“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 23 November 2014 00:00

Variazioni poco variate

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Chi si ama quando si ama davvero? L’interrogativo, all’apparenza banale, in realtà sottile, è il cavallo di Troia attraverso cui del tema più caro ai poeti imbastisce ordito per prendersi la scena Éric-Emmanuel Schmitt: due uomini e l’amore per una donna, due solitudini confinate ai confini del mondo, in un’isola nordica a cavallo del Circolo Polare Artico; uno scrittore premio Nobel ed un sedicente giornalista sono i protagonisti di una pièce imperniata su un sottile e raffinato psicologismo, scandaglio gettato in quell’abisso tenebroso che è l’animo umano, col suo groviglio di sentimenti inesplicabili, col suo rimanere ostaggio dell’ineffabile, dell’indicibile, anche quando a dirne è chi di parole (dette, scritte) vive, e chi infine al proprio sentire (non detto, parzialmente scritto) sopravvive.

Schermaglia dialettica tra verità e menzogna, le Variazioni enigmatiche è traslazione umana di un’insondabile melodia (quella che dà il nome all’opera), quattordici variazioni – del compositore inglese Edward Elgar – su un tema musicale conosciuto ma che non si riconosce: metafora musicale dell’imperscrutabilità dell’amore, che si vive sulla pelle e nei precordi, ma che sfugge implacabilmente a qualsivoglia irreggimentazione raziocinante.
Due attori in scena ed una figura femminile – solo evocata – che è motore invisibile dell’azione, che è azione prettamente verbale: nella Variazioni enigmatiche è infatti il testo il vero protagonista, col suo minuzioso indagare, con i suoi lampi ironici e salaci, col suo connotare le psicologie in scena con una perizia ed una raffinatezza che seguono una progressione esponenziale, col suo procedere per rivelazioni e ribaltamenti.
Due attori in scena in un’ambientazione fredda, asettica, fatta di bianche pile di libri finti che sembrano suggerire il gelo polare dell’isola al confine del mondo in cui l’azione ha luogo, così come sembrano parimenti suggerire il gelo interiore di due anime rese orfane da un medesimo dolore, che nel gelo cercherà confessione, nel gelo potrebbe ambire a reciproca compassione.
Verità e menzogna compongono le due facce di una medesima sostanza, l’artificio e la sincerità sono declinati come fossero solo le apparenze di una stessa verità duale. La menzogna è il pane dello scrittore, in fuga dal mondo e dalla vita, rifugiato in un mondo fatto di carta, transfuga dei sentimenti che ha cercato di confinare e sublimare in un maniero di cellulosa, inaccessibile agli uomini; la verità è invece quella di cui si fa portatore il suo interlocutore, voce della coscienza che reclama il vero. Tra i due uomini si instaura un rapporto dialettico che progressivamente si capovolge, che rovescia i rapporti di forza in atto nelle schermaglie verbali. Il testo di Schmitt vive di vita propria, si regge autonomamente, è protagonista di scena cui la partitura scenica non può che affidarsi, riservandosi pochi margini d’intervento; la regia si limita a seguire l’evolversi delle dinamiche dialettiche, sottolineando il ribaltamento dei ruoli con una semplice variazione luminosa da un prima ad un dopo, dalla tensione al disvelamento. Mostra però qualche limite nella propria esecuzione questa messinscena in certa qual rigidità della componente attoriale, non priva di impacci e nelle cui voci non sembra vibrare l’anima del testo; è un po’ come se il gelo polare s’impossessasse della scena, rendendo fredda e prevalentemente monocorde l’interpretazione.
Inoltre, ci appare forzosa la scelta di ostentare la vacuità dei bicchieri (del “bicchiere, bicchierino, piccolo bicchiere per deglutir le pene” che più volte passa tra le mani dei due protagonisti); se è vero che l’ambientazione è asettica e impersonale, è pur vero, di contro, che la vicenda si offre in ribalta come concreta e reale, così come concreti e reali sono gli altri oggetti di scena (l’ultimo libro dello scrittore, il giradischi da cui s’irradiano le note delle Variazioni enigmatiche, il magnetofono del giornalista).
Ma al di là delle scelte formali, che tutto sommato poco variano e poco aggiungono, vera protagonista rimane sempre e comunque la parola, la compiutezza drammaturgica dell’opera, che finisce per risultare preponderante anche dinanzi ad una resa scenica che si attesta su livelli di medietà.
Così come sulla scena la scrittura si offre come mezzo per perpetuare la vita oltre la morte, ci appare come se, su quella stessa scena, la drammaturgia si offra come strumento che travalica la propria realizzazione, vivendo invariata nella sua intrinseca bellezza.

 

 

 

Variazioni enigmatiche
di Éric-Emmanuel Schmitt
regia Aniello Mallardo
con Gianni Caputo, Mario Troise
scene Sissi Farina
costumi Anna Verde
foto Tiziana Matropasqua
video Fabiana Fazio
produzione Teatro in Fabula
lingua italiano
durata 1h
Napoli, Teatro Sala Ferrari, 20 novembre 2014
in scena dal 20 al 23 novembre 2014

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