“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 30 December 2012 10:12

Già sempre Altra la nostra relazione con il mondo

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Che nella nostra contemporaneità la riflessione sul rapporto tra natura e cultura sia diventato sempre più parossistico giocato di volta in volta sulla necessità di pensare una naturalità dell’uomo, libera da ogni impasto culturale o che si giochi al suo interno come dimensione di continuità, o sulla possibilità di pensare una culturalità dell’uomo che si ponga come frattura nell’esistente per cui la natura diviene il “paradiso perduto” idealizzato della nostra infanzia già sempre non più nostra, tutto questo è fin troppo chiaro, lo si percepisce nell’ambito di ogni riflessione, dalla più teoretica alla più intimamente politica e/o rivoluzionaria. Che poi si provi con ironia a discutere questo tema con l’immane potenza della rappresentazione concreta, questa la cifra stilistica di Jimmie Durham e di questa bella esposizione che va sotto il nome di Wood, stones, friends.

Si entra dunque in una grossa sala, la Sala Dorica di Palazzo Reale, ricavata all’interno del cortile delle carrozze, caratterizzata (appunto!) da un asciutto colonnato dorico, bianco e asettico, ma capace, proprio per questo, di creare una perfetta dinamica di straniamento, e ci si trova immediatamente trasposti in un mondo che è esattamente il nostro mondo, ridotto però alle sue forme archetipiche, alle sue forme simboliche e senza necessità di rappresentazione e/o racconto; l’esposizione, con assoluta e raffinata ironia, discute proprio il posto dell’uomo nel mondo, i tentativi disperati e un po’ comici di sentire sulla pelle e nelle orecchie il buon vecchio richiamo della natura, la possibilità di articolare la nostra sempre buona e sana attitudine tecnica (che Dio faccia da testimone a questo dominio!) sulla densità naturale del mondo, infine la parodia di un colloquio tra le forme più “cotte” della nostra cultura con quelle più “crude” della natura già sempre Altra (ci perdoni Lévi-Strauss per l’utilizzazione semplicistica di quelle sue due categorie straordinarie).

E allora ci siamo immersi per alcuni minuti in questi simboli della nostra impossibilità di verità di pensiero e azione e abbiamo notato che il gusto della critica profonda e intelligente è giocato intorno a un nucleo di elementi e, se vogliamo, di “opere”, le quali non vogliono avere la particolarità di essere (appunto) “opere” nel senso classico del termine, ma soltanto frammenti di un discorso antropologico fallimentare, per cui più che analizzare il singolo frammento conviene discutere di alcuni particolari e di alcune dinamiche: in primo luogo la dimensione del “dialogo” fallimentare e paradossale, e così si possono vedere da un lato inserzioni di legno (con il suo profumo invecchiato e che colpisce un senso più fondamentale di quanto si possa credere: l’olfatto) su vecchi macchinari artigianali, arrugginiti ed emananti un senso di “vecchiume” umano ben distinguibile, e dall’altro tentativi, già sempre falliti, di continuità logico-ontologica tra natura e cultura come nel caso dell’installazione che presenta un macchinario il cui completamento si ha in un pezzo di legno ritorto; in secondo luogo la dimensione “totemica” che (e chi lo ammetterebbe più?) gioca sull’arcaismo sempre auto-ammodernizzantesi della nostra cultura e lavora come un feticcio ironico e così con sapienza tanto antica quanto sempre post-moderna si possono vedere miscugli di materiali (la pietra, il legno “naturale” con i suoi nodi, le sue cavità, la sua concretezza, il legno “artificiale”, ben levigato in assi dritte dritte e pronte all’uso, gli strumenti artigianali in metallo ben arrugginito) a formare veri e propri totem della nostra adorazione insipiente; infine la dimensione “ironica” ben rappresentata da installazioni che presentano (ad esempio) un tavolinetto di marmo e ottone, il quale può ricordare l’arredamento delle più eleganti corti regali, con al di sopra sezioni di tronco posizionate in maniera tale da mostrarsi come “opera” e “rappresentazione” e che “opera” e “rappresentazione” non possono essere mai.

Così, in questa sala ben allestita o, per meglio dire, ben adatta a contenere queste opere, ci sono anche due enormi sezioni di tronco e cumuli aggrovigliati di radici, senza ricerca di dimensione di dialogo e senza volontà di ricordo totemico, lì gettate quasi per caso a emanare la loro atavica presenza disarticolata, gesto serio e incomprensibile, umano, un tentativo di dire: ecco la natura, ve la sbatto davanti agli occhi, ve la espongo in una mostra, ve la faccio diventare “opera”, chiedendo infine: “ed allora?”

Ed allora noi ci incamminiamo nel pomeriggio terso e a tratti gelido, pomeriggio di passeggiate, di incontri con vecchi amici, di conversazioni a tratti appassionate, di tè presi su tavolini di legno da bar e di chiacchiere su blocchi di pietra. Di manipolazione di oggetti quanto più tecnologici. Così, insomma, un altro giorno qualunque (e inconsapevole) nel mondo qualunque (e inconsapevole) che è propriamente il mondo umano e la nostra vita qualunque (e inconsapevole).

 

Wood, stone and friends

di Jimmie Durham

Sala Dorica, Palazzo Reale di Napoli

Napoli, dal 16 dicembre 2012 al 27 febbraio 2013

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