“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 11 March 2021 00:00

La trilogia panica di Fernando Arrabal

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Quando Fernando Arrabal realizza il suo primo film Viva la muerte (1971) è già una delle personalità più note del panorama artistico europeo: fondatore nel 1962 con Alejandro Jodorowsky e Roland Topor del Movimento Panico (nome che compare per la prima volta nella sua opera Cinque racconti panici) e autore di pièces surreali e crudelissime, Arrabal è il drammaturgo più eccentrico della nuova avanguardia teatrale.

L’esordio al cinema avviene, in modo indiretto, con la trasposizione su pellicola di due suoi lavori: Il paese incantato (1968) di Jodorowsky e Il gran cerimoniale (1968) di Pierre-Alain Jolivet, oscuro e singolare cineasta francese. Quando Viva la muerte uscì nelle sale il film venne salutato come un capolavoro da Andrè Pieyre de Mandiargues (che scrisse che “è senza dubbio un’opera d’arte. Una delle più strabilianti mai viste in vita mia”), ebbe il plauso incondizionato di Luis Buñuel (quasi che il film di Arrabal fosse una versione surreale di Los Olvidados) e ottenne un’entusiastica recensione di Alberto Moravia dal titolo Se Edipo impugna la bandiera rossa. In patria venne invece censurato per i suoi contenuti blasfemi (dopo che, quattro anni prima, il regista era stato addirittura arrestato per vilipendio allo stato e alla religione).
Il dodicenne Fando, cresciuto nel culto per il padre scomparso in una Spagna appena riconquistata dalle falangi franchiste, vive in un’atmosfera magica, dove i sogni della prima età si mescolano al ricordo di esperienze reali, sovrastate dalla figura di una madre dominatrice, di una zia irrequieta e di avi smarriti nel loro silenzio. Poco a poco Fando ricostruisce la terribile verità: suo padre non è morto come vogliono fargli credere ma è stato arrestato dai franchisti su denuncia della moglie e ha tentato il suicidio in prigione. Colpito dalla tubercolosi, Fando viene ricoverato in ospedale. Una mattina, la sua coetanea e amica Teresa, lo carica su di un carretto e lo porta sui monti dove si trovano i partigiani.
Pervaso da un fortissimo elemento autobiografico nella rievocazione dell’infanzia dello scrittore a Melilla (reinventata a Tunisi, dove è stato girato il film) Viva la muerte è “tratto con una certa programmatica infedeltà dal romanzo Baal Baylone, scritto dallo stesso Arrabal nel 1959” che interroga il doloroso accaduto della perdita del padre in seguito alla delazione della madre (che si paventa nel film possa nutrire sentimenti incestuosi per il figlio) per un atto d’accusa, accorato e senza compromessi, del totalitarismo fascista. La denuncia del regime e la trasfigurazione ossessiva del proprio destino personale appaiono con sconvolgente verità nella provocazione surreale dei titoli di testa disegnati da Roland Topor: come i supplizi di Bosch, il regista passa in rassegna un catalogo di figure massacrate, crocifisse, mutilate o divorate, epifanie iconiche della poetica dello stesso Arrabal, accompagnate dalle note stonate e inquietanti (nel loro candore) di un’acidula filastrocca danese che, attraverso l’orrore perturbante del montaggio, forniscono il senso della provocazione antiautoritaria e anarchica del loro autore e annunciano, nel loro sfinimento inventariale, gli incubi necrofili e scatologici del dodicenne Fando, tra defecazioni, vomiti e mattanze di animali, al punto che le sue visioni mostruose si intessono e si ragguagliano sempre intorno al corpo: esibito con violenza o violentemente sclerotizzato, risemantizzato attraverso il dispositivo cinematografico come luogo simbolico della colpa, che si autoflagella per effetto di un radicato delirio cattolico (cfr. la figura della zia che coniuga ossessioni religiose e ninfomania).
Il simbolismo di Arrabal è meno oscuro e caleidoscopico di quello di Jodorowsky ma lo sguardo del cineasta è ugualmente eversivo e dionisiaco, pansessuale e cristologico (cfr. la scena della flagellazione della madre nuda davanti al crocifisso), traumatico e catartico. L’elemento onirico e perturbante di Arrabal − sul vettore psichico di un complesso edipico irresoluto − giunge al suo punto di non ritorno nelle sequenze finali girate in videotape (con un intenso lavoro su filtri ottici e colori recati a un unico livello di narrazione), distorte, sovraesposte e manipolate cromaticamente come momento di ricerca espressiva dell’avanguardia (col mezzo rudimentale del nastro magnetico agli esordi del suo utilizzo nel cinema).
Viva la muerte è un’opera di barocchismo lirico e di immaginazione rutilante che in certi momenti è malservita da non adeguate capacità tecniche che poco pregiudicano, in ogni modo, lo straordinario esito finale. Nel 1971 il film apparve come una ricapitolazione di quei turbamenti psichici e di quelle suggestioni culturali che hanno anticipato il processo di contaminazione cinematografica fra storia (piano reale) e immaginario (piano inconscio): il sonno della ragione accoglie incubi carnali tessuti intorno a un’orgia di onirismo caustico ed erosivo. Il tentativo sperimentale di Arrabal, piuttosto che nella violenza surreale, si realizza nella coesistenza dei due piani che senza soluzione di continuità progrediscono in visioni tanto realistiche quanto deliranti, con l’orrore del corpo che spietatamente e per oscure metafore muove al fascismo come luogo psichico dell’orrore sociale.


