuffo, spire alle quali s’aggiungono guizzanti ratti.
Loretta sarà lo psicagogo che guiderà l’astronave, il disco – polisemico simbolo in cui confluiscono il veicolo spaziale e il supporto sonoro – in un viaggio surreale e grottesco, intenzionato a travalicare i confini materiali del senso compiuto per cercare alla parola nuove dimensioni di senso evocato.
In ciò rifulge la splendida performance di Paolo Oricco, corpo immolato ad un gioco interpretativo vocale e mimico: flusso di voci di registro variabile che modula il testo, mentre mostra i propri muscoli tesi, batte i pugni, atteggia il viso, mulina le braccia, vortica intorno seguendo le rotazioni del disco cui è legato e, nel mentre ancora, conduce un’immaginaria interlocuzione con un’ipotetica Linda, destinataria ideale, cui rivolge un reiterato “Pronto?”; un’interlocutrice che non risponde mai (è immaginaria... non esiste... è la proiezione del sé) e a cui rivolge in continuazione l’invito “mi lasci infilare una parola?”, quando invece è il suo l’unico flusso monologante, carburante verbale per l’astronave del (non) senso, che gioca col delirio cosmico per tradurne metafora d’incomunicabilità, dell’inadeguatezza del linguaggio a raccontare mondi ed identità in trasformazione, cui le angustie di un pianeta imploso più non bastano, necessitando di mondi altri su cui andare a parare. Il lavoro di Paolo Oricco è un concentrato di sapienza attorale, in cui confluisce e s’addensa il portato consistente di una ricerca sui linguaggi e le forme teatrali che traspira dal palco, offrendone in visione una delle declinazioni possibili, mostrata ad un livello di eccellenza.
Non è Loretta Strong un testo da inseguire alla ricerca di nessi logici da riannodare in ordinata filatura, ma una continua gibigiana verbale che rutila e scintilla, sbrilluccica per lampi, come la scia di una stella cometa, irraggiando fasci luminosi su brandelli di senso sparsi, sui cui stralci andare a costruire un’esegesi interpretativa: il senso sembra risiedere in una parola che non ha più senso, in un linguaggio che appare destrutturato ed incapace di rispondere alle istanze dei significati da rappresentare e perciò necessita di una proiezione verso un mondo ulteriore; il disco volante su cui s’imbarca Loretta sembra voler essere la risposta spaziale al disco rotto della parola verbale, che invoca la propria destrutturazione. Ne è strumento la logorrea, flusso indomito di coscienza in cui si esprime anche una liberazione dalle categorie del genere (sessuale), ma è solo una parte di un più ampio disegno che vuole rompere non solo con le categorie stereotipe, ma anche travalicare i compressi recessi dell’umana psicologia, esplorandone altre possibilità; in pratica è come se Loretta, prendendoci a bordo della sua astronave – in cui pure si porta dietro tarli sotto forma di ratti, serpi e pipistrelli, creature che rodono le interiora, triturano le viscere – ci stesse ricordando quanto ristrette siano le nostre terricole prospettive rispetto alle infinite possibilità di un cosmo ignoto.
Viaggio interspaziale dal mondo al cosmo, che dal cosmo al mondo ritorna, concludendo il proprio percorso circolare sulle note inequivocabili di una vecchia canzone – Il mondo di Jimmy Fontana – con cui si riporta a casa l’astronave, la cui missione veramente compiuta è consistita nel completare, con maestria che coniuga forma e sostanza, un’orbita chiamata Teatro.
Loretta Strong
di Copi
regia Marco Isidori
con Paolo Oricco e Maria Luisa Abate, Valentina Battistone, Virginia Mossi, Stefano Re
"Astronave" di Daniela Dal Cin
tecniche Sabina Abate
produzione Compagnia Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa
con il sostegno di Sistema Teatro – Teatro Stabile di Torino
lingua italiano
durata 1h 10’
Napoli, Galleria Toledo, 12 dicembre 2015
in scena dal 9 al 13 dicembre 2015