“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 31 March 2014 07:47

L'essenza del 'wow'

Written by 

“Direttore, siamo stati accreditati”.
“Per che cosa?”.
“Maniaci d’Amore, Morsi a vuoto, lo studio che ci tenevi tanto a vedere”.
“Ah, bene; allora ci fai il pezzo…”.
“Vabbè, ma si tratta di uno studio, non di un vero e proprio spettacolo…”.
“Eh, ma siamo stati accreditati… Ed io di loro ho appena scritto; quindi ci facciamo il pezzo; quindi ci fai il pezzo!”.
“Ehm… Va bene…”. (“Uff… ma quant’è barbogio e palloso st’omarino qui… L’avessi saputo manco l’avrei fatta la richiesta d’accredito!”).

E fu così che da disimpegnato spettatore dovette avvenire per l'estensore del presente articolo passaggio di ruolo in spettatore redattore, taccuino alla mano e palpebre spalancate; uscita da un ruolo per svolgerne un altro, previo accompagnamento del succitato Direttore presso altro teatro a fruir visione d’altro spettacolo, stavolta sì spettatore disimpegnato – e mediamente flaianescamente addormentato, senza null’altro di flaianesco da dichiarare! – mentre egli – il Direttore, taccuino alla mano e palpebre spalancate sulla scena, si dedicava a visione da cui sarebbe poi sortito dottissimo regesto d’un traviamento scespiriano di cui altrove in questo virtual brogliaccio si può leggere alla voce “regie sbagliate”.
Tant’è. Abbracciato il nostro destino missionario, esperito il ruolo di spettatori, usciamo da un teatro per entrare in un altro, da un ruolo per svolgerne un altro. L’atmosfera che percepiamo una volta imbracciati penna e taccuino è informale come si conviene ad uno spettacolo che non è ancora spettacolo, ma che dichiaratamente si offre come il frutto di un lavoro non ancora compiuto. E questo suscita di per sé un precipuo interesse; interesse che si rinfocola non appena – e cioè dopo non molto – i due attori in scena (stiamo parlando di Francesco D’Amore e Luciana Maniaci) cominciano a duettare giocando ad entrare ed uscire dal recitato e dal provato, cincischiando informalmente come se, presentando il lavoro e presentando se stessi, attendessero di cominciare davvero ed in realtà hanno già cominciato a far mostra diretta del loro lavoro.
Il gioco inizia fronte al pubblico, consentendo ai due attori, che poi sono anche autori di se stessi, di giocare allo scoperto con la dimensione teatrale della prova, del teatro non ancora teatro, che lo diventerà e che intende mostrarsi nel suo divenire; ma lo fa con divertita scaltrezza, talché il continuo entrare ed uscire dal personaggio per lasciar parlare l’autore di quello stesso personaggio, rende il tutto un complicato e divertente gioco di scatole cinesi, in principio del quale i due presentano se stessi ed il lavoro che sono in procinto di mostrare come se davvero fossero in una conferenza stampa ristretta o in un’audizione: il gioco è cominciato, non v’è più alcun dubbio.
I due si fronteggiano in scena, dinanzi a due leggii giustapposti, alternando la recitazione dei personaggi alla descrizione dei personaggi; un paio d’occhiali inforcati e sfilati alternativamente segnano il passaggio da un ruolo ad un altro, a volte fingendo di dimenticarsene per ancora giocare col meccanismo della prova, entrando e uscendo, ancora una volta, dal ruolo e dal personaggio.
La propedeutica della scena mostra di sé già avanzato il livello di scrittura di un lavoro che diventerà messinscena incentrata sull’ironia agghiacciante del divenire contemporaneo; nevrosi e psicologismi si intravvedono già costituirsi come fili conduttori di una drammaturgia che, prima di farsi teatro, già mostra densità compositiva, pregnanza di senso, e che ha già in nuce i meccanismi di scena di cui si avvarrà, facendo del teatro gioco desultorio di cambi di ruolo e di interazioni continue tra teatro e metateatro, apparentemente confondendo e mischiando le carte, in realtà mostrando i gangli sottili ed i legami sfumati che intercorrono fra esistenze che si combinano e si declinano lungo possibili derive contemporanee. La confusione dei ruoli è confusione delle identità, le identità tendono ad essere sempre più evanescenti ed in balìa di fattori variabili e variabilmente deprecabili, nella fattispecie ipostatizzati dagli smeraldi o dal valore della magrezza agognata e apparentemente celata dietro un’ironia ad oltranza che vuole essere corteccia protettiva – in verità vana – del sé contro l’ingiuria perpetua del mondo.
Relazione del corpo col mondo esterno, Morsi a vuoto si offre come frutto di uno studio che appare ben congegnato, dal punto di vista della scrittura, di cui incuriosisce sapere cosa verrà aggiunto in scena, ma che già vive di vita propria, nei propri ritmi dialogici serrati, nelle proprie iperboli grottesche, nel tratteggio di realtà psichiche facilmente riscontrabili nell’universo contemporaneo; un lavoro di cui è interessante altresì capire il passaggio autori-regista-attori, con Francesco e Luciana ai due estremi – autori e attori – e Filippo Renda nel mezzo a mediare come regista (e sarà per questo ancora più interessante poter verificare gli sviluppi di tale interazione in futuri allestimenti).
Un lavoro di cui s'aspetterà volentieri di constatare la dimensione definitiva, ma che ha già mostrato di saper interessare nella sua forma aurorale, che è più di un embrione.
Compiaciuti della visione di cui abbiamo potuto usufruire, e ben comprendendo quanto più semplice sia stato per noi il passaggio di ruolo da spettatore ad estensore di resoconto, il cambio di scena da un teatro all’altro, rimaniamo contenti anche di farne scrittura.
“Ah… Direttore… Grazie!”.

 

 

 

Morsi a vuoto #studio
di e con Francesco D’Amore, Luciana Maniaci
regia Filippo Renda
lingua italiano
durata 30’
Napoli, Start Teatro/Interno5, 27 marzo 2014
in scena 27 marzo 2014 (data unica)

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook