“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 31 July 2013 02:00

Che filosofare è imparare a morire o diario filosofico 2

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A Miriam

 

 

Chiamo filosofia il discorso dell’universale. Il nome, in effetti, non importa. Non importa nemmeno il modo: l’essenza è lo scopo.
Ecco qui. Ecco che comincio a imporre, a tracciare linee e confini. De-finisco: con quattro icastiche sentenze ho già imbottigliato l’imprevedibile, il contraddittorio, l’opaco vortice della vita nel quale tutti noi ci agitiamo in cerca di un buon appiglio.

Lo sentite, il rumore di bufera? Li vedete  i corpi che, agitandosi, volano nel grigio? Laggiù, qualcuno estrae una corda dalla giacca. Altri lo imitano: ne hanno tante, chi più chi meno. Le distinguete, le corde, mentre si dispiegano nel vento? Qualche fortunato riesce a governarle: aggrappato ad esse, le getta come un’ancora verso una roccia vicina. Tutti, nessuno escluso, sono legati ad altri da quelle stesse cime, cosicché col tempo tutta la cordata dell’umanità, tutta la solidal catena, trova requie su quelle rupi scure. Trova, in verità, lo stesso riposo di un uomo che deciderebbe di campeggiare in mezzo ad un tornado.
L’uomo nasce così, nella mia feroce immaginazione. L’uomo nasce attorniato da quelle corde, in esse installato e di esse sorgente. L’uomo, certo, per come lo intendo io. Non si scappa: ancora una volta, occorre che io definisca. Con le armi del mio linguaggio ho già forse mosso troppa violenza ai diritti della vita, a quella oscurità informe ed infinita, eccedente rispetto a qualsiasi tentativo sistematico. Oltre al danno anche la beffa: con il nostro aratro linguistico, a forza di tracciar confini, abbiamo disegnato un cerchio. Inutile dibattersi: l’esigenza del linguaggio è alla base del linguaggio stesso, cosicché, a forza di parlare, non giungeremo mai al suo fondamento.
Il rapporto di fondazione è un rapporto esterno: ciò che fonda è alla base del fondato, non è parte di esso. Come a dire che, di quelle corde – su cui, l’avrete capito, è ricamata la parola λόγος, logos, ragione, linguaggio – possiamo fare di tutto, meno che raggiungere colui che le ha cucite e, in un tempo misterioso, ce le ha consegnate. Semplicemente, disponiamo di quelle corde fin da quando abbiamo coscienza, come facciamo col nostro corpo. Il corpo, appunto: non ci tragga in inganno la traduzione unilaterale di logos, come se stessimo parlando di un’ipotetica ragione pura, sovracorporale, matematica e discorsiva. In quella complessa parola dobbiamo comprendere tutto l’insieme di quell’apertura che è l'uomo, l’insieme di tutta l’esperienza fisiologica, discorsiva, mistica e chi più ne ha più ne metta: logos è l’uomo stesso nel suo avere un mondo, nel suo dover avere a che fare con oggetti, contesti, collegamenti, prospettive.
A questo punto un certo tedesco, amante dei trattini, sarebbe intervenuto: il suo spirito un po’ conservatore avrebbe sottolineato come λόγος si lega anche a λέγω (legō), raccolgo, raduno, computo.  Ho bisogno, in altre parole, di raccogliere, di ap-prendere per dire, perché, a meno che io non sia un politicante in campagna elettorale, se dico, dico sempre qualcosa. Il dire, a questo punto, non è separabile dall’apertura, dall’esperienza, ma ad essa immanente. È infatti nel linguaggio, nello strutturare significati (non solo verbali) che l’uomo rende presente a se stesso e all’altro da sé quest’esperienza di coesione e di esclusione delineante l’apertura prospettica al mondo. Ci stiamo, insomma, avvicinando ad una descrizione dell’atto di gettare la corda-logos.
Ogni apertura è dunque una prospettiva, una limitata apprensione di un’opacità infinitamente più grande. Serrati alla rupe del nostro avventuroso campeggio, lì vivremo, limitati nello spazio illimitato della vita immediata, dell’irraggiungibile oscurità dell’esistenza prelinguistica, della ζωή (zoé). Eppure, la bufera non cessa: la zoé, costitutivamente dinamica, è la vita nel suo dispiegarsi, la consunzione inesorabile delle cose, di quelle stesse cose che tornano come nomi nel nostro dire. Di fronte a questo caotico spettacolo, il nostro pomposo logos, più che un’arma, diventa un mezzo di sopravvivenza: nel parlare di violenza alle cose, forse, abbiamo peccato d’arroganza e di parzialità. Se il logos non catturerà mai la zoè, infatti, allo stesso modo osserviamo che l’ansia di cattura non è l’unico carattere del discorso. Nel far presenti gli oggetti, nel parlare di questo libro o di quel pallone, ecco che li porto a nuova vita: li riempio di legami, di passato, di futuro, di speranze, di ricordi. Li porto al concetto, li riempio di spirito, di attività psichica.
