“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 15 December 2019 00:00

Varuna

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Claudia è due persone diverse, ha i capelli castano chiaro, con qualche venatura di biondo tra una ciocca e l’altra, gli occhi verdi che s’iscuriscono poco a poco verso la pupilla, dove hanno il colore del miele, le labbra sottili fuori e dure ma dentro piene e piene di curve, la pelle bruciata, ma liscia come il vetro levigato dall’acqua. Se la guardi di giorno è calda e sicura, un fusto di legno ancora fresco, con la corteccia chiara, che se la tiri via si stacca in filamenti lunghi e pieni d’odore e lascia aperte ferite che si saneranno presto. Ma se la guardi di notte è buia e profonda, come il carbone che rimane quando le fiamme si sono spente, e devi grattare via un bel po’ di corteccia bruciata per trovarci sotto il profumo della linfa. Ora è notte e la luna calante le schiarisce il volto solo un poco, quel poco che basta comunque per farla stare esattamente nel mezzo tra la legna e il carbone, tra l’immagine di lei che mi rassicura e quella che mi spaventa.

Camminiamo uno accanto all’altra, io sulla sabbia bagnata, lei a riva con l’acqua che le arriva alle caviglie, io guardo dritto davanti a noi e ogni tanto le rivolgo uno sguardo di sfuggita, per controllare se sta ancora lì con me, per capire dove sono i suoi occhi. E sono al cielo, che è lontano dalle luci del paese e fiorisce di stelle, alla cima verde della montagna, che cade in acqua a strapiombo, aperta da una frana antica, che sembra sulla sua pelle d’erba una cicatrice che ha smesso di sanguinare da tempo ma non si è ancora chiusa del tutto. Claudia guarda ovunque ma mai a caso, guidata da non so quale istinto che chiama i suoi occhi in luoghi che non riesco a conoscere, camminiamo da mezz’ora senza aprire bocca, siamo quasi arrivati alle radici della montagna e io in tutto questo tempo posso dire di aver visto tre, quattro cose al massimo, lei quante? Si volta verso la spiaggia, ecco, ne ha vista un’altra e io inseguo il suo sguardo cercando di starle dietro. Lei esce dall’acqua, si muove sulla sabbia asciutta a piccoli saltelli, che in genere nei granelli ci si affonda ed è difficile venirne fuori, ma lei è come se li sfiorasse, troppo veloce per farli scostare sotto il suo peso. Si ferma in un punto appena più su della riva, si volta verso di me, mi guarda, mi sorride, io rimango fermo ancora un po’.

− non ti piace qui?
− sì mi piace...
− e allora vieni
− ma perché proprio qui?

Lei non mi risponde subito, io le chiedo sempre il perché delle cose che fa e lei non mi risponde mai subito, non lo sa, ci deve pensare un po’ prima, e questa cosa mi fa impazzire. Che riesce a fare quello che fa senza mai doversi dare una ragione, solo seguendo questo suo sentire confuso e molto più forte del mio, che invece è così debole e ogni volta ha bisogno di essere compreso, sorretto da basi solide per una massa aggrovigliata di cause che dimostrano le necessità tra un punto del discorso a quello successivo, ma lo vincolano pure ad essere niente di più che vero o falso, giusto o sbagliato, e mai qualcos’altro di libero e raro e bello e pieno e ancora altro. Claudia tira fuori dallo zainetto il suo telo bianco a strisce verdi orizzontali, coi bordi tutti scuciti e pieni di fili pendenti. La stoffa si sta sfilacciando e ogni tanto si perde un pezzetto di sé, rimpicciolisce così lentamente che non si riesce a vederla scomparire e una sera, ne sono sicuro, torneremo in spiaggia, Claudia aprirà lo zaino per prendere il suo telo verde e quando l’avrà tirato fuori ci accorgeremo che ormai sta tutto nel palmo della sua mano, un quadratino irregolare di stoffa, con un accenno di verde, circondato dagli ultimi fili rimasti. È un mese che veniamo in spiaggia la sera, quasi tutte le sere, Claudia si è appassionata all’astronomia ultimamente e ha sempre voglia di guardare le stelle, ogni tanto ne riconosce qualcuna, tira su il braccio per indicarmela e dice “guarda, guarda lì, quella è la stella così, accanto alla costellazione cosà” e poi mi racconta la sua storia, come la usavano i marinai e quando è stata scoperta. E secondo me lo fa perché ogni volta che ne riconosce una è come se stesse dicendo “ecco, quella è un’altra cosa del mondo che non sono io, infatti io sono sulla sabbia e lei è nel buio, io sono figlia degli uomini e lei della luce, io sono al mondo da pochi anni e lei da prima che ci fosse il mondo”. A volte comunque non riesce a riconoscerne nessuna, però quando succede non se la prende a male, inizia a guardarle nella loro immagine d’insieme che nasconde forme e geometrie sempre identiche e sempre varie che non la definiscono più ma anzi, allargano i suoi confini facendola diventare cose che non era mai stata prima. Si stende sul telo e mi fa segno di mettermi accanto a lei, io la seguo ma rimango seduto ed entrambi cominciamo a fissare il cielo.

