“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Delio Salottolo

The revolution will not be televised (prima parte)

Questo racconto è stato scritto di getto e poco curato. È venuto fuori indipendentemente, al di là di ogni mia volontà e/o previsione. Stavo ascoltando quello che è uno degli ammassi di parole più significativi della nostra epoca (forse, già non più proprio la nostra), The revolution will not be televised di Gil Scott-Heron, e tutto è venuto fuori come si trattasse di un’esigenza corporale. Qualcosa che riguardava più la mia complessa fisiologia del mio strano sostrato che non quella cosa che chiamiamo spirito, anima, pensiero, mente, etc. Non ha nulla (o diciamo: poco) a che vedere con la canzone, con quel clima culturale, con quella grandezza. Ne ho rubato il titolo perché è bellissimo. Insuperabile. Ma è ben poca cosa a confronto, come è ben poca cosa a confronto la nostra epoca e l’umanità che l’attraversa. La narrazione è un insieme di frammenti di una mente frammentata. Esplosa, dispersa. Una lastra di vetro infrangibile che nel cuore della notte esplode perché chissà come e chissà perché quel giorno il calore della cucina è stato troppo forte. Alcuni frammenti possono tagliare anche le scorze più dure, altri non scalfirebbero neanche un sant’uomo. Ma avvertiamo subito: c’è anche una storia, forse addirittura una trama, insomma è molto meno post-moderno di quanto possa sembrare al primo sguardo.

Con questa breve introduzione ritengo di aver assolto i miei compiti da intellettuale: ho raccontato i debiti letterari, ho introdotto alcuni temi, ho accennato alla genesi. Ovviamente avrei anche potuto eccedere nelle determinazioni lessicali, avrei potuto dire che l’ho “vomitato” fuori con rabbia, che non potevo proprio tenermelo dentro e in un attacco di furore incontrollabile l’ho scritto delirando e tremando, avrei potuto raccontare di me stesso come un personaggio estremo, avrei potuto descrivermi in maniera veramente affascinante, a tal punto da innamorarmi di me. Insomma: avrei potuto atteggiarmi a scrittore vero, come è d’uso, per contentarmi di un’opaca immagine in controluce di robe veramente serie. Non l’ho fatto però, e questo è uno dei miei vanti (me lo si conceda). In verità, questo racconto l’ho scritto e basta. Bello o brutto che sia. Di getto e poco curato.

Che vi piaccia o no, ecco il nostro mondo! L'arte di Angelo Volpe

“Non è forse sempre e comunque decisivo chiedersi che cosa ne è dell’oggi e cosa ne sarà del domani?”

Genesi e struttura di una sedia. Sedia sediola di Di Silvestre

C’è qualcosa nella quotidianità che non riesce proprio a essere “quotidiano” nel senso di una medietà assoluta, c’è qualcosa che rimane sempre in un doppio fondo, in una stramba piega della mente, come il senso di una immersione nella profondità, o di una malinconia della profondità, in poche parole: una piccola e delicata ossessione. Ed allora il nostro rapporto quotidiano con gli oggetti si macchia sempre di qualcosa di “altro” e, del resto, questa è la maledizione nostra propria, nostra nel senso “umana”, quella di vivere in un mondo di oggetti che ci circondano, ci danno una mano, più spesso ci dominano, sempre si posizionano lì muti ad osservarci, contenti del loro dominio assoluto su di noi.

La vita è proprio una brutta bestia (la conclusione)

