“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Michele Di Donato

Aspettando un mondo più gentile

Memoria per luoghi e persone, memoria di storie che raccontano un luogo preciso (e precisamente individuabile in Castrovillari), ma che attraverso il particolare si riallacciano all’universale, alle evoluzioni sociali, fisiologicamente più lente nel Sud Italia: in Masculu e fiammina (che nel testo recitato diventa “fimmina”) Saverio La Ruina dà corpo alla figura di un uomo costretto a fare i conti con i pregiudizi dell’Italietta bigotta e conservatrice del secondo Novecento, dando forma di narrazione postuma in prima persona alla vicenda umana e sentimentale che il suo personaggio narra dinanzi alla tomba materna.

Šostakovič, Majakovskij e la Rivoluzione

La storia compie il suo corso lasciandosi dietro protagonisti e testimoni, uomini che sono specchio rifratto del tempo in cui vivono e antenne che ne intercettano vette e abissi. E le rivoluzioni hanno profeti, martiri e appunto testimoni, le cui vite raccontano del tempo vissuto, del mondo  attraversato e ne sono, all’occorrenza, casse armoniche in cui – di quel tempo e di quel mondo – risuonano (anche) contraddizioni e criticità.

Sesso e regresso

All’interno di quello che fu un plesso scolastico, nel quartiere Libertà di Bari, c’è Spazio 13, un hub che prende il nome dal numero delle associazioni che concorrono ad abitarlo e a farlo vivere di attività varie; tra queste, il teatro. Sworkers, della Compagnia Acasă è lo spettacolo itinerante che – come era stato itinerante già il precedente H24_Acasă visto al Palazzo Baronale di Novoli nell’ambito de I Teatri della Cupa – trasporta gli spettatori in un percorso che si snoda attraverso le stanze poste ai piani più bassi dell’edificio, come a voler condurre metaforicamente in un viaggio agli Inferi, per raccontare dell’intrinseco degrado di una condizione, quella della prostituzione, indagandone pieghe sfaccettate e offrendone un punto di vista che ribalta l’angolazione, guardando al fenomeno (e al suo sfruttamento) da una prospettiva che si pone dall’interno e che tenta di offrire una panoramica non solo varia sul piano delle casistiche, ma anche composita dal punto di vista della costruzione scenica.

Attesa, solitudine, eterno ritorno

Un uomo, una vita, i treni che passano. Un uomo che trascorre la vita a guardare i treni che passano con puntuale precisione, giorno dopo giorno, ora dopo ora, appuntando con meticolosità certosina orario e durata del passaggio, vivendo – di fatto – in funzione di quel passaggio. Un ritmo sempre uguale: Blues. Che cos’è il blues? È una forma musicale intima e malinconica che, per ispirazione tradizionale, dà voce a sentimenti personali attraverso la ripetizione di una struttura ritmica. E che cos’è Blues, di Tino Caspanello, se non un’esplorazione intima del sé e dei suoi meccanismi, visti attraverso l’esistenza di un uomo che si snoda sempre uguale lungo giornate identiche, trascorse a veder passare treni, ogni giorno alla stessa ora? C’è – in Blues di Tino Caspanello – in quel suo perdurare ritmico scandito dall’abitudinarietà, un refrain mandato a memoria, che verrà interrotto e scalfito da un ritmo differente, dallo stridio dei freni di un treno inaspettato, da una fermata non prevista che verrà ad interrompere la monotonia ciclica, come “una specie di canzone dal ritmo diverso”.

"Sembrava danzasse"

Ci sono storie che stanno in piedi da sole, piantate come sa star piantato sulle gambe un buon pugile sul ring; ci sono storie che vanno scovate, recuperate alla memoria condivisa e sottratte all’oblio cui talvolta le condannano tempo e casualità.
Ci sono storie – e c’è una storia di cui qui ci accingiamo a dar testimonianza – che per farsi raccontare s’avvalgono del linguaggio del teatro, che ne sibila le parole in fiato d’attore e ne sublima le immagini in gesti di scena, con corredo accessorio, fatto di luci, suoni, filmati: apparato di contorno che s’aggiunge a completare la (ri)costruzione d’una memoria lontana e dispersa, d’una storia piccola e misconosciuta.

