“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Alessandro Toppi

Di quest'amato tormento chiamato teatro

I personaggi di Molière restano personaggi comici. Ma
anche i più clamorosi, torturati dalla nevrosi, dalla
malinconia, dalla gelosia, dalla follia sembrano celare
qualcosa del loro autore: un'intima aria di rovina, di
dissesto, un'ombra densa
(Giovanni Macchia)

A Parigi, nel 1666

Tonino Taiuti, ad esempio

Tutte queste sono bugie, lo vedo bene.
(Samuel Beckett, Novelle)

 Dada è la festa pirotecnica, prima del
silenzio e del buio.
(Antonio Neiwiller, da un'intervista)

 
Il vecchio attore sul palcoscenico riscatta
l'uomo che sta invecchiando nella platea.
(Georges Banu, Memorie del teatro)

 

 

Igor Esposito scrive un testo nel quale il protagonista – unico attore sulla scena di queste pagine – fa memoria di sé e lo fa inventando la propria stessa memoria, montando in sequenza stralci letterari e lacerti di manifesti artistici, attribuendosi frasi pronunciate da qualcun altro, fissandosi in fotografie alla quali non è mai appartenuto, diventando soggetto di film in cui non è mai apparso, convocando persone alle quali non ha mai stretto la mano. Quest'uomo – questo detrito, avanzo di un nulla altrimenti assoluto – non ha infatti né luogo sicuro né data di nascita verificabili (in “certi giorni” è nato a New York, nel 1928; in altri a Parigi, nel 1900, o a Zurigo, “sgravato nella stessa strada del Cabaret Voltaire”); inoltre non ne conosciamo il nome, non sappiamo che infanzia abbia avuto, non ci dice la professione e la condizione sociale dei genitori, a quale scuola sia andato, dove sia cresciuto, quali studi abbia fatto e – per quanto si attribuisca dei quadri, pitture in grado di sconvolgere chi ne vede la composizione al momento – a noi non è dato constatare l'esistenza di una tela, la rimanenza di una macchia, neanche il frammento di una cornice che ne conteneva un dipinto.

Shakespeare, Donnellan e il vuoto

Lui dice che non se ne può più, che adesso basta, che è giunta l'ora di fare pulizia e chiarezza: dice che bisogna smetterla con questi spettacoli che piazzano sul palco “l'Asia da una parte e l'Africa dall'altra” costringendo l'attore “a dire sempre dove si trova: altrimenti non si riesce a seguire la vicenda”.

Recitare, fino alla fine

La mano destra che trema, prima di essere nascosta nella tasca del pantalone; questa fila di perle, che mi decora il collo; il trucco pesante, da portare sul viso un'altra volta. E i muscoli ormai stanchi, quasi sfibrati, e l'incertezza di un passo, il ritardo in un gesto, una frase – non detta chiaramente – tra mille frasi che invece arrivano fino all'ultima fila. E i solchi che partono dal naso e arrivano all'esterno delle guance, le crepe ai lati della bocca, il ventre e il petto ammorbiditi dall'età, la trama violacea delle vene gonfiatasi sul dorso delle mani, le linee che il tempo ha impresso sulla fronte, la bianchezza ramata della pelle, la fragilità delle ossa e queste scarpe, che la secchezza delle mie gambe fa sembrare troppo pesanti: simili a due incudini, come due blocchi di cemento. E la prima battuta: “Quanti credi che siano stasera?”.
Recitare, per l'ennesima replica.

Tre note sul "Macbettu"

Quello che mi ha emozionato.
Quello che devo dire.
E quello che mi resta.
(Tadeusz Kantor)
 


Uno
Non sappiamo con esatta precisione quando Shakespeare abbia scritto il Macbeth (forse nel 1606, visto che viene dato a corte nell'agosto di quell'anno): sappiamo però che il testo fu pubblicato post mortem, nell'in-folio del 1623, senza passi corrotti e con la divisione già stabilita degli atti e delle scene. Possibile che la versione che leggiamo nei libri sia quindi la trascrizione del copione teatrale ormai in uso alle compagnie, possibile che – rispetto all'opera quand'era ancora fresca d'inchiostro – siano stati gli attori ad asciugarne il dettato, rendendolo a misura di palco, adattandolo alla recita da fare questa sera.