E se ho osato dire che l’uomo non è altro che la sua apertura, non altro che il suo logos in senso ampio, scelgo di rovinarmi definitivamente arrivando a dire che la filosofia è una parte costitutiva, necessaria di questa apertura. L’uomo ha bisogno della filosofia come del mangiare e del bere, perché la filosofia non è altro che l’estremizzazione coerente del principio coagulante del logos. Discorso, in prima istanza, è collegamento, costruzione di un mondo: esso è esclusivo e prospettico solo in seconda battuta, semplicemente perché ad essere finiti nel tempo, nello spazio e nei processi fisiologici siamo innanzitutto noi parlanti. Filosofia non è altro che il tentativo di superare questi limiti, non collegando fino ad una certa misura, ma tendendo all’infinito estensivo ed intensivo. E sì, si tratta di un tentativo vano, come risulta da quanto detto finora. Vano, certo, ma anche valido e dotato di senso.
Paradossale, dite? Sì, se consideriamo la filosofia uno strumento sovrimposto alla vita per giungere a ciò a cui non ci è concesso giungere. No, se ribadiamo come in effetti il logos non si sovrapponga mai alla zoé, ma sia un suo elemento costitutivo. Intendiamoci: certo, non ogni vita è già sempre discorso. Basta pensare alle amebe. Chi ha mai visto un’ameba discettare di massimi sistemi? Ma, del resto, chi ha mai visto un’ameba discettare in toto? Chi ha mai visto un’ameba esprimere semanticamente la fame o l’impulso riproduttivo, elementi cardine della zoé? La coscienza di un vivente è sì proporzionata alla sua complessità fisiologica, al dispiegarsi più ampio della zoé, ma la cosa vale anche al contrario. Maggiore complessità fisiologica richiede maggiore coscienza del proprio essere al mondo. L’animale più evoluto dovrà muovere verso una preda, cercare un riparo, allevare la prole: tutte operazioni che appartengono alla zoé, e tuttavia mai veramente slegate dal logos. La stessa posizione del problema della zoé richiede che essa divenga concetto, installandosi in un linguaggio complesso. Si tratta, del resto, di un linguaggio che non conosce divisioni manichee rispetto allo sviluppo graduale di capacità linguistiche all’interno del mondo animale.
Questo discorso si intitola Che filosofare è imparare a morire, come il ventesimo capitolo del primo libro dei Saggi di Montaigne. Eppure, devo riconoscerlo, finora non ho sfiorato la morte. Il fatto è che vita e morte, è inevitabile, si toccano e si abbracciano come quei discordi di Eraclito, dai quali soltanto discende la bellissima armonia. Zoé è mutamento, consunzione: la vita è degenerazione, ossidazione. L’occidente e l’oriente sono concordi nel riconoscere questa identità, donando ad essa un valore simile – almeno negli sviluppi precristiani della nostra filosofia. Questa identità, questo sbilanciamento che vede la morte lentamente scavalcare la vita, è propedeutica alla liberazione definitiva, al rompersi delle forme prospettiche che tengono insieme la vita.
È il ritornare della goccia nel mare cosmico, con la dissoluzione di quella forma (la sua forma) che la individuava, la separava da essa.
La filosofia, insomma, come esercizio al collegamento universale, acquisisce il suo senso proprio nell’essere distacco dalla limitatezza vitale, tentativo di una visione oggettiva, che non è altro che il tentativo di vedere il mondo senza di noi, il mondo che continua al di là della dissoluzione della nostra forma. Il discorso dell’universale stressa i nostri limiti costitutivi, accompagnandoci per approssimazione allo stato in cui questi limiti non sono più. Ed è per la presenza stessa della morte, per il suo condizionare pervasivamente la nostra esistenza, che tutti noi abbiamo bisogno di discorrere dell’universale. Non ha importanza che questo discorso segua i modelli della filosofia occidentale, della religione, dello zen o dell’edonismo puro: si tratta di filosofia in senso ampio, di quella filosofia necessaria che ci rende animali metafisici, o animali coerenti nel portare all’infinito la nostra tendenza a costruire un mondo.
Qualche mese fa ho compreso un concetto che, sotterraneamente, ha guidato tutta questa geremiade. Il fatto è che alla morte non ci si abitua mai. Non si può mai veramente imparare a morire, ma solo approssimarsi a quello stato di lucidità che non disprezza la vita – pur chiedendole sempre di essere dotata di senso. Si tratta di una lucidità non serena: è attività nervosa, sforzo immane, gioco di Sisifo da cui pure dipende tutto il significato che riusciamo a dare alla nostra esistenza. Pensavo di essere pronto. Pensavo di essere un filosofo, uno specialista della morte, perché avevo letto il Fedone. Non ero pronto. Ci è voluto l'improvviso venir meno di una persona a me vicina, di una persona quotidiana, di un centro di volontà, sogni, speranze che io davo per scontato all'interno della mia zoé, per farmi capire che pronto non lo ero affatto. Il dolore continuerà fino alla fine dei miei respiri, come la gioia e l'amore che, credo, ci salverà tutti.

 

L’opposto concorde, e dai discordi bellissima armonia”.

(Eraclito, frammento 98 DK)

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