Il film successivo, Andrò come un cavallo pazzo (1973), è un’opera che per alcuni segna il passo involutivo di Arrabal – perchè più ripiegata su se stessa e irrisolta nella sua elaborazione narrativa – e che invece acquista forza proprio dalle aporie drammatiche e dalle sue concentrazioni oppositive.
Il giovane Aden Rey, sofferente di epilessia, uccide la madre, che ritiene colpevole del suo male (ne fu colpito quando, ancora bambino, la scoprì in compagnia dell’amante). Per sfuggire alla polizia, che gli sta dando la caccia, si rifugia in un deserto, dove incontra un eremita, Marvell, che vive in perfetta armonia con la natura. Aden ne è affascinato, ne accetta l’amicizia ma non sa resistere al richiamo del mondo che si è lasciato alle spalle. Convince il santone a seguirlo, lo conduce a Parigi, insieme vivono una breve e avventurosa esperienza ma Rey è sempre perseguitato dai ricordi della sua infanzia, mentre Marvell rimpiange la sua serena vita di primitivo nel deserto, finché Aden non cade sotto il piombo della polizia. L’amico ne riporta il corpo nel deserto, per mangiarselo, in un supremo atto di comunione.
Il film, una metafora insondabile sul degrado della civiltà, prosegue in qualche maniera il discorso di Viva la muerte: il piccolo Fando è divenuto Aden che, dopo aver ucciso la madre e averle rubato tutto, scappa verso il deserto lacerato dai sensi di colpa. Il rapporto con la madre è traumatico e ci viene mostrato retrospettivamente attraverso i ricordi: in piedi con una corona di spine sulla testa, in punizione a seguito delle sue crisi epilettiche, intento alla masturbazione mentre spia di nascosto gli amplessi della madre con uomini mostruosi.
Fra tutti gli assassinii, il matricidio è uno dei più abietti e dolorosi, compiuto come un gesto arcaico fra mito e ritualità. Nel deserto, luogo di ascesi e di perdizione, Aden incontra un nano, uno sciamano misterioso che in qualche modo rappresenta la sua nemesi, il suo io rovesciato. Il nano Marvell (il tunisino Hachemi Marzouk, che non si sa che fine abbia fatto dopo il film) è il fulcro simbolico del racconto di Arrabal sul deperimento della società dei consumi nella reiterazione insignificante di rituali, di ossessioni e di fobie del suo grottesco nulla. Marvell è un filosofo primitivo la cui natura rinuncia a ogni concetto di relazione e di morale, un androgino dello spirito che ricapitola il principio duale del mondo nel suo Io cosmico (un apeiron messianico): egli è insomma il paradigma della percezione allo stato puro e della dialettica sensibile tra l’Io e il mondo. Laddove Marvell è sovrumano, Aden ne è il principio umano, con tutti i suoi limiti e le sue interrogazioni. Il nano seguirà il giovane amico in città e sarà per lui la sua coscienza critica, il suo contrappasso irriconciliante, il suo profeta gnostico, fino a che − “tra la ricerca di una sessualità distorta, canti gregoriani, masochismo, cannibalismo, degustazione di feci, polluzioni, insetti, amputazioni e travestimenti” e persino l’esecuzione di un bambino completamente nudo − Aden chiederà a Marvell di essere mangiato per ottenere la purificazione dalle sue colpe e un ultimo atto di inconvertibile comunione. Compiuto il rito antropofago Marvell avrà raggiunto l’ascesi, sicché lo spirito di Aden potrà fecondarsi nel corpo del nano pluralizzando il proprio Io.
La storia, ancora intrisa di un autobiografismo folle, muove dall’impossibilità che il tempo possa esorcizzare la memoria; Arrabal, che utilizza la metafora della crudeltà per affabulare il disordine della nevrosi moderna al limite tra rivolta e rassegnazione, fa suoi molti riferimenti alla letteratura e alla filosofia: Alfred Jarry, Nietzsche, il cristianesimo primitivo, la dottrina gnostica, l’alchimia, l’esoterismo, il tabù dell’incesto, il comunismo, la famiglia e la religione: tutto partecipa al furore iconoclasta del Teatro Panico e dell’alienazione dell’Io. Secondo alcuni Arrabal “rimane vittima del suo delirio”: l’allegoria del tardo capitalismo e il potlach limacciosamente intellettuale che la sostiene hanno in qualche modo fatto il loro tempo, ma il processo di individuazione del giovane matricida è autentico e realmente inquietante, come pure l’estremismo disgustoso e stomachevole (scatologico) degli atti compiuti o immaginati in funzione psichicamente traumatizzante e narrativamente progressiva;  inoltre, la creazione di autentici tableaux vivants anticipa le forme di contaminazione fra cinema e teatro contemporaneo della performing art. Spogliata degli elementi politici del film precedente, l’opera seconda del regista spagnolo si attesta all’evocazione di quel processo di dolorosa anamnesi che conduce alla sublimazione dell’Io attraverso un’esperienza di totale spoliazione di sé: in definitiva, la liberazione attraverso la poesia.


