“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Rita Pagnozzi

Dighero meglio di Fo

Se c'è una cosa che proprio infastidisce a teatro è l'introduzione alle messinscene! Non se ne rinviene senso! Ogni volta l'interrogativo è introdotto dallo stesso avverbio: perché? Perché ce lo dovete spiegare? Perché credete che il vostro pubblico non sia all'altezza di una comprensione senza filtri? Perché non lasciare la libertà di sorprendersi ed interpretare, di risolvere finali aperti o rimanere in dubbio? O, forse, è la consapevolezza di non essere in grado di rendere appieno il senso dell'opera? Credete, forse, non sia sufficiente la vostra performance a tradurre lingue, o per meglio dire dialetti, più o meno sconosciuti? Avete mai assistito ad un Der Ring des Nibelungen o ad un Die Zauberflöte preceduti da un quarto d'ora di un tale chiacchiericcio?

L'importante è non cadere dal... barcone

Certo, il teatro avviene, ed avviene ovunque qualcuno lo faccia avvenire, esso è epifania legata irreversibilmente al qui ed ora; ma certo teatro è ancor più teatro se avviene in un qui determinato, studiato, opportuno. Assistere ad una straordinaria messinscena dell'Edipo Re che adopera solo ed esclusivamente un cerchio di pietre in un semibuio residuo industriale, è cosa che allieta lo spirito; lo è altrettanto prendere parte ad un XXIV° canto dell'Inferno tra bidoni e fuochi nel retro dell'Albergo dei Poveri (Palazzo Fuga, Napoli) “anterestauro”; lo è ancor di più abbandonarsi alla psichedelia che procurano sincopatie ritmiche e luci stroboscopiche nella classicità di un teatrino del Settecento; ma difficile immaginare le Nozze di Figaro in un Irish pub, tra una pinta ed una cameriera distratta; ovvio, siamo sempre in attesa che qualcuno ci stupisca.

Weltanschauung Calamaro

Vivere in una grande finzione. Chiamata al servizio del fare. Noi ci assentiamo da noi. Siamo contenti di aver partecipato male e poco, o quasi niente, al mondo. Resistere al fare. Riuscire ad essere anche quando non esisti. Avere nelle mani la vita e non esserne all’altezza. I protagonisti si sono smarriti nella vita, ed ormai ne restano al largo.
Sono solo alcune delle frasi che rimbalzano da una bocca all’altra in questa epopea quotidiana. Parlano un linguaggio spesso e raffinato, ci dicono del loro male di vivere, della loro inadeguatezza, di capacità che non pagano, di competenze che non fanno testo, di visibilità disertate, di posizioni disabitate, di vite isolate.

“La coscienza di Zeno” tra artisti e realitygirl

Al suono di un valzer viennese, annuncio dell’ambientazione (Trieste era, fino al Trattato di Rapallo del 1920, annessa all’Impero austro-ungarico), si apre il sipario sull’interno dello studio del dottor S. Sulla scena dominano il pavimento a scacchiera ed il grande specchio opacizzato dagli anni (in realtà una lastra d’allumino), al cui confronto il resto dell’arredo liberty, diventa piccolissimo; piccolissimi appaiono anche gli uomini in scena: Zeno Cosini ed il dottor S., piccolissime le loro vite, piccolissimi i loro sogni.

Senza Eduardo non è Eduardo, se Eduardo vuole essere!

“Trattano tutti alla stessa maniera, alla stessa stregua, sia il delinquente che il galantuomo! Naturalmente che succede? Arriva un momento che il galantuomo si ribella e quando è avvenuta la ribellione… in galera, e finisce male!”. Si poteva partire da qui, dall’attualità di questa riflessione di don Gennaro (Eduardo) e farne il leitmotiv della messinscena, a prescindere dalla storicità del delitto d’onore.
Si poteva rileggere Uomo e Galantuomo, alla luce delle querelle sulle immunità parlamentari, e l’impunità “reale” dei “creativi” reati finanziari; si poteva mettere in scena la condizione dell’uomo qualunque che quotidianamente soccombe, impotente, dinanzi al peso dell’esistenza, spiazzato dalla caducità dell’essere e dalle necessità che la mera sopravvivenza esige; si poteva rendere Eduardo ancor più Eduardo: non s’è voluto.

