“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 07 September 2013 02:00

Le sinestesie di Macondo

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Il romanzo in questione è Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez che, quindici anni dopo la sua pubblicazione, valse all’autore il Premio Nobel per la Letteratura.
Si tratta di una saga familiare: vengono seguite le vicende di sette generazioni della famiglia Buendía, stanziata nella favolistica città di Macondo, fondata dal primo José Arcadio Buendía, capostipite della famiglia.
L’opera viene comunemente fatta rientrare nel filone del realismo magico, la cui caratteristica peculiare è di presentare elementi magici in un contesto altrimenti realistico, tanto che essi vengono sì riconosciuti come tali, ma possono essere soltanto intuiti, mai spiegati.

Tutto ciò permette anche di giocare con il tempo della storia e della narrazione: si hanno spesso delle distorsioni, delle inversioni causa-effetto, e – in generale − una diffusa ciclicità che ha come conseguenza l’assenza della temporalità stessa. I personaggi vivono un continuo presente senza particolari punti di riferimento, è come se si agitassero senza mai spostarsi o evolversi; nel lettore questa sensazione è acutizzata dall’uso degli stessi pochi nomi combinati in maniera differente che però vanno ad identificare un numero esorbitante di personaggi.
Questi ultimi vivono dunque “cento anni di solitudine”, scanditi solo dal ricorrere, cadenzato, di grandi eventi catastrofici inseriti nella narrazione come agganci alla storia della Colombia, spesso atti a denunciarne le brutture e i soprusi. Ne sono un esempio le diverse guerre condotte dal colonnello Aureliano Buendía, che fanno riferimento alla Guerra dei Mille Giorni (1899-1902), l’egemonia della United Fruit Company, che nel libro è la società bananiera che, disboscando immensi territori per la coltivazione, finisce per alterare il clima della zona, provocando un’alluvione lunga quattro anni.
E ancora ci sono riferimenti all’introduzione del cinema, dell’automobile, alle polemiche contro il colonialismo e al massacro dei lavoratori in sciopero da parte dell’esercito regolare. Questi elementi sono senz’altro utili per comprendere in che modo determinate vicende storiche vengano vissute da chi le ha sperimentate in prima persona. Il fatto che siano state inserite in un romanzo dimostra anche un’attenzione, da parte dell’autore, verso la propria terra, continuamente flagellata da lotte intestine. Probabilmente la creazione letteraria di Macondo, città inizialmente utopica poi gradualmente distrutta da minacce esterne, è alla base del tentativo di ricordare la Colombia, la sua bellezza, il suo essere perla incontaminata, prima dell’avvento delle brutture della civilizzazione.
Non ci stupiamo dunque che Márquez abbia vinto il premio Nobel.
Se gli eventi storici vengono presentati per allusioni, per rimandi quasi sempre nascosti, o in ogni caso non comprensibili dai profani, la descrizione dell’ambientazione è portata avanti in maniera dettagliata. Se ne sottolineano gli elementi peculiari e affascinanti, e anche questo può essere considerato un atto d’amore verso la propria terra, nonché l’ennesima espressione di quel filone letterario del realismo magico, di cui sopra.
Ed è qui che entra in gioco il modus scribendi dell’autore. Di fatto, credo che il pregio del romanzo stia anche, e soprattutto, nello stile. Sono stata subito colpita dalla sintassi, dalla scelta mirata dei termini, dalla costruzione del periodo.
Per chi s’intenda un po’ di linguistica, qualche critico ha voluto rintracciare, nel romanzo, un’adesione allo strutturalismo di Ferdinand de Saussure (1857-1913), che si occupa dei valori e delle funzioni determinati dalle relazioni reciproche tra i singoli elementi linguistici, considerati secondo una prospettiva sincronica, cioè analizzando la lingua in un dato momento storico, astraendo dalla sua evoluzione nel tempo. Ogni elemento linguistico è studiato come parte di un ordinamento strutturale e di un insieme di fenomeni in continua interdipendenza e interazione. L’autore sembra continuamente creare e disfare il periodo, il quale sembra dilatarsi e restringersi come un corpo pulsante: la sua forza espressiva non sta solo nell’accostamento di termini scelti e pregni di significato, ma anche nella cadenza musicale che va ad assumere. Inoltre le parole non hanno solo un suono, ma anche un proprio ritmo, dato dalla successione di tutti quei tratti prosodici che le caratterizzano.
Si potrebbe azzardare una similitudine con la musica: il termine è il singolo strumento all’interno di un’orchestra, e la sua insita musicalità concorre alla realizzazione di un complesso armonico più ampio, il periodo. Basti pensare alle righe d’apertura, da leggere lentamente e a voce alta: "Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche".
È indubbio che poi quelle stesse parole vadano a ricreare la musica presente nelle scene descritte. Sembra – nelle prime pagine − di sentir vociare gli zingari, di avvertire il tintinnare dei loro ornamenti e delle loro esotiche diavolerie. La stessa cosa avviene per quei termini che vanno ad individuare il campo semantico del gusto: il modo in cui la parola viene articolata sembra suggerire il sapore che l’oggetto avrà, se un sapore tenue, oppure forte al punto di assaporarne la sapidità sulla lingua.
Quello che si evoca è il sapore dei cibi latinoamericani, come pure la corposità della loro colorazione: ecco che anche il senso della vista trova il suo spazio. I colori sono vivaci e caldi, sensuali, sembrano esalare l’umidità schiacciante di una giornata tropicale, o l’odore delle gocce di pioggia, del sudore, della polvere, dei fiori e dei frutti tropicali. Le descrizioni rendono la dinamicità di un mondo più o meno fantastico che sembra avvolgere il lettore, fin quasi a sommergerlo.
Dove non arrivano i sensi, supplisce poi l’immaginazione del lettore, costantemente guidata dalla penna dell’autore, il quale non fa che giocare con le parole, è come se ne riscoprisse il significato più profondo e completo, e-in questo modo- desse una rappresentazione del mondo più precisa e dettagliata.
Sembra quasi riferirsi alla sua opera di riclassificazione quando scrive: "Il mondo era così recente che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito".
Márquez, in definitiva, non fa altro che indicare “cose” comuni e riclassificarle dotandole di un significato più completo ed esatto.
Resta da capire quanto abbia influito sull’opera la traduzione, in questo caso quella italiana. Edoardo Sanguineti sosteneva che “tradurre significa tradire”: nel momento della traduzione avviene una riscrittura che, inevitabilmente, modifica l’originale. C’è quindi da sottolineare che anche al traduttore spetta un compito importante, e cioè cercare non solo quel termine che meglio possa rendere il senso che si suppone volesse attribuirgli l’autore, ma anche trovare il sinonimo che meglio conferisce alla parola quella ricchezza di significato sopra citata.
Diciamo che il traduttore ha il compito di continuare l’opera dell’autore, di mantenersi sulla stessa linea d’onda, in modo che il suo lavoro non sia una perdita, bensì un’acquisizione.

 

 

 

 

Gabriel Garcia Marquez
Cent'anni di solitudine
traduzione a cura di Enrico Cicogna
Milano, Mondadori, 1988
pp. 406

 

 

 

 

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