“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Emilio Nigro

Viaggio lento

grecìa salentina. non riesco ad afferrare senso, perché, luoghi e forme. non riesco a chiarire, identificare, dare nome. malia. malia corrompe percezioni e ragione. malia negli occhi e nello stomaco. attraverso e tutto si fa attraversare. mi attraversa. mi soffermo un attimo per essere rapito altrove l'attimo dopo. sulla strada per calimera, per esempio, ulivi si contorcono su sé stessi per darne corpo d'uomo. sentieri di pietra tracciano qualcosa d'antico, segni silenti. la gente si parla in greco, anzi grico. e nei vicoli, il disordine architettonico tipico di zuffe tribali e apotropaiche. avverto febbre. di bellezza. di stupore. di avvertire lo sregolato battito di questa terra. nel tentativo di canalizzare euforie incontenibili.

"Thyssen", tragico contemporaneo

Un’attrice in scena. Sola. In uno spazio assunto come dimora, probabilmente l’unica possibile. L’unica in cui essere. Habitat dove muoversi con disinvoltura, con oggetti, scenografie, luci, postazioni, puntature, a perdere il significato spettacolare e mutarsi in materia quotidiana. L’agio dimostrato sulla scena quasi a non rendersi cosciente d’essere bersaglio di sguardi e osservazioni vigili. Eppure la Balucani sente il pubblico, e se ne fa testimone di comprensione. Quella comprensione collettiva che rende l’evento teatrale dimensione di incontro sociale, prima che spettacolo.

Il volo di Giuseppe

Il corpo dell’attore, geografia vivente della trasmutazione. Sulla carne – attraverso gesti e mimesi – gli umori, le intenzioni, l’umanità, il linguaggio urgente di un resoconto. Per uditori non ipocriti. Per simili.
San Giuseppe da Copertino non poteva essere rappresentato semplicemente dando mezzo a una storia meravigliosa. Facile. Comodo. Anche ammiccante.

Barbonaggio. Diario di un viaggio (ultima tappa)

A guardarli per strada non devono avere fatto una buona impressione. Venti-trenta persone con un cubo di legno in braccio. In fila indiana. Per le strade di Lecce, prima di raggiungere Piazza Sant’Oronzo dove si sarebbero esibiti. A guardarli qualche pensiero strano, derivante dallo stupore, i leccesi l’avranno fatto.
Non succede così spesso in provincia di barbonare in fatto di teatro. Mendicare sì, ma questo è un altro fatto...

Barbonaggio, diario di un viaggio (quarta tappa)

Si torna a casa. In Italia, a calcare strade e palcoscenici ‘familiari’. Rinnovandosi ogni volta che si va in scena. Ricreandosi dall’uomo al personaggio e ricreare la platea proiettandola nell’atto. Per strada va diversamente. La strada è un non luogo (nella definizione artistica del termine) potenzialmente infinito. Il pubblico non è predisposto nel ruolo affibbiatogli dello spettatore.

Barbonaggio, diario di un viaggio (terza tappa)

Le parole di un artista. Lo sguardo sul circostante a proiettarsi dentro e fuori. Gli sguazzi sull’urbano formicolante caro ai simbolisti di inizio Novecento e all’attitudine dell’accattonare, girovagando, giostre di umori, circostanze, contatti, inquietudini e azioni. Un teatro vivente. Commedianti e impresari, ladri e faccendieri, gente comune, passanti, donne e iene. Chi guarda e chi osserva. Chi guarda e chi vede. Ippolito Chiarello racconta il suo viaggio. Lo fa su un invisibile palco di strada su cui s’installano altrettanti scenografie invisibili. E lo spettatore non è distanziato da nessuna parete. Diventa l’atto, l’atto creativo.

Barbonaggio, diario di un viaggio (seconda tappa)

Ogni volta che parlo con me. Potrebbe essere il titolo di una poesia, l’incipit di un romanzo d’introspezione, una drammaturgia di soliloqui. Quanto siamo capaci di parlarci e non di rimproverarci, idolatrarci, specchiarci nello stagno che s’innamora di noi? Quanto pensiamo... anziché parlarci. Anziché parlare. Con noi e con l’altro. Il teatro serve anche a questo. Interconnettersi con l’altro. In un’epoca in cui la parola connessione assume significati non umani. Non di pelle. Non di voce e occhi equidistanti. Ma su queste pagine non si vuole fare morale. Raccontare.

Barbonaggio, diario di un viaggio

Terminal bus di Lecce, biglietteria. Da qui partono le navette che portano al più vicino aeroporto, a Brindisi. È mattino, sul piazzaletto antistante lo sportello – che sembra una sala d’attesa all’aperto, di quelle dove puoi incontrare qualche senzatetto o la turista francese ammiccante – le fasi sono concitate. Studenti, pendolari, affaristi, mercanti, paesani in cerca di fortuna, voyeurs e cocotte, professionisti e inventati. In coda o in attesa. Di un biglietto, una partenza, un ritorno. Qualcosa, comunque qualcosa. Qualcosa da fare.

La sposa svelata

Un abito da sposa sul fondale, a destra, elegante, stiloso. Ambiente e didascalia. Immagine a connotare storia, tradizione, concezione, mentalità. Un carrello bar a sinistra, più verso il centro del palco, una sedia prima della ribalta, un musicista a sinistra in fondo e l’attrice, Angela De Gaetano, corpo, mimica, voce, gesto. Bocche di dama si potrebbe definire uno spettacolo essenziale. Quando il teatro con poco e senza bisogno di effetti audiovisivi, evoca scenari invisibili e suscita l’emozione dello spettatore.

La Cupa o del nuovo teatro pugliese

Si rinnoverà i primi di agosto, il rito del teatro a Novoli. Il Festival I Teatri della Cupa trasformerà ancora il borgo salentino in sembianze altre. Altra tappa della residenza artistica che le compagnie Factory Transadriatica e Principio Attivo Teatro porteranno a termine l’inverno prossimo nell’ambito del progetto regionale pugliese dei Teatri Abitati.

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