Sul “Progetto Amunì”: intervista a Giuseppe Provinzano

“La civiltà è un movimento, non una condizione; un viaggio e non un porto”.
(Arnold J. Toynbee)
 

Palermo è storicamente un crocevia di culture, mediterranea per posizione, multiculturale per vocazione. Palermo (e più in generale la Sicilia) è snodo fluido per osmosi culturali possibili, luogo aperto e porto franco per identità in movimento che si mettono in relazione. Il Progetto Amunì nasce all’insegna di questo spirito, fattivo, progettuale e col dichiarato intento di sottrarre l’idea di migrazione alla stereotipia che l’etichetta come mera emergenza sociale; è un tentativo di conferire al concetto di migrazione un senso più profondo, che ha a che fare con l’essenza dinamica e creativa del viaggio, inteso come percorso stratificato e complesso, capace di generare valore sociale e culturale.
Abbiamo chiesto a Giuseppe Provinzano, che con l’associazione Babel Crew ha strutturato il Progetto Amunì, partito a maggio scorso, di raccontarci cos’è stato finora e cosa potrà ancora essere.

Metti una sera al Globe

Teatro Bellini in veste elisabettiana per accogliere rifacimenti shakespeariani: si va di due in due, alternando commedia e tragedia. M’accomodo sulle panche che hanno preso il posto delle poltrone in una platea che s’affaccia su un grande palco in declivio, che arriva fin quasi a metà dello spazio normalmente destinato agli spettatori. Giulio Cesare e La commedia degli errori, in contigua successione le due messinscene a cui assisto che, nelle riscritture di Fabrizio Sinisi diretta da Andrea De Rosa e di Punta Corsara diventano rispettivamente Giulio Cesare. Uccidere il tiranno e Una commedia di errori.

Seminare legalità, raccogliere teatro

Spesso il Male mette in soggezione e induce al silenzio, a guardare da un’altra parte; spesso il Male, seppure non siamo noi a compierlo, seppure a noi stessi crei disagio, pratico oltreché fisico e morale, lo accettiamo con la rassegnazione che s’accorda all’ineluttabile, abbracciando con pavore il nostro senso di impotenza verso ciò che è più grande di noi e inveendo con rabbia verso chi a noi dovrebbe garantire tutela, ovvero lo Stato.

Nelle pieghe del buio, recuperando se stessi

È un sabato sera di settembre, Mezzocannone è ancora silenziosa, priva del brulichio e del viavai degli studenti fuori sede che animano le sere del Centro Storico di Napoli fino a notte inoltrata; poco più su si concentrano quelle sparute frotte chiassose che anticipano di qualche settimana la movida universitaria; qua e là qualche turista all’avventura. Il tempo appeso di questo pieno settembre aduggia sul basolato una pioggerellina che a stento bagna, lasciando a svaporare appena una scia d’afa nell'ultimo frammento d'estate.

I Teatri della Cupa, un’anomalia possibile

Cupa, un anno dopo: ritorniamo in Salento per il festival diretto da Tonio De Nitto e Raffaella Romano, giunto alla sua terza edizione, questa volta svoltasi tra Novoli e Campi Salentina a cavallo tra la fine di luglio e l’inizio di agosto.
Sono giornate calde – meteorologicamente parlando – in quella parte di tacco estremo dello Stivale che non affaccia direttamente sul mare e che, ad onta di grossolanerie sparate dal Briatore di turno sull’antitesi tutta presunta tra turismo e cultura al Sud, vede la propria offerta culturale crescere e puntare sul gioco al rilancio: in una regione che brancola ancora nell’incertezza e staziona nell’impasse politico-culturale del dopo Vendola – e soprattutto del depauperamento dell’esperienza della rete dei Teatri Abitati – tra tagli strutturali e bandi che rendono torbida la fonte, mescolando improvvidamente i concetti di spettacolo e turismo, I Teatri della Cupa è festival che sceglie l’azzardo, in un’equazione che affianca il rischio artistico al rischio d’impresa, decidendo consapevolmente di giocare d’anticipo e al buio, nell’incertezza di vedersi riconosciuti poi i contributi pubblici anticipati in proprio prima.

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il Pickwick

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