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Friday, 02 April 2021 00:00

InFLOencer: la festa dei figli senza padre

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In occasione della recente festa del papà mi è venuta un’idea formidabile. Voglio istituire la festa dei figli senza padre. Eh si, perché qua si celebrano i nonni, gli innamorati, addirittura i compleanni. Che per inciso, sono la festa più insensata. Cosa c’è da festeggiare nel vedere l’insegna “Game Over” avvicinarsi inesorabilmente? Ma non divaghiamo e non ci facciamo mortiferi più di quanto già non siamo. Chiusi in quattro mura, a sgrattugiare la mollica residua dall’incarto della colomba.
Dicevo che si festeggia finanche l’onomastico del gatto e a noi, che ci siamo fatti il culo più di tutti, nessuno ci pensa. Deve essere perché non siamo rappresentati.
Del resto un orfano è proprio questo: uno che si deve rappresentare da solo, uno senza garante. Il figlio di un passato remoto: di un “fu” qualcuno, morto e sepolto. Così, in attesa di trovare un autorevole rappresentante della categoria, che racconti nel dettaglio cosa vuol dire essere figli senza padre, faccio un sunto.
Beninteso, la mia esperienza si riduce a quella di figlia primogenita di tre, nata in un quartiere della periferia di Napoli, da una famiglia folk del ceto medio, ma è ovvio che le varianti sono molteplici.
Ad ogni modo, che tu sia ricco, povero, maschio, femmina, intelligente o chiò chiò, certe contingenze sono trasversali.
Tanto per cominciare, nessuno sugli spalti fa il tifo per te a prescindere. Intendo dire che un padre tifa per il figlio sempre, anche se in campo è una schifezza. Un tifoso, un estraneo o il padre di qualcun altro, tifa per te solo se sei eccezionale.
Ergo, se vuoi che qualcuno ti noti non sarà sufficiente essere nato. Devi eccellere, brillare, vincere. Così, già a sei anni inizia lo stress!
Impara subito a guidare; a cambiare una gomma bucata; a valutare da solo; non ti lagnare e non piangere. Tutto questo va nell’unico gruppone intitolato “perché mamma è sola e si preoccupa”.
Proprio così persi l’abitudine a lamentarmi e pure un po’ la compassione. Perché quando il dolore lo tieni tutto dentro, ci prendi così tanta confidenza che credi di essere la sola a conoscerlo davvero. Cosa vuoi che ne sappia questo branco di babbasoni rammolliti chiamato umanità? Ci ho messo una vita a capire che ognuno ha la sua croce. E quanta fatica per accettare infine che nessuno ha la patente del dolore: ogni croce, anche la più piccola, per chi la porta sempre una croce è.
Per non parlare del risvolto assurdo della faccenda: se dici a un uomo, che sta al milionesimo anno fuori corso, di darsi una mossa, lui non ti dirà “si, hai ragione sono un coglione”, ma che in lui stai cercando il padre che non hai avuto.
Quella del “padre che non hai avuto” è il reggaeton della tua vita: ossessivo, senza senso e che ognuno interpreta a modo suo. C’è stato un momento in cui se chiedevo i punti al benzinaio o la busta al cassiere, mi rispondevano che ciò che volevo non erano i punti o la busta, ma il padre che non ho avuto. Poi, come se non bastasse, abbiamo sempre gli occhi addosso dei parenti, che ci giudicano qualunque cosa facciamo e sono sempre i primi a sapere quando “tuo padre si sta rivoltando nella tomba”.
Siamo quelli senza scudo, che imparano ad attaccare per non essere attaccati.
Quelli con una marcia in meno, che perciò devono correre, anche quando gli altri camminano, se non vogliono restare indietro. Tuttavia siamo noi i fortunati, perché sappiamo fare senza, stare senza, essere senza e in quel “senza” può mettere radici la voglia di esistere, di essere decisivi per qualcuno o in qualcosa. Così è successo a me. E così spero possa succedere a tutti quelli che stanno combattendo la battaglia col “senza”. Perché si può essere vincenti anche senza vincere per forza. Si può credere di risorgere anche senza essere cristiani. E nel “senza” di ognuno di noi c’è la forza per farlo. Buona Pasqua.

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