“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 09 February 2015 00:00

E quando la possiedi sai che non c’è più nulla da fare

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Al mio carissimo amico D. A.

 

Come ti ho spiegato già più e più volte si tratta di uno di quei momenti in cui, all’improvviso e inaspettato, si compone denso e gocciolante dinanzi al nostro sguardo (e solo in un secondo momento all’interno del nostro roccioso pensiero razionale) la semplice complessità e il profumo irreale delle relazioni essenziali della nostra vita. Stiamo lì a macinare disperazioni e depressioni, a pensare che le conseguenze di questo ricadranno su quello, che il silenzio profondo della nostra gola nasconde la paura della verità, e poi stiamo lì immobili nella nostra quotidianità e facciamo questo e quello, ci affanniamo per trovare il motivo, ci spezziamo la schiena e corriamo incontro a ogni possibilità, ci distraiamo e non vogliamo pensarci più, e poi c’è quel sorriso di cui non capiamo il significato, quello sguardo illecito e quella mano che si richiude all’improvviso su un mistero insondabile, accade tutto questo (ed è il senso della vita) nel nostro labirinto esistenziale quando poi ecco come in una splendida e tremenda epifania tutto si compone in un unico quadro e tu, che stai immerso in quella liquida condizione che non è già più storia ma non è ancora sistema, hai finalmente la verità. Hai capito? Possiedi la verità e quando la possiedi sai che non c’è più nulla da fare.

E proprio mentre completavo grandiosamente il mio discorso e caricavo tutto il pathos della mia rivelazione esistenzial-metafisica in quelle poche parole, semplici e dirette ma efficaci quando poste a conclusione di un efferato discorso intimo, e proprio mentre mi gustavo la molle sensazione aspra di quel “non c’è più nulla da fare” e cercavo con lo sguardo lo smarrimento del mio caro amico, lo stimato signor A., occhialini in montatura nera e naso aquilino straordinariamente piccolo, insomma proprio in quel momento che sarebbe dovuto essere la conclusione definitiva di quanto andavo raccontando da quasi mezz’ora, ecco che è accaduto quello strano fenomeno per cui, all’improvviso, nel bel mezzo di una gran confusione, tipica di un bar affollato, tutti ma proprio tutti nello stesso momento, come coordinati da un insolito maestro d’orchestra al contrario, si esimono dall’emettere suoni e così quel mio “non c’è nulla da fare” rimbombò faustianamente tra le pareti del vicolo e tutti ma proprio tutti furono in grado di sentirlo e tutti ma quasi tutti si voltarono verso chi aveva proferito quell’affermazione tanto dolorosa quanto sensibilmente ridicola: nei loro sguardi comparvi io che, con un sorriso affabile e vergognandomi come un bambino, annuii. Non bastava il ridicolo fallimento della mia esistenza lavorativa, pensai immediatamente, non bastava che la preziosa signorina A. avesse deciso che era meglio una sorda solitudine oggi che una mia pedante presenza domani, non bastava il ricordo confuso di una felicità intravista di lontano tra le crepe di un vecchio casolare diruto in pietra di tufo, no! non bastava evidentemente. Infatti, lo stimato signor A., che per tutto il tempo del discorso aveva giocato con un vecchio biglietto dell’autobus e l’aveva ridotto ad un infinito numero di frammenti, tutti incredibilmente uguali l’uno all’altro, e aveva accarezzato di tanto in tanto un mostruoso carlino che sembrava poter correre via rotolando sui propri occhi, lo stimato signor A. alzò finalmente lo sguardo per conficcarlo sul mio viso. Poi disse soltanto: “Ancora con queste stronzate? Ora te la racconto io una storia”. E fu così che mi parlò della strana vicenda dello straordinario signor S.

