“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Cinema

Cinema La sala delle immagini

«Nel buio un fascio di pulviscolo bianco si diresse al telo dinnanzi: si generarono immagini. Apparvero donne e uomini in strade mai viste e guglie, ciminiere, ponti, campanili tra case. Apparvero mondi, apparvero storie».

Se le immagini rappresentano l’essenza di tutto il cinema, vi sono però film che palesano più di altri una riflessione sul loro statuto teorico e Blow-up (1966) di Michelangelo Antonioni è sicuramente tra questi.

Il 1959 è un anno d’oro per l’Albertone nazionale, non solo per l’incredibile numero di film girati − ben dieci (il record, comunque, spetta al 1954, con addirittura dodici film) − ma anche per la qualità delle pellicole: basti pensare che almeno tre di esse entreranno nella storia del cinema italiano. Sto parlando de La grande guerra di Mario Monicelli, de I magliari di Francesco Rosi e de Il vedovo di Dino Risi.

Considerato tra uno dei padri del cinema italiano, insieme a Roberto Rossellini e Vittorio De Sica, Luchino Visconti è stato tra i più innovativi dei registi italiani. Appartenente a una famiglia aristocratica milanese, legata all’ambiente teatrale, il giovane Luchino, di natura irrequieta lascia l’Italia e va a studiare a Parigi. Qui avverrà un incontro che segnerà la sua vita, ovvero quello con il regista Jean Renoir del quale Visconti diventerà assistente fino al rientro in Italia.

Saturday, 28 March 2020 00:00

“Fantasmi a Roma”, Spettri birichini…

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Ricchi di cambiamenti furono i primi Anni ’60, dove gli assi della commedia all’italiana, singolarmente o in coppia (in sparuti casi anche in trio), sfoderarono diverse prove da applausi come nel caso di Fantasmi a Roma (1961) di Antonio Pietrangeli, un lungometraggio poco considerato dalla critica ma sicuramente tra i migliori della nostra cinematografia.

Ci sono film a cui si resta legati ben al di là del loro intrinseco valore artistico. Ci sono film che animano il nostro immaginario – perché magari si legano a un’epoca, all’infanzia, al ricordo delle persone insieme alle quali li abbiamo visti, alla giornata particolare in cui ce ne è capitata la visione, allo stato d’animo che ce l’ha ispirata, o magari semplicemente appartengono a un filone che abbiamo particolarmente amato – e per questo ne conserviamo una memoria che ne travalica in parte l’estetica (anche se, in fondo, non riusciamo proprio a smettere di farceli piacere e a sancirne una valutazione razionalmente equanime).

Vitaliano Brancati (Pachino, 24 luglio 1907 − 25 settembre 1954) ebbe un ruolo particolare nel cinema italiano: fu uno scrittore tra i più notevoli della seconda metà del Novecento. Rilevante fu la sintonia che egli instaurò con il regista Luigi Zampa: il loro rapporto di collaborazione, iniziato nei primi anni del dopoguerra, si fondava su un pari atteggiamento verso alcuni aspetti che caratterizzavano la società dell’epoca.

“Simile, ma tutt’altro che identico a Monicelli e Comencini, Dino Risi è l’autore più interessato a cogliere e registrare a caldo, con uno sguardo disincantato, i fenomeni che hanno trasformato il paesaggio antropico, urbanistico e geografico dell’Italia e degli italiani”. Questa brevissima descrizione che il noto critico e studioso Gian Piero Brunetta, nel suo delizioso volume dedicato al cinema italiano (Guida alla storia del cinema italiano, Einaudi, 2003), fa di Risi credo costituisca l’optimum per aiutarci a comprendere l’importanza di questo regista, sempre concentrato su ritratti spregiudicati, spesso di antieroi, ma sempre al centro di contesti e situazioni di carattere universale.

Gli addetti ai lavori del cinema italiano del dopoguerra, come registi e sceneggiatori, si differenziano dal genere che ha contraddistinto gli anni del regime fascista perché non intendono rappresentare una società ideale bensì proporre un’immagine del tempo: la cinematografia si fa specchio della società e cassa di risonanza dei problemi relativi al periodo precedente che si affacciano in modo drammaticamente nuovo.