− ho capito perché qui
− e perché?
− guarda l'acqua

La guardo, mi ci vuole un po’ ma alla fine me ne accorgo anche io, siamo ai piedi della montagna e qui sotto l’acqua è più scura, l’ombra delle rocce si stende sul mare e segna una linea di confine tra il fondale buio e profondissimo che è davanti a noi, e quello limpido che sta poco più in là, dove il bagliore della luna s’increspa sulle onde leggere in un gioco di luci trasparenti e ombre concave. Ecco perché siamo qui, perché qui l’acqua è più scura, ma cosa ci cambia a noi, che siamo venuti in spiaggia per vedere le stelle? La guardo in cerca di una risposta, lei incontra i miei occhi a mezz’aria, mi prende per una spalla e mi trascina giù, con la schiena stesa sul telo, accanto a lei. Continuiamo a guardarci fisso, lei si sfila via dai capelli una fascia verde, la allarga e la infila sulla mia testa, la fa scivolare lentamente dai lati, le rivolgo un ultimo sguardo prima che la benda mi finisca sugli occhi, accecandomi di verde.

− non te la togliere
− perché?
− tu non te la togliere
− per tutta la sera?

E se mi dice di sì, probabilmente lo faccio davvero, ma non per lei. Mi fido di Claudia, se mi chiede di fare una cosa la faccio sempre e la faccio per me, che quando le cose vengono fuori come le vuole lei, in genere vengono fuori più belle per tutti. La sento alzarsi, un po’ di sabbia si solleva dalla sua pelle e finisce sopra la mia, un fruscio di vestiti, se li sta togliendo, poi qualche passo leggero e degli schizzi d’acqua, un paio di gocce mi raggiungono anche i piedi.

− posso toglierla?
− conta fino a dieci

La sua voce arriva da lontano.