Te lo ricordi lo straordinario signor S.? Ebbene, quando l’ho incontrato qualche tempo fa mi raccontò questa strana storia, ambientata agli inizi degli anni ‘90, quando Napoli era quello splendido trionfo di eroina a fiotti e parcheggi a cielo aperto. Altro che trasformazioni urbanistiche e futuro, Napoli era un po’ azzurra grazie a Maradona e un po’ bruno rossiccio grazie all’eroina tagliata male, in mezzo c’era un modo di campare estremo, altro che città europea, lì era la capitale della miseria, quando per campare si poteva anche decidere di andare a rubare gli animali allo zoo.
Gli animali allo zoo? Chiesi allo stesso tempo divertito e stupito. Ero indeciso, comunque: da un lato il racconto dello stimato signor A. riguardo lo straordinario signor S. mi interessava eccome, ma allo stesso tempo ero morbosamente attratto dal discorso che stavano facendo due ragazze poco lontano da noi. L’ultima frase che avevo colto suonava più o meno così: “Allora tu credi così completamente a tutto quello che ti viene detto che, in pratica, diventa vero in transito. Vola nell’aria verso di te, inverte il suo spin e quando arriva a te è vero, per quanto fosse mendace quando era uscito dall’altra persona”. 
Lo straordinario signor S. non era mica come lo conosci tu, uno stimato lavoratore, uno che fa progetti sensati e li realizza, uno che campa (più o meno) onestamente e crede che la famiglia possa regalargli ancora qualche emozione. No. Quando si trattava di dover campare ai tempi della lira, in una Napoli in cui le strade da percorrere erano due, l’eroina o l’astinenza (non dall’eroina, ma dal vivere socialmente), in quella Napoli lì lo straordinario signor S. era uno veramente con i controcoglioni, non soltanto perché era straordinaria la sua capacità di ingoiare droghe senza sentirne gli effetti (li sta sentendo ora, comunque, ma non li ritiene differenti dal mal di schiena e le ernie che gli hanno provocato gli anni di lavoro in quella fabbrica abusiva di scarpe a Frattamaggiore), ma anche perché era capace di trovare sempre nuove strade, creative come poche per il raggiungimento del suo scopo. Qual era il suo scopo, vuoi sapere? Nessuno, ovviamente, diciamo il giusto mezzo tra il campare bene, il sopravvivere e l’essere proprio un gran cazzuto, con quel po’ di sensazione di fallimento (e di godimento nel fallimento) che accompagna sempre le menti migliori delle epoche peggiori. Lo straordinario signor S. aveva trovato a quel tempo un’attività altamente lucrativa e che gli permetteva di fare la vita del signore, si trattava né più né meno di rubare gli animali dello zoo. Ora, tu ti starai chiedendo com’è possibile portare via un piccolo alligatore o un grosso crotalo, oppure un’ara giacinto o un grosso opossum australiano, niente di più facile, bastava semplicemente ficcarlo dentro lo zaino Invicta che all’epoca era l’irrinunciabile complemento di ogni giovane che avesse tra i 12 e 25 anni. Non che fosse un’attività comune, era stata soltanto una grande trovata d’ingegno dello straordinario signor S., nata a metà strada tra la noia assolata della provincia napoletana, la voglia di fare qualcosa di divertente e diverso, la possibilità di fare, come si suol dire, una cosa di soldi.
Io seguivo con attenzione e, solitamente, i racconti dello stimato signor A. sono sempre divertenti e hanno la caratteristica di essere “veri”, ma c’era qualcosa che più in là mi tormentava, la solita ragazza dai capelli biondo-cenere e dagli occhi grigio-azzurri che continuava nel suo discorso e diceva cose tipo: “Siamo forse alla vigilia della più mostruosa trasformazione della Terra intera, e del tempo dello spazio storico a cui essa è legata? Siamo alla vigilia di una notte che prelude a un nuovo mattino? Siamo in cammino verso il luogo storico di questo crepuscolo della Terra? Sta nascendo solo ora questo luogo della sera? Questo Occidente diverrà – al di sopra dell'“Occidente” e dell'“Oriente” e attraverso ciò che è europeo – il luogo della storia futura più originariamente conforme al destino”. Intanto, il carlino grufolava silenziosamente accanto ai miei piedi.
La strategia che adottava lo straordinario signor S. era semplicissima: si trattava di andare allo zoo, pagare il biglietto, gironzolare per le gabbie e i padiglioni, rompere le palle ai lama per farli sputare e all’orso bianco che moriva di caldo in un’acqua laida e sozza, attendere che venisse sera e lo speaker annunciasse che bisognava prendere la strada dell’uscita. A quel punto, bastava balzare dietro un cespuglio, attendere il passaggio di qualche guardia e poi lo zoo, nella sua scadente grandezza, nel suo tanfo insopportabile di miseria animale, era tutto a disposizione. Certo, non era esattamente così semplice: in orari precisi, la guardia si alzava dalla sua sediolina (te le ricordi quelle delle scuole elementari? Quelle. Come faceva a passare la notte appollaiato lassù, non saprei dirlo, si tratta di uno degli aspetti più incredibili della storia) e faceva un giro di ricognizione, attraversando tutti i viali principali, sbadigliando e sorseggiando qualcosa da un vecchio thermos. Tra un giro e l’altro della guardia poteva trascorrere all’incirca un’oretta o poco meno, il tempo sufficiente per ficcare qualche animale stretto stretto nello zaino. Le emozioni più grandi erano con il rettilario. Bastava prendere un coltellaccio (lo straordinario signor S. è assolutamente esperto di qualsiasi tipo di arma bianca o da fuoco), far saltare il catenaccio che, ogni volta diverso era sempre lo stesso, morbido come il burro a quanto dice il nostro caro amico, ed entrare nel rettilario e lì lasciarsi emozionare ed attrarre dalla bestia che in quel preciso istante reclamava di essere portata via. Lo straordinario signor S. non ha mai rubato su precisa commissione, riteneva che sarebbe stata una violazione profonda della sua professionalità e della sua profonda sensibilità, lui rubava soltanto ciò che desiderava essere rubato ed era una questione di energie o cose del genere, non bisognava mai fare violenza a nessun essere vivente che non fosse precisamente uomo e ancor più precisamente uomo in divisa. Quando poi usciva fuori dal rettilario con un Crotalus adamanteus o con un Python regius, allora cominciava la seconda parte della – chiamiamola pure così – avventura. Ma insomma cos’hai? Non stai bene?