Dopo circa sette anni dalla scioglimento della compagnia del Teatro Umoristico “I De Filippo”, avvenuta il 10 dicembre del 1944, Titina, Eduardo e Peppino De Filippo tornano a lavorare insieme davanti alla cinepresa. Eduardo e Peppino, i cui rapporti si sono interrotti ormai da anni, si incontrano a cena nella casa romana di Titina: qui, alla presenza di Domenico Forges-Davanzati, il produttore esecutivo del film, discutono della possibilità di ricomporre il trio familiare-artistico sulle scene, per girare un film dal titolo Ragazze da marito (con Eduardo alla regia). In questa sede viene siglato una specie di armistizio; pare addirittura che, in tale circostanza, sui loro dissapori i fratelli siano arrivati persino a ironizzare.

Nel 1981, anno che fa da spartiacque tra la commedia all’italiana (che si conclude con il meraviglioso lungometraggio di Ettore Scola, La terrazza) e il cosiddetto “cinema dei nuovi comici” (attori-autori), comincia l’inaspettata e clamorosa ascesa di Massimo Troisi, giovanissimo artista partenopeo proveniente dal teatro e dalla televisione, al debutto nella regia cinematografica con Ricomincio da tre, trionfo commerciale ben ratificato anche dalla critica.

Una pellicola destinata a lasciare un segno nella storia del cinema italiano è Pane, amore e fantasia di Luigi Comencini, del 1953. Al successo del film contribuì non poco l’interpretazione di Vittorio De Sica, strepitoso nei panni del “maresciallo maggiore Carotenuto Antonio”. La figura di De Sica nei panni del maresciallo dei carabinieri è entrata nell’immaginario popolare, tanto che ormai da anni sui calendari celebrativi dell’Arma dei Carabinieri si staglia imperiosa l’immagine di De Sica in divisa da maresciallo.

Il trionfo della disillusione: non esiste forse più calzante definizione per La terrazza di Ettore Scola, che in questa pellicola effettua una disamina spietata di un mondo di cui fa parte lui in primis. Il tutto avviene in uno spazio delimitato apparentemente condiviso che in realtà è privato. Un convivio tra pochi intimi, ovvero un lusso che può concedersi solo la classe dominante, inconsapevole dei propri privilegi e del proprio ruolo sociale.

Sunday, 02 February 2020 00:00

Fellini, Pasolini, le tette e il culo

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Quella che segue è una divagazione nata dalla lettura di un articolo o, per meglio dire, di un testo di una conferenza trascritta e pubblicata alla vigilia del centenario della nascita di Federico Fellini. Il pezzo ha aperto le danze di pubblicazioni e celebrazioni di questo ricco anno felliniano, è firmato Goffredo Fofi, è qui ed è molto bello. Parla della figura del matto e del marginale nel cinema del riminese e lo fa con grande competenza, vasta cultura cinematografica e conoscenza diretta di alcuni dei protagonisti del ’900 italiano. Fra l’altro suggerisce una spiegazione diversa dalla vulgata sulla rottura tra Fellini e Flaiano, forse causata non dall’invidia fra due artisti che, a parità di talento, godevano di un diverso grado di successo, bensì da certe reazioni inappropriate del regista dinanzi alla figlia minorata dello scrittore e sceneggiatore dei suoi film più belli.

Nel 1959 Mauro Bolognini gira un film che tratta un tema, molto delicato; il titolo è Arrangiatevi. La vicenda narra la storia di un uomo, Peppino Armentano, interpretato da Peppino De Filippo, che pur di mantener fede alla promessa fatta alla moglie, cioè di trovare una nuova dimora prima dell’anniversario dei venticinque anni di nozze, prende in affitto una ex casa di tolleranza.

Saturday, 25 January 2020 00:00

“Oh, Serafina!”: un insolito Pozzetto

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Negli anni Settanta, come nel decennio precedente, la cinematografia d’autore è molto attenta a descrivere i momenti più difficili della storia italiana. Molto vasta la produzione a cominciare da Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, dalla strage di Piazza Fontana con l’avvio della “strategia della tensione” fino a Il giocattolo (1979) di Giuliano Montaldo, massima espressione della sfiducia nella giustizia, del cittadino che si ribella e si autoproclama giudice facendosi giustizia da sé. Un tema non poco sentito dai registi di quegli anni è l’ambientalismo.

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