Su "La cupa" di Borrelli

Non è vero che la camera della nostra infanzia rimane piena di luce nella nostra memoria. Lo è solo per i manierismi della convenzione letteraria. È una stanza morta, abitata da morti. Cercheremmo di rimetterla in ordine invano: sempre morirà. Ma se pure ci si riesce di estrarne dei frammenti, anche infimi – un piccolo pezzo di divano, la finestra e, aldilà di una strada che svanisce sullo sfondo, un raggio di sole sul pavimento, le scarpe gialle di mio padre e i pianti di mia mamma e la faccia di qualcuno dietro il vetro della finestra – è possibile che allora la nostra vera stanza dell'infanzia cominci a prendere corpo e forse riusciremo anche noi a mettere insieme tutto quello che serve al nostro spettacolo”.
(Tadeus Kantor)

Resistenze femminili

Probabilmente è nel 1590 che Shakespeare inizia a mettere mano a La bisbetica domata.

Cosa stiamo diventando?

Il progressivo svelamento della verità
Orphans, il testo che Dennis Kelly scrive nel 2009, è diviso in quattro atti e comincia con questa didascalia: “L'appartamento di Helen e Danny. Cena a lume di candela, interrotta. Helen vestita elegante. Danny vestito elegante. Liam sta lì, essendo appena entrato. Davanti è tutto sporco di sangue. Pausa. Lo fissano. A lungo”.
L'inizio è dunque un'irruzione, il fuori che penetra dentro fisicamente, l'inaspettato che diventa improvviso: tuo fratello, tuo cognato, approfittando del fatto che ha le chiavi di casa (“per le emergenze”) apre la porta, entra, passa il corridoio, giunge in salotto e ti si para davanti mentre stai cominciando a mangiare (riso basmati, un po' di limone, pepe macinato, un filo d'olio buono e salmone): addosso ha una maglietta intrisa di sangue. Qualcosa è avvenuto, dunque, ma che cosa?

L'esilio politico dell'uomo flessibile

Stiamo all'inferno con una dignità inimmaginabile. 
(Mariano Dammacco; L'inferno e la fanciulla)



Nel quarto episodio de Lo splendore dei supplizi, il penultimo spettacolo di Fibre Parallele, due operai sequestrano un dirigente aziendale e – poiché il dirigente è vegano – lo sottopongono alla tortura di ingoiare carni e derivati animali: le sottilette, il latte, le uova e la mortadella, la maionese, il prosciutto, i petti di pollo (“due pacchi: li ho trovati in offerta”).

La notte più buia. Su "Misura per misura"

Vienna sembra un girone dell'Inferno dantesco: masse di uomini rozzi, abbruttiti, che paiono gobbi e deformi occupano lo spazio, intenti all'esercizio della punizione quotidiana. Corpi giacciono in un angolo, in attesa di essere squartati; un condannato – trafitto al collo da una freccia che gli passa la cassa toracica fuoriuscendo da un fianco – è portato in mostra come si porta in mostra un maiale appena cotto alla brace; una donna è sul punto di essere penetrata. Qualcuno s'insozza il mento, lavandosi la faccia col vino di cui si sta rimpinzando la pancia; una fanciulla dai capelli castani – nudo il seno, coperte le cosce da un drappo rosso – viene cavalcata; giace abbandonato un cadavere. La galera segrega, la macina gira: esseri trattati come bestie diventano quarti di carne appesa, animali da soma, buchi in vendita per il piacere del coito. Fa caldo a Vienna, nonostante sia notte. Liquami e fetori rendono l'aria irrespirabile mentre le strade – in bilico un ponte, che pare prossimo al crollo – formano una piana arida, screpolata. Qualche lampo, in penombra: è la lama del coltello che serve il furto, l'omicidio, lo stupro, il ricatto, la violenza. Ci vorrebbe la pioggia, per alleviare l'epidermide della città dal tormento, ma la pioggia non viene.

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il Pickwick

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