In effetti, ero piegato quasi in due, e, considerato che ero accovacciato su uno di quei secchi rovesciati che fungono da sgabello,1 la mia posizione doveva essere a metà strada tra il drammatico e l’incredibilmente ridicolo. La questione è che sentivo la testa girare e uno strano pugno nello stomaco che scavava tra il duodeno (precisamente, mi doleva lo sfintere coledocico di Oddi) e la parte finale del tenue. Ti porto qualcosa? Io, invece, ero tormentato dal pensiero di cosa avrei potuto fare del mio futuro ora che la preziosa signorina A. era andata via per sempre, e ragionavo sul fatto che non avevo più l’età per fare qualche cosa di veramente eccessivo (all’epoca avevo già superato la trentina) e poi c’era sempre quella ragazza dal seno quadrato (almeno così mi sembrava) e dalle spalle intrarotate in maniera anomala che proseguiva dicendo cose del genere: “Certo: lunghe catene di comportamenti innati a circuito chiuso possono "dissolversi" attraverso il perfezionamento filogenetico degli organismi di apprendimento. Indubbiamente l'uomo manca di lunghe catene di movimenti istintivi obbligatoriamente accoppiati; ma, da quanto è possibile estrapolare dallo studio dei mammiferi altamente evoluti, possiamo supporre che l'uomo disponga, rispetto agli altri animali, di un numero maggiore, e non già minore, di impulsi prettamente istintivi”. L’impertinente signor C., quello della bancarella che vendeva taralli sugna e pepe caldi e scioglievoli, mi si avvicinò e mi disse che l’unica soluzione era uno dei suoi formidabili prodotti. Soltanto l’odore mi fece rimettere quello che avevo mangiato a pranzo e che non avevo digerito: cavalo affogato. Il carlino, almeno lui, leccava con piacere i miei vomitaticci.
Bene. Ora entra in scena un altro personaggio, il venditore di animali che si trovava a Fuorigrotta a poche centinaia di metri dallo zoo. Lo straordinario signor S. attendeva che si facesse mattino (a volte riusciva anche a farsi una dormita in qualche angolo buio e meno fetido del parco) dopodiché verso le 11 del mattino, quando lo zoo era già abbastanza affollato, balzava fuori e con il suo Invicta faceva un altro giro e poi se ne usciva. A quel punto si recava in quel semplice negozietto di cibo per animali e che invece era il perno del contrabbando partenopeo di animali esotici e lì i guadagni erano veramente eccellenti, anche 3 milioni delle vecchie lire per un serpente a sonagli che doveva allietare il rettilario di qualche indomito esponente dell’intellighenzia camorristica del tempo. Vuoi anche sapere come andò a finire la storia? Chiese in maniera molto delicata e con un leggero accento di preoccupazione lo stimato signor A. Io, intanto, mi stavo ancora contorcendo, la nausea non era passata e quella sensazione di qualcosa che mastica le pareti dello stomaco era sempre più netta. La preziosa signorina A. già controllava il mio ippocampo ed io non potevo neanche bere e mi tormentava l’idea di dover restare lì ad ascoltare tutto quel frastuono di racconti che si affollavano in un vicolo in cui le voci di tutti rimbombavano continuamente senza poter attingere a nulla. La ragazza dai capelli biondo-cenere, intanto, aveva deciso di alzarsi e, scherzosamente e allegramente abbracciata ad una sua vecchia amica, passò accanto a me, canticchiando pressappoco queste parole: “Scopriremo di nuovo il senso della storia. O almeno, questa è l’illusione che potrà risvegliare nei più ottimisti tra noi lo spettacolo della città in trasformazione, proprio come risvegliava illusioni simili già nel XIX secolo nei poveri del mondo rurale in Europa; e come ancora oggi le risveglia nei dannati della Terra che preferiscono rischiare la morte fuggendo piuttosto che subirla rimanendo nel loro paese. Ingannevoli o promettenti, le luci della città brillano ancora”.
Non ci pensare e ascolta qui. La fine della storia è anch’essa se vogliamo tipicamente napoletana, della Napoli degli inizi anni ’90. Un commercio del genere non poteva durare all’infinito, soprattutto dopo che il nostro straordinario signor S. aveva voluto esagerare ed era riuscito a infilare nel suo Invicta un piccolo Caiman crocodilus, una specie che non cresce troppo e che vive solitamente in America centrale. Il tutto si compì in pochi istanti: lo straordinario signor S., ignorando uno strano ma intenso sguardo del proprietario del negozio, attraversò la porta d’ingresso, immediatamente si trovò addosso due tipi che si presentarono come Guardia di Finanza, dissero che dovevano dare un’occhiata allo zaino Invicta che teneva con sé e che faceva strani movimenti soffocati, la resistenza dello straordinario signor S. durò poco, lo zaino venne aperto e con il massimo stupore (e quasi paura) dei due finanzieri fece capolino uno splendido seppur piccolo esemplare di caimano dagli occhiali. Ti starai forse chiedendo che fine fece il nostro caro amico. Semplice, del resto era la Napoli anni ’90, senza troppa cattiveria né accanimento i finanzieri lasciarono andare lo straordinario signor S. che l’aveva sparata grossa dicendo che era ancora minorenne ma, per il fatto che non gli era ancora cresciuta peluria sul viso, risultò invece straordinariamente credibile. Il negozio chiuse per sempre e il piccolo alligatore fu riportato nel rettilario dove probabilmente sarà morto di fame nei periodi più bui del giardino zoologico di Napoli.