− uno, due, tre, quattro, cinque...
− vai, toglila

La tolgo, per prima cosa guardo Claudia, che adesso è in mare e sta un po’ china sulle ginocchia, quindi anche se è ancora vicina alla riva, l’acqua la nasconde comunque fino al collo. Poi mi guardo intorno, ecco i suoi vestiti, e sopra di loro però c’è anche qualcos’altro, il suo reggiseno ed il suo slip, la guardo e capisco quello che è appena successo e quello che sta per succedere adesso. Lei mi fa cenno con la mano di raggiungerla, poi se la mette davanti agli occhi e io l’ho già detto, mi fido di Claudia, se mi chiede di fare una cosa io la faccio sempre, la faccio per me. Mi alzo, do un’occhiata in giro, la spiaggia è deserta, tolgo la maglietta e poi gli slip e i pantaloncini, li avvolgo tutti insieme, li metto sull’asciugamano. Raggiungo la riva, continuo a guardarla ma non riesco ancora a muovermi, a mettere un piede dopo l’altro per avvicinarmi a lei. Sono un po’ teso, io non l’ho mai vista da vicino, Damiano invece sì, l’estate scorsa, e l’ha pure toccata, prima sopra e poi anche dentro.
È successo un giorno che avevamo finito l’allenamento di pallanuoto, era ancora inverno, facevamo lezione in piscina e quando finivamo noi era il turno della squadra femminile. C’era tra loro questa ragazza castana, coi capelli riccissimi, chiusi in boccoli stretti, che le si drizzavano in testa a creare una massa cespugliosa e vispa. Si chiamava Micol e aveva un fisico asciutto, un po’ mascolino anche, che a guardarla potevi vedere le vene sotto la sua pelle dura, i muscoli che si delineavano con una grazia scarna sul suo addome e sulle sue spalle larghe. Un po’ ci piaceva Micol, un po’ ci intimidiva tutti, la sentivamo più vicina a noi rispetto alle altre ragazze della squadra, con le loro forme morbide e abbondanti, mentre il fisico di Micol era più simile al nostro, diverso certo ma familiare. E le mancava però quella dolcezza che tutti cercavamo nei loro corpi e nei loro grembi, che eravamo ancora troppo vicini al grembo di nostra madre per cercarne altri che materni non erano. Tutto questo non c’era nel corpo di Micol, c’era vigore invece e perciò anche volontà, forza e tutta una serie di possibilità che le altre ragazze ancora non avevano il coraggio d’ammettersi. Volevamo averla e volevamo che ci avesse, stringerla e sentirci stretti, affrontarla e rischiare di essere sconfitti. Questo era Micol per noi, ma solo uno fra tutti aveva già abbastanza coraggio per strapparle via dal suo spirito e metterle davanti a sé le sue idee, rischiando di romperle. Damiano era, naturalmente, l’unico che aveva già messo su la sua faccia da uomo, mentre noi altri ci provavamo ma lo vedevi bene che eravamo ancora ragazzini. La lezione era appena finita, stavamo uscendo dalla piscina uno alla volta e in quel momento l’abbiamo vista arrivare da lontano. Micol si tuffava sempre prima di tutte le altre, faceva qualche vasca da sola aspettando che arrivasse il resto della squadra, per riscaldarsi un po’ diceva lei, ma secondo me pure per sentire quel silenzio immobile che ha solo l’acqua deserta, e ogni volta che ti immergi ascolti tutto quello che in genere ti sfugge, che il rumore del mondo lo confonde e lo fa sparire nel caos. Quando mi ci trovo io a nuotare dentro la piscina ancora vuota, quell’apnea muta fa posto a tutte le parole che non mi confesso mai, l’eco di me non posso ignorarla quando sto lì sotto, la sento fortissimo e ogni tanto ho bisogno di mettere la testa fuori, per respirare certo, ma anche per interrompere quel flusso di confronti d’idee e di memoria che mi addensa la testa, rendendola così pesante che se non sto attento rischio di affondare. Quando è entrata l’abbiamo vista tutti e tutti abbiamo abbassato lo sguardo carichi di vergogna per quei pensieri che su di lei avevamo fatto e che ci facevano sentire pieni di colpa a guardarla e sorriderle, che se avesse saputo chi sa cosa avrebbe detto. Damiano invece è rimasto in piscina, ha detto che ci raggiungeva dopo, che voleva fare un altro paio di vasche. Io sono andato via ma ero pieno