“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 15 December 2012 23:09

Sodoma e camorra

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Cuori neri, rischiarati a scacchi da luce che penetra intermittente all’interno di una chiesa sconsacrata; cuori neri, avvolti dal buio d’un destino ineluttabile, fatto di morte e rimozione; cuori neri, nel cui fondo, più nero del nero, alberga sentimento d’impotenza, frustrazione, negazione del proprio essere, irreggimentato nei codici del sistema criminale. E il sistema criminale non consente l’esercizio delle libertà individuali, dell’autodeterminazione, non consente nemmeno il crogiolo d’un sole all’aperto inalando il salmastro del mare, ma solo il confino coatto in quello che fu un luogo di culto: cupe e tragiche, due figure, Pietro e Tommaso, riparano in una chiesa sconsacrata dopo ogni loro malefatta, una chiesa sconsacrata da cui “pur’ ‘e santi so’ fujuti”; testimonio a reliquia di questa fuga un angelo decapitato in cima all’altare.

Chiesa sconsacrata che è ricetto di “muschilli” di camorra in fuga, ma anche alcova privilegiata d’una puttana, “‘a Rossa”, compagna di strada dei due gaglioffi. Tutti riuniti sotto il denominatore comune di un desiderio malcelato di fuga, verso una vita diversa da quella che vivono e che solo in apparenza li appaga ed invece costretti tra quattro mura decrepite a consumare giorni reietti. La coscienza del proprio essere riaffiora a tratti sotto forma di sogno, di incubo, di spettri, ora narrato (gli incubi di Tommaso), ora esplicitamente mostrato (i tormenti della Rossa prendono corpo in scena nell’ombra di tre ombre che la trascinano via).
In una terra senza legge e senza padroni (o con troppi padroni), nessuno è davvero padrone nemmeno del proprio cuore, non può farne quel che crede, non può consacrarlo alla persona che ama, vieppiù quando ad essere amata è persona dello stesso sesso; e così subentra il rifiuto della realtà, della propria natura, in nome di una ragione superiore, che impone i suoi codici armi in pugno, col ricatto color canna di pistola d’una morte sottesa, che aleggia nera e incessante su vite bruciate.
Cuore nero è drammaturgia che non fa sconti e concessioni, il nero del nero non sfuma mai verso tinte più tenui d’una espressione che non sia pregna e virulenta; l’icasticità di immagini evocate a parole quando non addirittura alluse dai corpi, nulla edulcora e tutto si sforza d’esprimere, ricreando le condizioni espressive e comportamentali del milieu malavitoso, e nel farlo non si perita di sconfinare nello sproloquio laido, “disturbante” (ma assolutamente appropriato e realistico).

Rispetto a quello che potrebbe essere un’inchiesta verità su un quartiere difficile, su una realtà corrotta e periferica, Fortunato Calvino arricchisce le grinte arcigne dei suoi personaggi di un risvolto psicologico che non si è per solito mai troppo propensi ad attribuire a vite che s’immolano sull’altare del delinquere; ma sono psicologie che di fatto esistono, pur rimanendo per lo più sottotraccia. Fattore maieutico che contribuisce in maniera determinante a far sì che si sprigionino, che queste esistenze vengano rischiarate da un fascio di luce, sia pur penetrante solo in tralice dalle finestre d’un rudere sconsacrato, è l’elemento dell’omosessualità, esecrato dal codice malavitoso, e che invece restituisce due anime nere – che non per questo cessano di essere tali, beninteso – all’ipotesi di una prospettiva differente.
Pietro e Tommaso ci appaiono in tutto e per tutto figli del loro ambiente, creature intinte nella guazza criminosa e senza pietà del malaffare; recano impresse nelle membra le stimmate della loro appartenenza camorristica, espettorano con la virulenza d’uno sputo tutta la volgarità del loro essere… Eppure, in fondo al cuore, in fondo a quei loro cuori neri e lordi di sangue, abita l’inconciliabilità d’un segreto, quasi rimosso ed oblato per scampare a sicura sentenza di morte che li colpirebbe se risaputo. Non possono svelare la reale natura del loro reciproco sentire nemmeno davanti alla prostituta che promette indulgente riserbo per quel loro amoroso segreto. Di più: non possono svelarlo del tutto nemmeno a se stessi: Pietro e Tommaso danzano un minuetto schizofrenico, sospesi tra il desiderio reciproco e l’impossibilità di viverlo appieno sottraendosi al loro destino; i loro corpi si cercano, arrivano a sfiorarsi, a toccarsi intimamente, tra un insulto ed uno strattone esplodono moti di tenerezza repressa. Il balletto altalenante delle contraddizioni va in scena desultorio, connotandosi a tratti di tinte melò, forse un tantino sovraccaricandosi di accenti melò. Però, nel complesso, Cuore nero è pièce che salda si regge su una scrittura conchiusa e sull’ottima prova degli attori in scena, modulandosi sulla dualità intrinseca dell’animo umano, validamente incarnata da tutti i personaggi, le cui vite in chiaroscuro (più scuro che chiaro), assumono in scena evidenza ad un tempo patetica e truce.
Cuori neri cercano amore che li rischiari, amore che sbocci come le rose che mano di donna poggia in ultimo in un angolo d’altare. Che sboccino o appassiscano poco vale; quel che conta è che anche nel fondo d’anime perse può fiorire un legame in forma d'amore. Desiderando l'altrove.

 

Lengua of cca'
Cuore nero
scritto e diretto da Fortunato Calvino
con Ivano Schiavi, Pietro Juliano, Laura Borrelli, Angelo Borruto
musiche originali Paolo Coletta
scene Pasquale Galluccio
costumi Annamaria Morelli
durata 1h 10'
Napoli, Sala Assoli, 13 dicembre 2012
in scena dal 13 dicembre al 16 dicembre 2012

 

 

 

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