Sfiducia al popolo!

L’ingresso a teatro è già spettacolo. Ti accolgono, in sottofondo, voci, registrate, di leader politici e religiosi, presenti e passati. Ci sono Giovanni XXIII e Francesco I (papa), c’è Khomeini, c’è Mandela, ci sono Andreotti, Mao, Kennedy, Bush, Marchionne ed anche, ci sembra, il Gian Maria Volonté de Il caso Moro; ci sembra, perché un pubblico diseducato ad un inizio non canonico dello spettacolo, non consente approfondimenti. Celestini è sul fondo della platea, accanto al tecnico audio e luci, la sua presenza non scoraggia il vociare.

Coro a due voci nel dramma di Ibsen

Scena prima, interno di casa Tesman. Hedda appare di spalle, indossa una lunga camicia da camera azzurra, ha in mano una lampada ad olio, fissa per un attimo la platea, poi venera il grande quadro che domina la scena, in cui è ritratto suo padre, il defunto generale Gabler, si reca al pianoforte, dove accenna un romantico e caldo motivo musicale, infine esce.
Tutto si tiene, tutto lascia presagire uno sviluppo avvincente della messa in scena, fatta di silenzi e luci ad hoc. Così non sarà. Il piano luci resta d’effetto, ma non il resto.

Marchionne libero

Caro Marchionne ti scrivo
Ti scrivo per mostrarti tutta la mia solidarietà. Quello che l’Italia ti sta facendo è inaccettabile. Questo paese è per te ormai claustrofobico.
Ribellati, io sono con te.
Ti appoggio pienamente quando sottolinei l’impossibilità per le multinazionali, come quella che hai creato tu, di produrre e continuare ad espandersi in quest’italietta in cui, antistoricamente, esiste un contratto nazionale dei lavoratori, seppur fortemente evirato, che tanti ostacoli pone allo sfruttamento totale degli operai da te giustamente agognato.

"Là bas – Educazione criminale": retrospettiva con Gaetano Di Vaio

Due 'Afriche', due progetti di vita, due donne da amare, un’unica città, Castel Volturno, trenta chilometri da Napoli. Ecco cosa unisce, e al contempo separa, Yussouf e Germain, nell’opera prima di Guido Lombardi, premiata a Venezia con il Leone del futuro nel 2011. Là-bas – Educazione criminale, questo il titolo, stringe l’obiettivo della macchina da presa sulle comunità africane della cittadina casertana, alla vigilia della strage del 18 settembre 2008. “Le” comunità, perché quelle che vengono mostrate allo spettatore sono due 'Afriche' contrapposte e in lotta tra loro, che si uniranno solo alla fine del film, quando la bandiera dell’Unione Africana coprirà il corpo nudo di Yussouf.

La solitude et la folie

Goran truffa il tempo e la follia in Place du Tertre. È lì da quindici anni. Tutte le mattine parte, con fogli e matite, da Place Saint Augustin; solleva il panama davanti al portale dell’omonima chiesa, e affronta la salita che lo conduce a Montmartre. Testa bassa, passo lungo e veloce, è su in trenta minuti. Non si ferma con nessuno ma, fa tappa in tutti i bar. Due chilometri e mezzo di bar. Butta giù caffè con avidità, li succhia, poi batte la lingua due volte contro il palato alla ricerca di un qualche vago sapore ma, nulla; sa di berli, però, e così, appaga le sue compulsioni. Rolla la sua sigaretta e via, verso la prossima sosta.

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