di curiosità e invidia perché avrei voluto rimanerci pure io lì con Micol, col suo grembo magro e pieno di nervi, con le sue braccia nodose e le sue gambe sode. L’ho aspettato a lungo nello spogliatoio e quando alla fine è arrivato anche lui, è stata una grande delusione, tutti gli chiedevamo di raccontarci cos’era successo e lui si ostinava a dire che niente, non era successo proprio niente. Ma io lo sapevo che stava mentendo, a Damiano succede sempre qualcosa, sono i momenti che inseguono lui più che il contrario. Usciti dalla piscina facevamo sempre tutti un pezzo di strada insieme e poi uno alla volta ci salutavamo finché non restavamo solo io e Damiano, che abitavamo più lontano degli altri. Quella sera, quando anche l’ultimo dei nostri amici è andato via e siamo rimasti soli, me l’ha detto, senza nemmeno guardarmi, come se entrambi sapessimo che stava solo aspettando il momento giusto, mi ha detto: “L’ho vista”. Io ho fatto un po’ l’indifferente, per non farlo sentire troppo importante, ma lui non voleva vantarsi, aveva visto una cosa talmente più grande di sé che da solo non riusciva a contenerla tutta, gli servivo io per contenerla insieme. Mi ha detto che Micol si era tuffata, si era avvicinata al bordo della piscina per sistemarsi la cuffia e gli occhialini. Lui intanto faceva qualche vasca avanti e indietro, cercando di rimanere il più possibile sott’acqua, dove c’era la maggior parte del corpo di Micol, o comunque la parte più interessante. Lei era arrivata al bordo e si era fermata proprio in corrispondenza di un bocchettone d’aria spento, ma che quando s’accendeva faceva bolle e schiuma tutt’intorno. Aggrappata lì, con le braccia poggiate sul cornicione della piscina, le gambe piegate e i piedi contro la parete, non s’era accorta forse, oppure sì, è impossibile dirlo per certo, che il bocchettone era proprio all’altezza dei suoi fianchi. Se n’era accorto Damiano invece, che si era girato appena in tempo per vederla: all’improvviso il getto d’aria s’era attivato di nuovo e le aveva scostato d’un poco il costume, un movimento piccolo, solo qualche centimetro, quel tanto che bastava comunque per mostrare agli occhi avidi di Damiano tutto quello che volevano vedere. “E poi?” gli ho chiesto io, “e poi sono uscito”, “perché?” e lui è rimasto zitto per un po’. Non lo sapeva perché se n’era uscito, diceva che si sentiva strano, come se all’improvviso non fosse più lui ma qualcun altro, e aveva dovuto allontanarsi per riprendere il controllo. Ma adesso stava bene e da quando eravamo usciti in strada stava pensando soltanto una cosa, che doveva vederla di nuovo e toccarla e sentirla, e non sapeva più pensare ad altro. Dopo quel pomeriggio, è passata una settimana in cui Damiano era come assente, un morbo se l’era preso e non gli faceva poggiare gli occhi su niente che non fosse quell’immagine e il pensiero se ne stava rannicchiato dentro quel luogo così breve nel tempo e nello spazio ma con un’eco profondissima, dove l’aveva vista e dove ogni giorno ritornava, cercandola ancora. Sabato e domenica non si è fatto vivo, quando passavamo da casa sua non c’era mai e nemmeno ci ha raggiunti in uno dei nostri posti soliti, la sera lo abbiamo aspettato al bar col bigliardino e il pomeriggio in spiaggia sui lidi ancora chiusi di maggio, ma lui niente, era sparito. Nessuna traccia per due giorni e poi eccolo di nuovo nel mondo dei vivi, domenica sera ha bussato al campanello di casa mia, è salito, ha salutato tutti e poi ci siamo messi a parlare in un angolo del balcone, lontano dalle orecchie degli altri. Mi ha raccontato tutto, che l’aveva fermata sotto casa sua mentre stava uscendo e le aveva chiesto di vedersi la sera stessa, che avevano fatto due passi sulla spiaggia e poi se n’erano andati da Damiano, che i suoi genitori dormivano fuori e sua sorella più piccola era già a letto. Era successo sul divano del salotto, mentre guardavano un documentario alla tv e Damiano avanzava accarezzandola un centimetro di pelle alla volta, fino a quando ha raggiunto il traguardo di quel suo incedere silenzioso. Io l’ho fatto parlare un altro po’, che si vedeva proprio quanto gli piaceva raccontare tutta la sua serata un secondo alla volta, però poi l’ho interrotto e gli ho chiesto com’era stato toccarla e lui mi ha dato una risposta che mi ha stordito tutto.