Il terzo film della trilogia panica è L’albero di Guernica (1975). Girato, su suggerimento di Pier Paolo Pasolini, nell’atmosfera visionaria degli antichi quartieri di tufo dei Sassi di Matera, è l’opera più narrativamente equilibrata di Arrabal, che, ancora una volta, ritorna alla storia del suo Paese.
Mentre a Villa Ramiro, una cittadina spagnola antico feudo dei conti di Cerraibo, il popolo sta festeggiando il carnevale e la fine della fame e dell’oppressione un gruppo di generali si ribella al potere repubblicano e scatena la guerra civile. Una giovane contadina, Vandal, e Goya figlio del conte di Cerraibo, incontratisi casualmente a Guernica, rinunciano al loro proposito di raggiungere la Francia per schierarsi con le forze repubblicane. Prendendo spunto da una sanguinosissima pagina di storia, Arrabal coniuga la vicenda corale di un intero paese assediato dalle truppe di Franco con quella di un pittore anarchico e surrealista che ha rinunciato ai privilegi della sua classe di appartenenza (la borghesia reazionaria) schierandosi, insieme a una giovane contadina, in favore della lotta repubblicana.
Arrabal limita di molto le sue metafore e i suoi simbolismi astratti – con l’eccezione di alcune sequenze, come per la corrida surreale in cui il toro è sostituito da un nano legato a una carriola o per la durissima iconoclastia del crocifisso fatto a pezzi o dello sperma sulle labbra della statua della Vergine Maria – e muove a un resoconto storico meno vorticosamente delirante che, con toni grotteschi, indaga sulla paranoia del regime: avviene, ad esempio, nella sequenza in cui Onesimo in divisa da falangista si scambia il copricapo con un prete mentre quest’ultimo gli lecca la faccia; avviene nel processo-farsa al maestro elementare, condannato a morte per omicidio anche dopo che la presunta vittima si è presentata in tribunale. Se il sottotesto filosofico del film precedente è qui sostituito con la storia concreta della rivolta spagnola, l’opera è spenta da una regia didascalica e impacciata che per dismisura  non serve le sue stesse ragioni narrative; di più: il montaggio dilettantesco riesce stucchevole e aggrava le defezioni tecniche di scrittura, anche a causa di una sceneggiatura discontinua e inutilmente verbosa. Tuttavia ogni limite è sconfitto dall’immaginario goyesco di Arrabal che scuote le fondamenta della percezione sensibile con le sue visioni mostruose che eccedono la storia come in un rito sadico offrendo uno dei migliori ritratti della guerra civile spagnola.





Viva la muerte
regia Fernando Arrabal
soggetto Fernando Arrabal
sceneggiatura Fernando Arrabal, Claudine Lagrive
con Anouk Ferjac, Núria Espert, Mahdi Chaouch, Ivan Henriques, Jazia Klibi, Suzanne Comte, Jean-Louis Chassigneux, Mohamed Bellasoued, Victor García
fotografia Jean-Marc Ripert
montaggio Laurence Leibinger
musiche Jean Yves Bosseur
produzione Isabelle Films, SATPEC
distribuzione Alliance Releasing Corporation
paese Francia, Tunisia
lingua originale francese
colore a colori
anno 1971
durata 90 min.


Andrò come un cavallo pazzo
regia Fernando Arrabal
con Emmanuelle Riva, George Shannon, Hachemi Marzouk, Marco Perrin, François Chatelet, Marie-France, Gerard Borlant, Jean Chalon, Raoul Curet, Pierre Gernot, Luc Guérin, Yves le Moustre, Antoine Marin, Pedro Meca, Gilles Meyer, Myriam Mézières, Michel Norman, Jacques Olivier, Camilo Otero, Michel Sosiewicz, Bernard Largemain, Louis Baudier, Arlette Thomas, Claude Villaret, Christian Zeymert
fotografia Georges Barsky, Allain Thiollet
montaggio Dominique Saint Cyr, Marie Laurence Olive, Laurence Leniger
musiche Philippe Senechall
produzione Babylone Films Société Générale de Production
paese Francia
lingua originale francese, danese, tedesco
colore bianco e nero e a colori
anno 1973
durata 95 min.


L’albero di Guernica
regia
Fernando Arrabal
sceneggiatura Fernando Arrabal, Francesco Cinieri
con Cosimo Cinieri, Mariangela Melato, Mario Novelli, Franco Ressel, Cyrille Spiga, Ron Farber, Rocco Fontana, Benito Urago
fotografia Ramón F. Suárez, Luciano Tonti
montaggio Renzo Lucidi
produzione Luso France, C.V.C. Communication
paese Italia, Francia
lingua originale francese
colore a colori
anno 1975
durata 100 min.

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