Non appena lo stimato signor A. concluse il suo discorso si levò alto un applauso, tutto il vicolo applaudiva compatto e divertito. Era accaduto nuovamente uno strano fenomeno, quello per cui tutto ti porta a credere che un evento stia accadendo per te e invece è soltanto una banale coincidenza. Insomma, non si stava tutti accalorati a ringraziare lo stimato signor A. per il suo racconto, bensì era stato stappato lo spumante e una ragazza allegra, cappello a falde larghe e gonnellino nero corto, festeggiava ubriaca la laurea. Lo stimato signor A. mi disse che non ne poteva più di quella confusione e che se ne sarebbe andato, io restai qualche altro minuto, soltanto il tempo di litigare con la padrona del carlino che puzzava di vomito a metri di distanza e di pensare a quanto tempo deve trascorrere per sentirsi così all’improvviso fuori luogo in ogni luogo.  

 

 

 



1) Si tratta ovviamente di quel fulmine a ciel sereno di Cammarota, il luogo che tutto il mondo invidia a Napoli e che è soltanto nostro e soltanto noi napoletani abbiamo la possibilità di ubriacarci in quelle serate che qualcosa bisogna fare perché sennò la vita è già troppo bestia e così si beve vino a fiumi e si sta lì a chiacchierare e poi arriva qualcun altro e succede qualcosa e fai l’aperitivo e ti senti nel moderno e ti fai il bicchiere di vino rosso pastoso e ti senti protagonista del dopolavoro degli anni ’50. Se poi abiti lì vicino è veramente perfetto. Cfr. Cammarota è un fulmine a ciel sereno.

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