A casa mia c’è questo barattolo di vetro pieno di confetti e ognuno che viene può aprirlo e prendersene un po’, e Damiano ogni volta ci infila dentro tutte le dita per raggiungere quelli più in fondo, che sono al cioccolato. E quando gli ho chiesto com'era stato toccarla, lui mi ha detto che sopra era piena di piccole rughe un po' umide e quando ci posavi le dita sembrava di toccare l’interno di un frutto maturo. E dentro invece, diceva che dentro era proprio come quando infilava la mano nel barattolo di vetro e scavava tra i confetti, che gli facevano spazio poco a poco, lo accoglievano un sassolino di zucchero alla volta, tra pieni e vuoti, fino al fondo del barattolo. Quando me l’ha detto io gli ho risposto male, non ricordo cosa ma qualcosa di molto stupido, tipo “che stronzata è?” o “ma vaffanculo” come se mi avesse raccontato una bugia, ma poi mi sono pentito subito di quella risposta perché insomma, che cazzo ne sapevo io? Era lui che l'aveva toccata e io non avevo nemmeno un’idea vaga di come era davvero, poteva pure dirmi che era come toccare Marte e ci avrei dovuto credere per forza. Il problema però è che non volevo crederci, che in tutti quegli anni mi ero fatto un’idea mia in testa, piena di me, delle cose che amo e di quelle che mi fanno paura, ed era un’idea di favola e incubo, suggestioni piene di quello che avevo sentito, intrecciato con quello che avrei o non avrei voluto sentire. E invece ogni volta che mi ricordavo delle parole di Damiano rimanevo un po’ deluso perché non c'era più niente di segreto e intimo, solo mandorle e zucchero. Così dopo un po’ ho smesso di pensarci e quando i miei amici ne parlavano io non partecipavo mai, non m’interessava più, era diventata una cosa normale come tutte le altre, e quindi piena di imperfezioni e di grigio. Che se alla fine questo grande affare di cui tutti parlano sempre, questa serratura per aprire le porte del mondo e vedere di cosa si tratta davvero a stare qui tutti insieme a respirare e scavarci gli uni negli altri e cercare qualcosa da costruire, morendo nel tentativo di, se tutto questo doveva ridursi ai confetti dentro il barattolo di vetro nella mia cucina, allora preferivo tenermi le mie idee, che forse non erano reali ma almeno erano autentiche e dense e piene di possibilità, e andavano bene lo stesso, pure se stavano solo dentro la mia testa. E dopo un po’ mi sono accorto che non era più solo quello, non volevo parlare di lei è non volevo parlare di niente. Avevo perso il gusto per le parole, mi sembrava che a usarle troppo si finiva per sporcare tutto, che invece di aiutarmi a dare una forma più limpida e quindi più potente alle cose, alle idee e ai sensi, le parole allentavano le maglie, le allargavano, e la rete certo diventava più chiara agli occhi, ma anche tutta deformata e senza quella sua fibra densa e fitta e intrecciata così stretta che i singoli fili non li puoi distinguere ma l’opera completa è di una bellezza indistruttibile. Quindi appena sentivo qualcosa di prezioso, anche qualcosa di piccolo, che mi allontanava solo un poco dal quotidiano e mi dava una via d’accesso breve per il mondo, me lo tenevo sempre per me, avevo paura che a parlarne con qualcuno l’avrei perso, che sarebbe diventato di nuovo normale, come i confetti di Damiano. Quest’anno mi sono tenuto un sacco di cose per me, è stato strano sentirsi soli dentro al dolore e anche dentro a tutte le altre cose che non lo sono e che ancora non ho capito bene come si chiamano. Qualcuno dice “gioia” o “felicità”, ma io non mi fido più di queste parole, mi sembrano finte, che se le stacchi dal foglio, dietro non ci rimane niente, nemmeno la pagina bianca. Quindi ecco è stato strano sentire tutte queste cose solo dentro di me, ed è stato bello ritrovare qualcuno con cui potevo condividerle.

− ci sei?
− quasi
− e dove sei?
− qui

Le lancio uno schizzo d’acqua, Claudia sorride e si lecca le labbra per raccogliere le poche gocce salate che le sono finite sul viso, io le prendo la mano e lentamente gliela scosto dagli occhi. Siamo tutti e due rannicchiati nell’acqua bassa, ogni tanto le nostre ginocchia si sfiorano spinte dalla marea, ed è un toccarsi così leggero, eppure sento che non ho mai toccato qualcuno in un modo più intimo. L'acqua che avvolge i nostri corpi è scura e impenetrabile agli occhi, io lancio comunque uno sguardo sulla superficie, voglio essere sicuro che anche Claudia non veda niente di me.

− non vedo niente
− nemmeno io
− e vorresti?
− non lo so, tu vorresti?
− l’ho chiesto io per prima

Faccio sempre un sacco di domande a Claudia, perché sono sicuro che ha un sacco di risposte per me, anche se lei non lo sa, o almeno non sembra che lo sappia davvero. Claudia ignora quello che sa e non sa fare e questa è una cosa che mi incanta di lei, uno s’immagina sempre il genio come una cosa grave, piena di peso e consapevolezza, mentre dentro di lei, il genio è un fiume, non ha una forma e uno spessore precisi, scorre veloce e sempre diverso. Quando è arrivata in classe nostra, la prima settimana è stata zitta tutto il tempo, ma davvero tutto, che anche se uno faceva una battuta e gli altri ridevano, lei rimaneva zitta, in silenzio. Guardava sempre qualcosa ma non era un punto preciso, Claudia guardava intorno, cioè, guardava davanti a sé ma come se volesse avere una visione d’insieme, di tutto l’intorno che c’era intorno a lei. Certe persone quando fissano dritto sembra che ci vogliono abbattere i muri con lo sguardo, che li vogliono fare a pezzi e passare oltre. Lei non aveva niente di distruttivo invece dentro agli occhi, più tardi ho capito che i suoi erano diversi dai miei, che se io guardo una pietra vedo una pietra, se la guarda lei ci vede un abisso. E mentre guardava dritto ma intorno, vedeva tutti gli abissi che riusciva a vuotare, e ogni tanto solo questo faceva, che si guardava le mani, i dorsi però, non i palmi, si percorreva con un dito le vene che ramificavano sottopelle e poi, arrivata al polso, la smetteva e tornava a guardare. E anche lì, come quando siamo in spiaggia e lei si mette a fissare le stelle, secondo me lo faceva per ricordarsi del suo sangue, che se ti affacci sull’abisso devi stare attento a non caderci dentro e lei recuperava l’equilibrio accarezzandosi i dorsi delle mani, sentendo la pelle e la carne e l’umore del suo corpo che la rimetteva in piedi e le ricordava di essere vera, di essere umana. Si era presentata il primo giorno dicendo soltanto il suo nome, non l’età né da dove veniva, anche se la professoressa ci aveva provato a tirarle fuori una biografia più completa, ma lei niente. “Claudia” aveva detto, e avevamo capito che non era di qui per via del suo accento strano, del nord, anche se non sapevamo bene di dove. Ma a parte le due sillabe del suo nome e quell’idea di lontano che evocava la sua voce, non sapevamo più niente di lei, dopo questa presentazione così breve, si era seduta al suo banco, che era per due ma aveva una sedia vuota accanto, e poi più niente.
Eravamo una quarta liceo, non il posto migliore del mondo per essere uno diverso, ci si riconosceva come simili a partire dalle stranezze di tutti gli altri, si tracciava un cerchio e poi era una gara a chi riusciva ad entrarci dentro. A me l’aveva spiegato Claudia che funzionava così, che c’era questo tipo, Castiglione, lei l’aveva studiato l’anno prima alla sua vecchia scuola, ed era un umanista mantovano del Cinquecento, che con grande genio l’aveva capito benissimo come funzionavano le corti. Anche lì dentro come in una quarta liceo, dovevi essere nel cerchio per diventare una persona, altrimenti eri un pezzo di materia con dentro la copia grottesca di un’identità. Se eri uno che parlava strano, una