“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 27 November 2015 00:00

Rioccupare le strade coi sogni

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“Io a quel tempo / Stavo ancora aspettando Godot, / Cioé aspettavo la morte / Per poter dire ‘rinascerò’, / Fatto diverso, / Collegato d'amore alle masse, / Più cultura, più lotta di classe, / Ma Godot non è mai arrivato, / Si fa le cose sue, / Ed è meglio così, certo / Per tutti e due”.
(Claudio Lolli, Autobiografia industriale, dall’album Disoccupate le strade dai sogni)

 

 

Sogno e follia. Due binari paralleli lungo i quali scorre un treno di senso. Sogno e follia, due direttrici eteree, che sfuggono alla presa tattile per sfumare come una scia impalpabile eppure percettibile nella cappa d’aria in cui siamo immersi. Sogno e follia prendono forma teatrale per raccontare una provenienza ed una destinazione, una scaturigine probabile ed un approdo possibile: dalla follia (e da un’utopia ormai scemata, ma non per questo rassegnata all’abdicazione) prende le mosse Il sonno dell’arrostito, di Astorritintinelli per condurre la propria parabola verso il recupero di una purità sognante, di cui informare la speranza per un futuro migliore.

Il sogno dell’arrostito è (vuole essere) “una sintesi di questo Paese” e, nel suo farsi scena, riesce a condensare un sunto immaginifico, che si dichiara teatro sin dal suo inizio, con le indicazioni di una drammaturgia lette in scena e l’ostentazione di una finzione per cui la pioggia è l’acqua versata da una bottiglina e il sole è la fiammella di un accendino: dichiarazione preventiva di una metaforizzazione incipiente, quella che vedrà protagonisti Alberto Astorri e Paola Tintinelli, Il sogno dell’arrostito è una pantomima grottesca, didascalica ma non apologetica, che racconta una contemporaneità che ha smarrito più d’una coordinata ideale, ormai orfana di ideologie granitiche ma anche povera di ideali residuali.
Lo fa dichiarandosi tributaria a Federico Tavan, che nel borgo solingo di Andreis convisse con quella stramba follia per cui per taluni sei un matto, per altri soltanto un poeta.
E c’è una parafrasi proprio di Tavan che sembra illuminare una via al senso ed all’azione, parla di un merlo senza voce e di una valle senza sole (“perché quando il merlo perde la voce, sai che freddo nella valle”), la pronuncia Alberto Astorri, nei panni demodé di un comiziante concettoso, i cui slogan imparati a manovella s’impigliano in vacuo farfuglio, merlo sfiatato in una valle in cui non c’è parola che scaldi; e poi, dall’altra parte c’è lei, Paola Tintinelli, la forza lavoro, il clangore alacre che produce, colonna sonora d’un indefessa attività operaia che si contrappone alla fuffa parolaia di chi dovrebbe rappresentarla.
Sul palco i due incarnano la parola (e il pensiero che le è sotteso) e l’azione (che di quelle parole e di quel pensiero dovrebbe essere forza motrice); riproducono dinamiche riconoscibili, in cui la parola si fa stantio incitamento all’azione, membrana che separa i discorsi sulla vita dalla vita veramente vissuta, evidenziando così quella frattura, sempre più divaricata, fra realtà e politica, tra l’individuo e chi ne dovrebbe rappresentare le istanze. Lui ciancia,  arringa, bofonchia sofismi vani,  fa partire una canzone che s’inceppa – la deandreiana Ballata degli impiccati – mentre lei agisce, armeggia, maneggia, canticchia Una furtiva lagrima, perché o canta o si suicida, intanto sullo sfondo più forte rimbomba il rumore della fabbrica. C’è un tentativo fallace di trovare un’empatia tra due mondi distanti, c’è il tentativo infruttuoso di estrarre l’arte dall’azione, come Michelangelo seppe fare estraendo la Pietà contenuta nel blocco di marmo; ma l’arte “è un peso”, come lui rimarca dopo averla issata sulle spalle. Non c’è nulla da fare, si parlano linguaggi differenti, sono orfani di guide spirituali, creature mutanti che sono il frutto di una trasformazione antropologica, le ideologie svanite li hanno lasciati spaesati ed un dio che sembra essere scappato, come suggeriscono tre assi verticali sul fondo che paiono alludere ad un calvario senza Cristo, ai cui piedi i due dissertano, come fossero Dimaco e Tito “orfani” d’un messia fuggiasco.
Ne sortisce una deriva contemporanea, trasformistica, che vede inscenati i nuovi panorami della politica, quelli in cui i “compagni” di una volta trasmigrano in finiture borghesi, proliferano i grillismi e tentano di sopravvivere le superfetazioni della conservazione. Indossare una giacca nuova vuol dire adeguarsi al cambiamento, a costo di rinnegare se stessi, credendo di salvarsi mentre l’acquiescenza alla società dei consumi – anzi, del “produci-consuma-crepa” – compie la sua nemesi sotto forma di nocciolina, bene voluttuario rincarato di cui non si riesce a fare a meno e che quasi strozza la donna. C’è un senso di resa che sembra aleggiare, la resa della lotta e dell’azione dinanzi all’incedere inesorabile di una sedicente idea di progresso, che riduce l’uomo a braghe calate, con una bandiera bianca sventolata e apposta sul viso per non voler vedere. Ma c’è, di contro, un vagire d’infante che è uno squarcio nel buio, che prelude ad immagini di speranza ed a parole che danno corpo ai sogni; c’è, nel riavvolgere e di nuovo svolgere il nastro del vissuto, un barlume – visivo e sonoro – che si sostituisce al ritmo metallico che scandisce il lavoro per animarsi del ritmo selvaggio della disobbedienza, un ritmo che appartiene all’infanzia.
Un ritmo che appartiene al sogno, che appartiene alla follia, che appartiene alla dimensione nomade di chi, follemente, non vuol più sopportare l’idea d’un martirio vocazionale, non vuol più rassegnarsi – come fosse un novello san Lorenzo – a subire il supplizio della graticola, abbrustolendo un po’ ogni giorno, ma vuole ancora, disperatamente, follemente, sognare.
Di questo sogno, di questa follia Alberto Astorri e Paola Tintinelli hanno fatto i binari lungo cui far scorrere, fluida e poetica, una drammaturgia della ribellione che appare come uno squarcio nel buio del tempo presente, lanciato come una fiammella verso il tempo futuro.

 

 

 

 

Il sogno dell’arrostito
ovvero Povertà e desideri di rivoluzione di due umani
di e con Alberto Astorri, Paola Tintinelli
collaborazione drammaturgica Rita Frongia
ideazione, suoni e spazio scenico Astorritintinelli
produzione Astorritintinelli Teatro (MI)
in collaborazione con ERT – Emilia Romagna Fondazione Teatro, Officinateatro (CE), Armunia Castiglioncello
lingua italiano
durata 1h
San Leucio (CE), Officina Teatro, 21 novembre 2015
in scena 21 e 22 novembre 2015

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