“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 04 September 2014 00:00

Hanno spolverato Kenny! (Brutti bastardi!)

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Cosa fotografa meglio il reale della sua proiezione virtuale? O, meglio ancora, in quale universo proiettivo meglio vengono evidenziate le tare della società contemporanea? La più plausibile delle risposte suggerirebbe di riferirsi al panorama televisivo, e segnatamente a quel tipo di televisione che ha fatto dello schermo un buco di serratura dilatato, in cui il misero privato – meglio ancora se miserrimo – possa prestarsi a pubblica ostentazione.

La televisione del dolore, il reality show, i salottini trash in cui è raro scendere sotto il decibel dello strepito, la cronaca vera più vera del vero che pervicacemente s’ostina a voler mostrare il dettaglio e la prurigine ora macabra, ora squallida, ora efferata, sono tutti i colori di una tavolozza dalle tinte fosche che serve ad affrescare lo stato di salute socio-antropologica di una società, quella italiana, inequivocabilmente indicata sulla scena da una bandiera tricolore che campeggia sullo sfondo.
Realitaly, di La Ballata dei Lenna, prende questo panorama – o almeno parte significativa di esso – e la traspone in una dimensione teatrale: il buco della serratura, da schermo si fa ribalta e le angustie di vite da sottoscala vengono offerte in visione come pietanza di un (auto)sciacallaggio consapevole. Tre personaggi in scena, che scelgono per combattere l’indigenza di spettacolarizzare la loro condizione, le loro vite irrisolte e condivise in uno spazio compresso, delimitato sulla scena da uno scheletro casupolare in cui i tre – due ragazze e un ragazzo – convivono; uno spazio senza stanze, senza armadi, senza frigo, senza nemmeno i servizi igienici: un secchio per le deiezioni, poi “esportate” all’esterno mediante una busta di un negozio Armani, per non dare nell’occhio. “Signori, noi così stiamo messi!”, si dichiara programmaticamente. La scena vuol mostrare, senza remore e senza filtri (almeno nell’apparenza iniziale) come si vive nello squallore umido di un sottoscala; perché già che si vive in una determinata condizione, tanto vale fare in modo di poterne cavare un qualche profitto che aiuti a tirare avanti. Ci troviamo nel sottoscala di tre “sottoesistenze”, che affrescano una quadreria di immagini grottesche, a cominciare dal luogo in cui vivono, passando per una serie di situazioni iperboliche, come il borotalco utilizzato per surrogare un’igiene inesistente o il fon adoperato per asciugare ascelle di camicie non deodorate. “Noi siamo soltanto quel che vedete”, ci si affretta a dichiarare ad un pubblico evocato come pagante di questo esperimento millantato come “docuteatro”; il corpo offerto diviene pertanto metafora: la miseria interiore, tirata fuori ed esposta, come quel marcio che c’è dentro e non si vede.
Il punto è che tutto questo appartiene già ad un mondo e ad un immaginario già noti e di pubblico dominio; per renderlo accattivante serve riuscire a farlo diventare teatro. Ed in questo La Ballata dei Lenna è compagnia assai capace. Pur con qualche asprezza di scrittura che andrà progressivamente limata, Nicola Di Chio, Paola Di Mitri e Miriam Fieno, che sono giovani ma già abbastanza ben strutturati, costruiscono una messa in scena lineare e coerente, ma anche fantasiosa e originale, che gioca con un uso sapiente delle luci, adoperate e variate in scena dai tre attori nel contrappuntare con variazioni opportune i diversi passaggi drammaturgici; così come apprezzabile è la scelta del campionario musicale, che spazia da Albano e Romina Power ad Arisa, passando per Battisti e la Vanoni, contrappuntando con sapido gusto della sottolineatura i momenti della rappresentazione. Ancora, assai interessante è l’uso dello spazio scenico, imperniato sì su un perimetro casupolare centrale, scheletro in abbozzo che rappresenta il confino angusto scelto da tre contiguità troppo contigue, ma composto anche da un angolo differentemente illuminato al di fuori, una sorta di ‘a parte’ confessionale, deputato all’espettorazione delle miserie di ciascuno che dovranno costituire la sostanza del documentario teatrale da inscenare e che sarà rischiarato da luce diversa a seconda dei toni e delle modalità della confessione di turno.
Quel che si mette in scena, come si diceva, è l’ostentazione dello squallore, della meschinità, in definitiva della debolezza di un sottobosco umano, che è quello degli irrealizzati, di quella generazione di trentenni già invecchiati precocemente all’ombra di sogni andati in frantumi e di progetti naufragati miseramente.
La metafora che sottende a tutto ciò alberga in un pupazzo, Kenny di South Park, ossessivamente ripulito dalle preoccupazioni e dalle angustie che gli si accumulano all’interno sotto forma di polvere, perché “quando la polvere è molta arriva la morte” (ed è significativo che il personaggio ripulito per essere preservato dalla morte sia proprio quel Kenny che muore in ogni puntata di South Park). Così, l’ostentazione da reality di miserie individuali e condivise – tra le quali non mancano riluttanze e reticenze, frizioni e contrapposizioni – diviene una sorta di rituale di espiazione e purificazione, attraverso cui espettorare il marcio, la “polvere” che ciascuno di loro ha dentro, il sedimento di ciò che li ha disillusi, affossati ed infine corrotti, ridotti a vivere rinunciando e a patire recriminando.
Il mondo paradossale e grottesco di Realitaly non sorprende né sconvolge, perché è iperbole icastica di una realtà facilmente riconoscibile; ma piace, Realitaly, e convince per la capacità che mostra nello scegliere un linguaggio, visivo e verbale, accattivante, personale, che dimostra conoscenza della grammatica teatrale e che andrà sicuramente raffinato dal punto di vista drammaturgico (ad esempio il finale affidato al monologo di Kenny – solitamente muto in South Park – se da un lato appare scelta indovinata concettualmente, dall’altro avrebbe meritato maggiore profondità, come pure la scelta di affidare ad un fantomatico ritrovato scientifico la panacea di tutti i mali sembra un po’ edulcorare il tutto nella direzione di un happy end semplicistico e favolistico). Siamo però sostanzialmente dinanzi ad un modo di fare teatro che appare gravido di potenzialità che in parte già si esprimono e che probabilmente trarrebbe giovamento da una mano (e da uno sguardo) in più in sede di scrittura e regia, per far maieuticamente venir fuori ciò di cui s’intravedono già notevoli potenzialità.
Per il momento hanno spolverato Kenny...

 

 

 

 

Festival Internazionale Castel dei Mondi
Realitaly
di La Ballata dei Lenna
con Nicola Di Chio, Paola Di Mitri, Miriam Fieno
produzione La Ballata dei Lenna
foto di scena Francesco Confalone, Bruno Calza
paese Italia
lingua italiano
durata 1h 15’
Andria (BAT), Chiostro di San Francesco, 29 agosto 2014
in scena 29 agosto 2014 (data unica)

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