che aveva i tic, ma non sono sicuro che c’erano i tic nel Cinquecento, forse li abbiamo inventati noi più tardi, insomma se eri uno di questi personaggi, le tue azioni non avevano cause, si avvertivano come contrarie ma non si sentivano come contrarie, il loro essere altre dalla norma le rendeva assurde solo perché altre, senza che valesse la pena chiedersi cosa significavano, che valore avevano per quella persona a cui pure appartenevano, e che tanto una persona non era, ma materia grezza e grottesco. E insomma Castiglione aveva capito che non ci riuscivano tutti ad interpretare quel codice di comportamento che ti faceva stare dentro al cerchio, che alcuni non le sapevano leggere le espressioni, le vibrazioni della voce, i caratteri degli altri, e allora per tutti loro aveva scritto questo manuale, Il Cortegiano, che spiegava esattamente cosa fare e dire per non essere lasciati fuori e per diventare dei buoni cortigiani, appunto. E Claudia era una cosa nuova in questa nostra corte di banchi e sedie, questa piccola società con le sue regole e i suoi codici, e non stava dentro al cerchio perché non lo vedeva, lei le avvertiva le cose diverse ma le sentiva pure e allora non erano più diverse, erano solo una parte di un insieme più ampio, che noi altri nemmeno lo sapevamo che esisteva quest’insieme. E perciò eravamo sempre tutti lì a guardarla, cercando di capire se stava dentro o fuori dal cerchio, aspettando che confermasse il nostro metodo, che se lo metteva in dubbio lei, allora potevano farlo tutti e se non c’era il cerchio a darci dei ruoli, come facevamo a capire chi era chi? Perciò verso di lei c’era sempre una certa diffidenza, un sospetto, Damiano soprattutto ce l’aveva, che il cerchio l’aveva tracciato praticamente lui da solo e aveva poi deciso chi metterci dentro insieme a noi due e chi lasciare fuori. E ci provava con lei a metterla all’esterno di noi, ma non ci riusciva mai davvero, aveva Claudia un fare disarmante contro tutte le cattiverie che una quarta liceo può nascondere. Era due persone diverse, buona e comprensiva ma mai pietosa, non aveva paura di ferire qualcuno se lo considerava necessario per fare qualche passo avanti verso una verità più densa, o per dirla meglio ecco, se credeva in qualcosa e nell’errore di qualcun altro che ne sosteneva l’opposto, Claudia non aveva nessuna esitazione a denunciare la menzogna. Era per lei un fatto così inquinante, così nociva l’idea di allontanarsi dal vero, che di fronte a quello ogni sua gentilezza veniva meno e diventava un’onda la sua lingua, che travolge tutto, lasciando dietro di sé solo l’essenziale. E come servitrice della verità, Claudia non poteva avere nemici se non i bugiardi, ma di fronte a quella viscerale autenticità che s’impregnava tutta nelle sue parole e nei suoi gesti, nessuno aveva mai la forza di contraddirla, ti sentivi nudo, spogliato davanti a tutti e messo in mostra nelle tue debolezze più vergognose, tirava fuori alcune cose da te e dallo scherno con cui affrontavi l’imbarazzo, il dolore o il conflitto, che spesso nemmeno tu ti eri mai confessato. Non era una santa Claudia, non era una martire, ma sapeva sciogliere tutte le nostre piccole meschine bugie, che non erano per forza ampie o gravi, ma erano la nostra scorciatoia per riuscire a stare insieme, che farlo con onestà è davvero troppo difficile per molti e allora si preferisce raccontare delle storie, a noi e agli altri, e Claudia non ci credeva alle storie, solo questo dico, che cercava la verità. Perciò Damiano provava e riprovava a metterla al di fuori del cerchio, qualche volta prendendola in giro per il suo accento strano, sottile, sussurrato a tratti, altre volte per quel modo con cui si guardava intorno e i dorsi delle sue mani e altre ancora per la cura con cui parlava delle cose. Le stelle ad esempio sono sempre state per me un oggetto certo del mondo, come l’asfalto che