“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Gioacchino Toni

“108 metri”. L’importanza di non tradire le regole

L’Italia si sta dimostrando ormai da qualche tempo un Paese dalla memoria corta e dalla vista selettiva e ciò appare particolarmente evidente se si fa riferimento ai fenomeni migratori che toccano il Paese.
Memoria corta perché se c’è una nazione che ha visto partire la sua gente alla ricerca di lavoro e di condizioni di vita migliori questa è proprio l’Italia. Di ciò non c’è traccia nei mantra ripetuti da piccoli politici nostrani senza scrupoli a caccia di facili consensi. Questa storia di migrazioni è stata raccontata tanto dalla letteratura − a partire da Edmondo De Amicis con i suoi emigranti diretti verso il Nuovo Mondo a fine Ottocento e Giovanni Pascoli con i suoi versi sull’Italia raminga a inizio Novecento − quanto dal cinema − che sin dagli anni Dieci ha affronto le migrazioni italiane transoceaniche con Febo Mari e Umberto Paradisi.

“Frankenstein” tra potenza e mito

“A duecento anni dalla pubblicazione del romanzo nato dall’ingegno e dalla creatività di una giovane donna inglese non ancora ventenne, Mary Shelley, uno storico della scienza e uno studioso della cultura di massa ricostruiscono lo sfondo culturale di questo capolavoro, con particolare attenzione alle teorie scientifiche dell’epoca, e narrano la genesi e lo sviluppo del mito di Frankenstein fra teatro, cinema, televisione e fumetti”.

Il cinema francese nei rimossi anni di Vichy

Lo storico Henry Rousso nel formulare l’etichetta “Sindrome di Vichy” fa riferimento alla difficoltà dei francesi di fare i conti apertamente “con un periodo di occupazione che portò all’identificazione e assimilazione del fascismo nel proprio corpo territoriale, socioculturale e politico, un’afflizione della memoria e dell’identità collettiva che si manifesterà in Francia a partire dal secondo dopoguerra sotto forma prima di lutto, poi di rimozione gollista e infine di riemersione traumatica a partire dagli anni Settanta.

Cinema contemporaneo: un laboratorio autoriflessivo

“Che cosa è il cinema?”, si chiedeva André Bazin dando vita ai celebri Cahiers du cinéma nella Francia del dopoguerra. Se per certi versi la domanda si confrontava all’epoca, ed ancora per diversi decenni, con un oggetto di studio relativamente stabile, a cavallo del passaggio di millennio la domanda torna a far capolino in un panorama in cui tale oggetto di studio sembra essersi fatto davvero instabile circondato com’è da un proliferare di forme e media audiovisivi in costante mutazione.

Cocteau e il cinema in quanto poesia

Nonostante Jean Cocteau non abbia mai scritto un trattato teorico sul cinema, secondo Stefania Schibeci, studiosa e docente di Pittura e arti del XX secolo (IULM), può essere collocato a pieno titolo tra i teorici del cinema. È nei suoi film che sono ravvisabili i principi guida della sua riflessione su questo medium e, a dimostrazione di tale convincimento, Schibeci ha recentemente pubblicato il saggio Jean Cocteau teorico del cinema (Mimesis, 2018).

Cinema narrativo e coinvolgimento emozionale

Il cinema ha il potere di immergere lo spettatore nelle storie che racconta, riesce per certi versi ad eliminare la distanza fisica tra chi è seduto in poltrona e chi abita lo schermo, è capace di commuovere come se le vicende narrate riguardassero in prima persona lo spettatore che, addirittura, per alcuni intervalli di tempo si annulla dimenticandosi di sé. Insomma il cinema, sin dalle origini, ha un sorprendente potere di coinvolgimento e di questo potere nel corso del tempo si sono interrogati non pochi cineasti e studiosi a partire dalle conoscenze in loro possesso all’epoca circa il funzionamento della mente umana.

Il cinema del reale

“Quella del cinema del reale è la tendenza che più di ogni altra nel cinema contemporaneo produce nuove immagini del mondo, nuovi sguardi e nuovi interrogativi sul reale e le sue conseguenze”.
(Daniele Dottorini)

 
 

Un longevo quanto ingenuo luogo comune vuole che il cinema si sia trovato sin dalle sue origini a dover scegliere tra un indirizzo volto alla “presa del reale” e uno votato alla sua “reinvenzione fantastica”. Insomma, la solita storia che vuole da una parte i fratelli Lumière e il loro sguardo documentario sulla realtà e dall’altra Méliès con la sua idea di cinema come creazione di mondi fantastici e immaginari. Sappiamo quanto in realtà queste due linee si siano intersecate lungo tutta la storia del cinema e, soprattutto, continuino a farlo ai nostri giorni.

La fotografia di Sander oltre la pretesa archivistica

Come sostiene Paolo Spinicci nella Premessa al volume di Barbara Fässler, August Sander. Fotografia, archivio e conoscenza (Postmedia Books, 2014), sin dalla sua comparsa la fotografia racchiude in sé promesse e compiti che non può totalmente mantenere. L’idea di poter restituire la realtà nella sua esattezza, isolandola dalle relazioni, dalle circostanze e dalla volatilità del suo manifestarsi, rientra in una finalità di ordine conoscitivo. La fotografia sembra promettere la possibilità di eliminare gli aspetti accidentali ed effimeri dell’esperienza immortalata. “Le fotografie sembravano dunque proporsi come strumenti di conoscenza, ma soprattutto sembravano promettere la realizzabilità di un progetto di cui, e proprio a patire dal XIX sec., si sentiva vivo il bisogno e che si cercava anche per altre vie di realizzare: il progetto di un Grande Inventario ragionato del mondo, di una raccolta ordinata ed esaustiva del molteplice negli spazi di un grande palazzo – il museo”.

Il cinema sperimentale del Cineguf

Andrea Mariani, docente di Teoria dei media e dei nuovi media presso l’Università degli Studi di Udine, nel suo Gli anni del Cineguf (Mimesis, 2017) analizza il materiale cinematografico realizzato in Italia dai Gruppi Universitari Fascisti durante il Ventennio, una particolare produzione in cui si intrecciano indistricabilmente cinema sperimentale d’avanguardia e cinema amatoriale.

L'altro cinema. Il documentario d'autore

Viste come qualcosa di più vicino al giornalismo o alla saggistica, a lungo le produzioni audiovisive documentarie non sono state considerate vero e proprio cinema. Contro questa convinzione, diffusa ancora oggi fuori dagli ambienti specialistici, Maurizio Fantoni Minnella ha steso il suo imponete volume Film documentario d’autore (Odoya, 2017) palesando sin dal sottotitolo, Una storia parallela, come questo luogo comune sia, una volta per tutte, da sfatare.

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