“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 05 July 2014 00:00

Trent'anni fa...

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5 luglio 1984. Un pomeriggio che segna l’inizio di una storia che si confonde con l’epopea e che, nel suo svolgersi e nel suo mai concludersi, intreccia a doppio filo la vita di un uomo e di una città.
Tre parole ne avevano annunciato l’arrivo, strappate da un’impressione rilasciata a mezza bocca: “Yo soy feliz”, il commento del Pelusa a chi gli chiedeva le sensazioni sul suo trasferimento dal Barcellona al Napoli, espresso col candore quasi ingenuo del ragazzo non ancora diventato grande.

Era felice ed ancora non sapeva, non sapeva cosa sarebbe stato, cosa avrebbe rappresentato e cosa non avrebbe mai smesso di essere per un popolo che lo avrebbe eletto Profeta e Nume tutelare, Idolo ed Icona, Messia del cuoio che rotola sul prato verde.
Di lì a poco Diego avrebbe suggerito un nuovo modo di sognare, di lì a poco avrebbe iniziato a riscrivere ex novo la mitografia partenopea, soverchiando in devozione santi e numi tradizionali.
Il 5 luglio 1984, pomeriggio caldo, da stagione balneare già iniziata, all’apice di un’estenuante trattativa con contorni da spy story, l’asso argentino mette piede a Napoli per essere presentato alla folla, a quella folla che sarebbe diventata il suo popolo: cinquantamila persone che arrivano allo Stadio San Paolo dai quartieri della città, dalla provincia, dal resto della regione, alcuni addirittura lasciando i propri luoghi di villeggiatura, e solo per vedere Maradona entrare in campo per un saluto e quattro palleggi di pura cortesia: in quel momento stava avendo inizio uno dei rapporti più empatici e intensi fra un uomo venuto da lontano e un popolo che sembrava aspettarlo da sempre. Testimonia la visceralità di questo rapporto il fatto che oggi, a ventitré anni e spiccioli dall’ultima allacciata di scarpini di Diego in maglia azzurra, il legame che avvince la città all’uomo, al simbolo, sia tuttora forte come lo fu col calciatore, con quel ricciuto folletto capace di fare di un campo di calcio una tela su cui dipingere col piede sinistro elementi pittorici mai visti prima d’allora, mai più visti dopo d’allora. Ancora oggi, quando quel signore ultracinquantenne che un tempo indossò la “10” rimette piede a Napoli, le scene di delirio intorno a Lui sono come se non avesse mai smesso di giocare, come se non se ne fosse mai andato, come si fa con una divinità: reliquiario vivente di se stesso, Maradona viene toccato, osannato, soffocato da un abbraccio che rischia, ora come allora, di essere morsa troppo stretta attorno al suo collo. C’è qualcosa di mistico che è sopravvissuto al calciatore e che lo ha reso corpo da eucarestia perpetua.
Il 5 luglio del 1984 sbocciava una storia d’amore, di quelle destinate a durare per sempre, mescolandosi alla devozione, capace di resistere ai travagli, ai tradimenti, alle montagne russe di una umoralità veicolata da vicende fosche, a volte troppo più grandi di un ragazzo che voleva solo giocare a pallone e dare gioia alla gente, trovatosi ad esser Dio suo malgrado.
Voleva dare gioia, ed è quello che fece, sovvertendo i destini sportivi di una squadra la cui tendenza karmica era andata fino ad allora in direzione ostinata e contraria ad ogni forma di successo ed affermazione; perché pare che al Sud sia più difficile vincere, com’è più difficile fare quasi ogni altra cosa, raggiungere quasi ogni tipo di successo. Eppure con Lui è stato possibile: quel 5 luglio del 1984 è stato come se Diego prendesse per mano quello che in un attimo era già diventato il “suo” popolo e gli promettesse di vincere. Promessa mantenuta: due Scudetti, una Coppa Italia, una Coppa UEFA, una Supercoppa Italiana e sette anni di magie, di gioie dispensate di domenica in domenica, inframmezzate dalle immancabili polemiche, dagli scandali, dall’affiorare di un torbido turbinio in cui a tanti piacque rimestare. E fu spesso bersaglio – a volte ahilui complice – del moralismo becero e strumentale; Maradona veniva spesso additato come cattivo esempio, molti confondendo, a bella posta e non senza studiata dietrologia, l’uomo col calciatore; quante volte si sentiva ripetere la solfa a cantilena “Maradona? Grande calciatore, Ma come uomo...”, nell’esercizio di un moralismo da bar che aveva bisogno di pascere di se stesso, di demolire l’icona. Eppure, se si ascoltava chi ci aveva avuto a che fare, ben difficilmente si sentiva spendere parole negative verso Diego; dai compagni, certo... ma Lui li faceva vincere, è plausibile; ma erano anche gli avversari a parlarne in termini positivi, segno che forse su quell’“uomo negativo” si spendevano spesso giudizi frettolosi e superficiali non conoscendone affatto la sostanza umana.
Resta comunque il campo di calcio il luogo in cui Maradona è venuto a miracol mostrare; resta il campo di calcio il suo regno indiscutibile. Il calcio con Maradona ed il calcio senza Maradona sono due sport che si somigliano, ma che non coincidono, tutta un’altra cosa: Maradona col pallone faceva ciò che ad ogni altro bipede dalle scarpe chiodate verrebbe difficile anche solo pensare di poter fare. Vederlo giocare era “un’esperienza religiosa”, come disse David Foster Wallace a proposito di Roger Federer (altro sport, altra mitografia possibile), perché sapevi che da un istante all’altro avresti assistito al portento, all’evento miracoloso, a qualcosa che t’avrebbe fatto sobbalzare dal sedile degli spalti o dalla poltrona davanti al televisore, a qualcosa che avrebbe minacciato di sovvertire le leggi della fisica, come la torsione del suo sinistro nella punizione a due in area di rigore calciata contro la Juventus in un piovoso pomeriggio di novembre del 1985; o ancora a qualcosa destinato a rimanere impresso nella storia del gioco, fotogramma dopo fotogramma, come il gol di Mexico 86, in cui si tolse lo sfizio di “circumnavigare” l’intera Inghilterra palla al piede, dopo averla turlupinata col gol di mano – la famigerata “Mano de Dios” – mostrando in un’unica partita quanto di demoniaco e di angelico convivesse in Lui, genio e carogna, furbizia “bassa” e altissimo magistero tecnico.
“Giocò, vinse, pisciò, fu sconfitto”, l’estrema, impietosa e veritiera sintesi di Eduardo Galeano nel capitolo dedicato a Maradona in Splendori e miserie del gioco del calcio (Sperling & Kupfer, 1997), dopo che ad USA 94 lo sfruttarono come veicolo promozionale per poi fregarlo e farlo apparire agli occhi del mondo ancora una volta come il reprobo incorreggibile: avevano compreso, alla FIFA (“la mano nera”, come ebbe a definirla “El Diego”, già nel 1990), che quel veicolo promozionale aveva deciso un’altra volta di vincere il Mondiale e lo avrebbe fatto. Andava fermato. Un controllo antidoping fu il pretesto, l’efedrina lo strumento.
Eppure Maradona si è sempre rimesso in piedi, dopo aver conosciuto tanti livelli dei mondi d’inferno, rimanendo comunque fedele a se stesso: temperamento antisistema, figura scomoda per un ambiente corrotto come quello della politica sportiva, che Lui non perde occasione per bacchettare a brutto muso.
Ma questa è un’altra storia. Oggi è il 5 luglio, come nel 1984. Ed è bello ricordare e celebrare, non senza quella punta di malinconia che sempre accompagna i ricordi più cari, la data d’inizio di una storia destinata a non aver mai fine.

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