“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 13 February 2015 00:00

Il prima e il dopo

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C’è un prima e c’è un dopo. C’è quel che siamo e quel che diventiamo. Ci sono eventi che rappresentano cesure, fratture, nella storia personale e collettiva. Ci sono fratture che più propriamente definiremmo “faglie”; non a caso, perché il prima ed il dopo che ci ritroviamo ad ascoltare e a nostra volta a riportare, racconta proprio di una faglia, racconta del terremoto del 1980, dell’Irpinia, di uno squarcio profondo, nella terra e nelle vite di coloro che l’abitavano quella terra.

“Un fulmine”, “un fulmine nella terra”, questa l’espressione icastica e sintetica che realizza l’impressione subita, il dramma patito; Il fulmine nella terra il titolo del monologo di Mirko Di Martino che fa messinscena memoriale di quell’evento, di ciò che rappresentò nella destrutturazione e nella ricostruzione di un inconscio collettivo; perché c’è un prima e c’è un dopo; e quel che si è (o si era) prima del fulmine che squarciò la terra differisce da quel che si diventa (e si è diventati) dopo il boato, dopo lo schianto, dopo le macerie, dopo la ricostruzione, che seppe essere più scempio ancora della distruzione.
Incombe il rischio, sulla resa teatrale di una catastrofe – vieppiù trattandosi di evento ancora vivido nella coscienza storica recente – di scivolare nella facile retorica della memoria, nel comodo gioco della reviviscenza emozionale. Eppure ciò non accade con Il fulmine nella terra, che sceglie di essere non mera ricostruzione (e quanto ci suona sinistro adoperare questo termine!) documentaria dell’evento, ma tratteggio per immagini, per flash, di un panorama umano, sociale, ripercorso con partecipazione, sì, ma anche col dovuto distacco, con precisione documentaria, sì, ma anche con qualche dovuto tocco di leggerezza che affreschi qualche bozzetto di costume. Evita, il monologo di Mirko Di Martino, di farsi mera documentazione teatrale per svilupparsi invece come memoria teatralizzata, affidata ad un attore – Orazio Cerino – che non si limita a snocciolare dati, cifre, eventi, ma che su quei dati, su quelle cifre, su quegli eventi innerva una narrazione che si avvale di pochi, essenziali ma necessari stilemi teatrali. Sulla scena nuda c’è solo una sedia, vi è appoggiata una giacca: segnerà l’inizio e la fine della narrazione teatralizzata, il prima ed il dopo coincideranno con ciò che Orazio Cerino ci racconterà senza giacca e con l’atto finale di indossarla. Nel mezzo, non il racconto, ma l’interpretazione del racconto: serrato, incalzante, senza cali di tensione narrativa, fatto per brandelli e lacerti, prendendo episodi esemplificativi, storie fra le storie che riempirono – di strepiti, di paradossi, di drammi – quel sisma dell’Ottanta, a partire dalla prima devastante scossa delle 19:34 del 23 novembre.
Quel che Orazio Cerino racconta non è il sisma tout court, ma è lo spaccato ambientale di un’Italia che sembra distante più del trentennio trascorso, un’Italia per la quale l’Irpinia sembrava essere un mondo lontano, geograficamente e anche dal punto di vista delle comunicazioni; appare impensabile, oggi, che di un evento della portata di quel terremoto – migliaia di morti, interi paesi rasi al suolo – si potesse venire a conoscenza in maniera frammentaria e ritardata, con tutto qual che ne conseguì per i soccorsi.
Quell’Italia, che guardava in televisione il secondo tempo in differita di una partita di Serie A e che ascoltava Miguel Bosé cantare Olympic Games non ebbe subito contezza di quello che il fulmine aveva combinato in quella terra; né durante, né dopo. Si sofferma più volte, Orazio Cerino, su quanto sia stata diversa la percezione del terremoto d’Irpinia, rispetto ad uno dei suoi più immediati antecedenti, quello del Friuli del 1976, su come rapidità dei soccorsi e conseguenze effettive siano stati differenti. Nel farlo, nel rendere teatro questo excursus memoriale, Cerino porta in assito capacità di affabulazione, unita ad una resa scenica ben dosata, che lo porta ad elevare il tono nel riportare i discorsi diretti – veri o verosimili, fa poca differenza – e a condensare il giusto fervore nel racconto di una provincia che il terremoto – e la conseguente ricostruzione – hanno scarnificato come un osso ridotto all’osso. Aneddoti esemplificativi vengono tratteggiati non senza il gusto del sarcasmo, dell’iperbole, accompagnati da una gestualità che sa farsi pantomima quand’è opportuno che si faccia pantomima, per poi tornare alla compostezza ed al fervore quand’è giusto che fervore e compostezza abitino sobri la scena.
È un monologo teatralizzato che ha senso, non tanto e non solo per la ricostruzione memoriale di una catastrofe, ma soprattutto per la relazione che instaura col presente: nel dipanarsi in assito, nell’inframmezzare l’accorato afflato narrativo di Orazio Cerino a documenti audio come i novanta secondi del pauroso boato registrati da una radio locale, o come le parole indignate del Presidente Pertini, Il fulmine nella terra mette in relazione diretta un passato recente con un presente che ne conserva il ricordo nella memoria, ma che ne ha ancora negli occhi le conseguenze al presente, che ne reca ancora impresse le cicatrici sulla pelle. Perché raccontare l’Ottanta, con i suoi stilemi e le sue mode, con i film di Mario Merola al cinema e le canzoni di Diana Ross alla radio, con le sue partite di calcio in differita la domenica sera in tivù, significa raccontare di una generazione che oggi ancora vive e che conserva nel proprio bagaglio memoriale uno squarcio, una faglia fra un prima e un dopo. “Si vince e si perde”, ripete spesso Orazio Cerino nel suo monologo e, pur senza dare esplicitamente la risposta, il risultato del terremoto dell’Ottanta sembra assomigliare ad una sconfitta ancora in atto, ad una ferita non ancora rimarginata, ad uno schiaffo inferto dalla natura ad una terra sulla quale ha poi infierito l’uomo, una tragedia in cui lo Stato è mancato, in cui si è perso, in tanti, senza che vincesse nessuno.
Aneddoti, resoconti, spigolature, dati, notazioni su cronaca e politica del tempo, tutto è raccontato da Orazio Cerino con ritmo costante e a tratti impetuoso, a volte a scatti, come se il nervo scoperto del disappunto dolesse ancora ora come allora, nelle parole di chi racconta come nell’anima di chi ha vissuto in prima persona la tragicità dell’evento.
In un’ora densa, quasi in apnea, tutta d’un fiato si fa riviviscenza teatrale di una tragedia, punto di non ritorno, faglia fra un prima ed un dopo.
Memoria che resta, mentre sfuma l’applauso.

 

 

 

Il fulmine nella terra. Irpinia 1980
di Mirko Di Martino
con Orazio Cerino
aiuto regia Melissa Di Genova
produzione Teatro dell’Osso
lingua italiano
durata
1h  
Napoli, Nuovo Teatro Sancarluccio, 10 febbraio 2015
in scena 10 febbraio 2015 (data unica)

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