“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 31 August 2020 00:00

Uno sguardo umano con gli occhi di Omero

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Nel recente film di Luca Papini, Con gli occhi di Omero (2019), frutto di una autoproduzione italo-francese e proiettato per la prima volta in Italia al caffè letterario Le Cicale Operose di Livorno lo scorso 7 agosto, la dimensione del racconto si fonde col viaggio. Il racconto si trasforma in viaggio e quest’ultimo, potentemente animato dal mito, dal mythos che, etimologicamente, significa proprio “racconto”, “storia”, avvolge l’intera narrazione.

Il film, dedicato principalmente alla figura di Ifigenia, rappresenta il primo capitolo di una trilogia (gli altri saranno dedicati a Cassandra e a Medea) che ripercorre diversi episodi dell’Iliade ma non solo. Sono diversi gli autori antichi e moderni chiamati in causa e dei quali ascoltiamo le parole (insieme a altri monologhi, dialoghi e commenti poetici realizzati dall’autore) mentre scorrono le suggestive immagini che carezzano il nostro sguardo durante tutto il percorso del film: da Esiodo a Virgilio, da Giorgio Caproni a Marguerite Yourcenar. L’idea di fondo dell’opera è quella di recuperare l’antica dimensione orale del canto omerico. I poemi omerici, infatti, prima di essere trascritti, sono stati recitati a lungo oralmente da aedi e rapsodi: questi cantori si esibivano nelle corti aristocratiche ma anche davanti a un pubblico più vasto, nelle strade e nelle piazze, di solito in occasione delle numerose feste religiose o sportive che si celebravano nei diversi luoghi del mondo greco. La narrazione orale, non possedendo mai una forma granitica e definitiva, rimanda a un’idea magmatica del racconto, un movimento narrativo che si trasforma in un viaggio e in uno spostamento continuo. O, meglio, in una erranza continua. Come accennato, il film di Papini riesce meravigliosamente a trasporre sullo schermo questa erranza continua del canto omerico e del canto mitico in generale (anche i miti non sono mai cristallizzati in forme definitive ma soggetti a continui mutamenti e trasformazioni): in una dimensione narrativa di stampo onirico, i momenti del mito si intersecano con lo psicodramma di quattro donne nella Parigi contemporanea. È per mezzo di questa mescolanza continua fra antico e contemporaneo che l’oralità omerica riesce a riemergere in una nuova forma poetica e onirica.
Il film è costruito infatti come una lunga narrazione poetica dalla forte impronta teatrale, svolta da svariati personaggi, mentre le immagini di ambienti e paesaggi, caratterizzate da una maggiore impostazione cinematografica, rimandano ad un vero e proprio ‘cinema di poesia’. Il viaggio è presente fin dalle prime parole o, meglio, dai primi versi che aprono il film (tratti dalla poesia Un niente di Caproni) recitati da Ornella Bonventre del TAC Teatro di Parigi, mentre in sottofondo vediamo scorrere immagini e strade di Parigi attraversate da un incessante movimento di persone a piedi: “Eccoli, gli amici, arrivano a lentissimi passi...”. La parola poetica cadenza l’inizio del viaggio e l’ambientazione si sposta da Parigi a Livorno (il film è stato girato tra la capitale francese, la Corsica, le isole toscane e Livorno, città di origine dell’autore). La macchina da presa indugia sulle mura della Fortezza Vecchia della città labronica, mentre essa stessa, trovandosi su una barca, appare inserita nel movimento fluttuante delle onde. È quindi il mare ad essere adesso protagonista, immagine e metafora del viaggio per eccellenza, basti solo pensare all’omerica Odissea. Come in un nostos,un mitico ritorno, lo sguardo poetico dell’autore rientra dal mare nella sua Livorno. Il mare e la sua gente vengono immortalati dallo sguardo viaggiante e ‘odissiaco’ del regista: un pescatore rientra in porto e incontra altre imbarcazioni di simili, di amici, di fratelli. Sulle sponde dell’antico fortilizio labronico lambite dal mare compare poi la figura di Omero, interpretata da Aldo Galeazzi. Alla spazialità del mare e dei pressoché infiniti movimenti fluttuanti delle onde si contrappone adesso lo spazio chiuso, silenzioso e buio della fortezza e la figura di Omero, all’interno di esso, eleva le sue parole (in un monologo scritto dal regista) che suonano quasi come un monito di umanità ai contemporanei: “Essi non sanno che, ostaggio della mia memoria, sono le loro di memorie”. Nello spazio oscuro del fortilizio affacciato sul mare, Omero si muove come un silenzioso e meditativo gigante imprigionato nel buio: da lì, probabilmente, può meglio lanciare il suo sguardo su una scontata e ferita contemporaneità. Le parole del personaggio sono intercalate dai sinuosi movimenti di una ballerina che sembra interpretarle per mezzo dei movimenti del proprio corpo. Subito dopo, infatti, ascoltiamo recitato nel testo originale l’incipit dell’Iliade mentre il suono delle parole greche, prolungato e reso quasi materico, si trasforma nei movimenti del corpo e in corpo stesso.