La sera stessa dei funerali, quando la signora Assunta, con il trucco sbavato dalle lacrime salate e con quella maledetta tachicardia che da anni le faceva rimbalzare il cuore in gola ogni volta che un’emozione troppo forte si abbatteva su di lei, si avviò verso casa in compagnia del marito e di alcuni dei suoi figli, le sembrò d’un tratto di vedere una strana figura, che si sarebbe detto della medesima corporatura di Gennaro o’ scemo (corporatura a dire il vero piuttosto comune) e che lei prese proprio per Gennaro o’ scemo, sgattaiolare dietro una macchina e starsene immobile con la faccia aperta in un sorriso impertinente e, prima di scomparire dal campo visivo, abbassarsi i pantaloni e fare pipì allegramente, forse fischiettando addirittura, e quando poi, in preda a un’agitazione che fece preoccupare molto l’anziano marito, cominciò a gridare e a dire ai figli di andare a controllare e al marito di lasciarle il braccio, sentì alle sue spalle qualcuno che le tirava i capelli, svenne di colpo e così la serata si concluse all’ospedale Pellegrini della Pignasecca con un grosso spavento da parte di tutti e con un corri-corri da parte di una mandria di signore, amiche di Assunta, che non se la sentivano di lasciarla sola e, appresa la notizia, vollero farle compagnia in ospedale, facendo vari turni e cercando di confortare quella povera donna che, distrutta moralmente per quell’omicidio efferato, evidentemente non si era ancora ripresa dallo shock, perché la signora Assunta era buona e brava e tutte le persone del quartiere lo sapevano, e sapevano anche che lei era l’unica che avesse mai voluto bene a quel povero disgraziato e così ora soffriva più di tutti e più di tutti aveva bisogno di conforto, tanto più che Susi l’aveva a stento salutata e probabilmente non si sarebbe fatta più viva, “povera signora Assunta” diceva, come si trattasse di un unico insieme indistinto, la mandria di donne dei Quartieri, “povera sì!” riprendeva la mandria “mo’ come farà a campare?”. In effetti le donne erano molto preoccupate per la situazione finanziaria della signora Assunta perché ovviamente non avrebbe più avuto una lira da Susi, una volta che era venuto meno per così dire il loro rapporto lavorativo. Lo shock per la morte di quel povero disgraziato, lo shock per la fine del suo rapporto lavorativo, quel diavolo disgraziato che si era divertito a ricomparire e terrorizzarla, tutto questo avrebbe colpito a tal punto l’animo fragile della signora Assunta che, a quanto dicono, non si è più ripresa del tutto e così, in preda a febbri e a deliri, avrebbe cominciato a sperare anche lei in una bella pensione d’invalidità.

La vita è proprio una brutta bestia (parte V)

Poi di sera tardi o forse di notte, qualcuno entrò nel suo basso.

La vita è proprio una brutta bestia (parte IV)

L’ultima giornata di vita di Gennaro o’ scemo trascorse più o meno in questo modo.

Concetta dei fiori

Questa non vuole essere una comune recensione. Non però nel senso che vuole essere una recensione fuori del normale, straordinaria o altro, non ce la sentiremmo mai di affermare una cosa del genere, ma che proprio non vuole essere una recensione, anzi la stessa parola “recensione” non ha mica sempre un bel suono e soprattutto spesso e volentieri mal si adatta a narrazioni che vogliono essere ben discrete e sussurrate.

La vita è proprio una brutta bestia (parte III)

Sarebbe difficile raccontare e motivare la passione che Gennaro o’ scemo provava per i piccioni ma sarà sicuramente più semplice mostrare come quella passione fosse un altro dei motivi di attrito con il quartiere. Non c’è animale (e per molte persone è già tanto chiamarli così) che provoca più disgusto, orrore e schifo del piccione, “sti zoccole con le scelle”, gli diceva la signora Assunta, “ma come ti fanno a piacere?”.

Feticismo e verità: note sul nostro tempo. "I piedi in testa" di Mazzeo

Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, meglio conosciuto con la sigla DSM, è una sorta di best-seller nell’ambito della descrizione tassonomica dei disturbi mentali. Medici, psicologi, psichiatri lo considerano spesso una Bibbia, il Testo di riferimento all’interno del quale trovare la serenità della classificazione unita alla dolcezza del dominio razionale. Chiaramente (manco a dirlo) è di origine anglosassone e, a sfogliarlo, probabilmente si avrebbe l’impressione di una gelida fiera secentesca o forse di una tutta nuova e positivistica “corte dei miracoli”.

La vita è proprio una brutta bestia (parte II)

Per quanto riguarda la sigaretta, aveva due o tre posti sicuri a cui rivolgersi, il primo da cui si recava era il signor Peppe, quello dei traslochi, ometto stranamente piccolo per quel mestiere, ma dotato di una forza di cento uomini, che spesso lo attendeva sulla soglia della bottega e così fumavano la sigaretta in compagnia seduti su un vecchio sofà o su chissà quale altro mobiletto, discutendo di questo o di quello o stando volentieri in silenzio, se il signor Peppe però non era di genio (dunque, non aveva voglia di ripetere quel rituale mattutino e scacciava via Gennaro o’ scemo in malo modo, un po’ come quando un cane si avvicina speranzoso e non si vogliono accogliere le sue istanze), il nostro Gennaro o’ scemo, sempre sorridente e per nulla offeso, andava dalla signora Carmela, quella del bar all’angolo, vedova non più giovane ma ancora piacente e dai seni eccessivamente prosperosi, capace ancora di attirare l’attenzione di vari uomini del quartiere che bonariamente la prendevano in giro, e lì, se aveva raccolto i famosi due euro, si concedeva la tanto agognata colazione e la sigaretta che la signora spesso con grande gentilezza gli offriva.

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il Pickwick

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