Le immagini e le parole di Con gli occhi di Omero intendono lanciare uno sguardo umano sulla contemporaneità: il mito, il racconto epico divengono allora degli espedienti formali per rileggere il nostro mondo. Nella Parigi contemporanea, una giovane donna (Ornella Bonventre) racconta alla propria figlia la storia di Laomedonte, mitico re di Troia, e delle sue menzogne mentre insegna alla bambina a impastare il pane, ricordando il momento in cui sua madre le raccontava le antiche storie del mito. In questo modo, quest’ultimo viene inserito in una realtà più quotidiana e umana: l’incedere del racconto viene quasi assimilato al procedere della panificazione e l’arte della narrazione orale è significativamente riportata alla sua dimensione artigianale originaria (Omero, nell’Odissea, riconduce infatti l’aedo alla categoria degli artigiani ponendolo sullo stesso piano dell’indovino, del medico, del carpentiere). L’arte di intrecciare versi, di cucirli insieme (la parola “rapsodo” significa proprio “cucitore di canto”) diviene quasi l’arte di creare il pane. Quest’ultimo, come la poesia, è il frutto più profondo dell’arte umana, di movimenti del corpo e delle mani che hanno radici antichissime.
Nel corso del film, nella Parigi contemporanea, lo sguardo di Omero assume una maggiore dimensione di umanità anche per mezzo della voce dei bambini, i quali srotolano racconti mitici per mezzo delle loro voci che, a metà fra la naturalezza espressiva e l’impostazione teatrale, caricano di senso nuovo le antiche narrazioni. Gli interni parigini sono attraversati dalla stretta sinergia fra corpo e parola: il corpo della modella che posa nuda per la statua creata giorno dopo giorno con la stessa manualità che avevamo visto poco prima nella scena della panificazione, i corpi delle danzatrici e delle attrici che si uniscono in abbracci sensuali e profondamente, ancora una volta, umani. I corpi che danzano e si uniscono in abbracci sono come i protagonisti di una “cerimonia sacra” per costruire un “luogo sacro sul mare” (“costruire un atto di liberazione è come costruire un tempio”) in una vera e propria invocazione a una sacralità perduta nel mondo contemporaneo che ci può far pensare ai momenti in cui Medea, nell’omonimo film di Pasolini (1970), si dispera perché Giasone e gli argonauti hanno montato le tende senza svolgere i rituali di fondazione. Il sacro è inestricabilmente legato alla terra, in una dimensione ctonia (“tutto comincia dal suolo” viene sussurrato durante la ieratica danza) e la danza e i suoi movimenti ne ripercorrono le antiche cadenze. I corpi appaiono anche come volti monologanti e, come già notato, spesso sono i bambini i protagonisti di monologhi in cui interpretano personaggi del mito e recitano parole e poesie (come, ad esempio, il bambino che interpreta Calcante e che recita la poesia Sirene di Ungaretti).
La dimensione orale del racconto (e la sua inestricabile connessione col corpo e la corporalità) emerge prepotentemente anche nel momento in cui vengono narrate le vicende di Achille e Ettore, del loro scontro e della supplica di Priamo all’eroe greco per poter riavere il corpo martoriato del figlio. Se, da un punto di vista iconografico, di fronte alla tomba di Achille vediamo danzare un guerriero africano rivestito di un costume tradizionale (in un interscambio fra Grecia antica e Africa che ancora può ricordare Pasolini con la sua messa in scena teatrale dell’Orestiade, da Eschilo, ma anche gli Appunti per un’Orestiade africana), da un punto di vista narrativo è il canto orale ancora ad essere protagonista, nel racconto messo in scena da Giovanni Balzaretti. L’attore dapprima narra − quasi come se fosse un antico aedo che si rivolge con tonalità affabili e accattivanti al proprio pubblico o un narratore popolare in una veglia davanti al fuoco − la storia della contesa del cadavere di Ettore e della iniziale mancanza di pietas di Achille. Successivamente, indossata una maschera che rimanda alla Commedia dell’arte e che, in modo suggestivo, ricopre il suo volto per metà, assume l’identità di Priamo supplice di fronte ad Achille. Il tono assume allora una maggiore impostazione teatrale e lo sguardo dell’attore si vela di una lancinante richiesta di umanità perduta.
Il viaggio, la ricerca dell’umanità, lo sguardo umano attraverso gli occhi di Omero continuano e sembrano continuare all’infinito. Le immagini finali ci riportano all’ambientazione livornese dove ritroviamo Omero (Aldo Galeazzi) intento a narrare la storia di Latona e della sua erranza attraverso le isole greche fino ad approdare a Delo. Ancora, il mare torna ad essere protagonista, il mare e la sua immagine di movimento, di erranza, di vagabondaggio incessante. La macchina da presa inquadra la scia lasciata da una nave, una scia che sembra allungarsi all’infinito in uno spostamento continuo in avanti. La memoria, come quella scia, è ciò che ci rende umani nel viaggio, un bagaglio irrinunciabile che fa parte di una tradizione a sua volta irrinunciabile. Come ha scritto Adorno, nessuna tradizione è da resuscitare forzatamente ma quando ogni tradizione è spenta “la marcia verso la disumanità è iniziata”. Con gli occhi di Omero, che rappresenta anche una originale ricezione del mondo classico, per mezzo dei corpi e delle loro voci, del canto che si fa narrazione, della narrazione orale che si incarna in tanti corpi ‘quotidiani’, contro quella disumanità dispiega uno sguardo profondamente umano sul mondo contemporaneo.





Con gli occhi di Omero
sceneggiatura, regia, fotografia Luca Papini
con Ornella Bonventre, Giovanni Balzaretti, Aldo Galeazzi
paese Italia, Francia
lingua originale italiano, francese
colore bianco e nero
anno 2019
durata 52 min.

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