batte sotto i miei piedi e il sole che lo rende bollente a mezzogiorno. Fatti esistenti senza che ci sia bisogno di chiedersene il motivo, e certo per il sole e per l’asfalto è semplice, i loro motivi sono immediatamente visibili anche agli occhi meno abituati a guardare. Ma le stelle? Che ci stanno a fare lì tutte dipinte sul soffitto del mondo? E Claudia lo sapeva cosa ci facevano lì, la loro storia, le loro forme costellanti, e non soltanto conosceva tutte queste essenziali necessità caratteristiche, ma anche quel loro senso maggiore, che era però un senso inteso come sentire, che a guardarle succedeva qualcosa a tutti, alcuni si sentivano bestie, altri uomini e io, per conto mio, avevo la sensazione di essere un passeggero sopra una nave di terra e acqua che viaggiava violenta nell’oscurità sorda dello spazio, e quando ero con lei, steso in spiaggia a fissarle, avvertivo finalmente tutto quello che stava nascosto dentro i nostri talloni affondati nella sabbia. Eravamo viaggiatori, sempre esposti ad un movimento costante, era l’universo stesso che l’assecondava e se il nostro spirito provava a starsene fermo in mezzo a tutto quell’oscillare progressivo, lo sentivi che era qualcosa di forzato, di lontano dal vero, qualcosa che feriva la nostra natura più intima di esseri umani. Quindi ecco Claudia sapeva fare questo e lo faceva di continuo, durante le lezioni i professori dicevano sempre un sacco di parole e per noi erano fatte di marmo, pesanti e immobili, mentre per lei erano argilla, poteva modellarle in mille modi diversi e ogni volta ne veniva fuori qualcosa di nuovo, che nessuno di noi aveva mai visto prima. Tutto quello che studiavamo, per lei era vita e dovevamo compenetrarla nella sua memoria, nelle sue dee o nella sua materia per poi rientrare dentro di noi con un’impronta di quella sostanza inerme che avevamo scavato, un’orma che rendeva le cose più umane e gli uomini meno soli. Per tutto questo era difficile mettere Claudia fuori o dentro dal nostro cerchio ma Damiano s’era ostinato e voleva farlo a tutti i costi. Non la poteva sopportare quest’idea che il mondo fosse un’altra cosa da come se l’era immaginato lui e che le sue regole non valevano sempre per tutti. Ci aveva provato una volta durante un’ora di religione, che la nostra professoressa era una donna piena di spirito e provava sempre ad avvicinarci alla fede non come credenti ma come uomini. Ci spiegava la malinconia trattenuta di Giuseppe, costretto a crescere una moglie bambina e un figlio d’altro Padre, mentre lui se ne stava rannicchiato nell’ombra di questa figura titanica, ad accompagnare nella quotidianità più scarna questo suo figlio non suo, e non sapeva certo indicargli la strada per compiere il suo destino fra gli uomini, ma senza un padre come lui, Cristo non avrebbe mai imparato a starci in mezzo agli uomini, a diventare uno di loro. Giuseppe gli aveva insegnato la parte meno venerabile della sua natura duplice, era nato Dio ma lui l’aveva fatto diventare uomo, sapendo che tra i suoi due padri nessuno si sarebbe ricordato di quello che dava forma al legno e tutti avrebbero sempre pensato all’altro, quello che dava forma alla vita e sperava che lui almeno, suo figlio, se ne sarebbe accorto di tutto quell’amore nascosto. Così c’insegnava la religione questa nostra professoressa, e ci chiese allora un giorno di scrivere una preghiera, per quel Dio che ci guarda e spera per noi di riuscire sempre a fare le scelte migliori e prova a darci gli strumenti per procedere da soli, a quel Dio, disse, voleva che scrivessimo una preghiera, e poteva avere qualunque forma, sia la preghiera che il suo destinatario, uomo, donna o bestia, non era importante, ma che quella forma fosse per noi Dio, dentro quel senso di provvidenza e guida che lei voleva farci conoscere. Ma io avevo in quel periodo perso affinità con le parole, mi sembravano sempre finte e avevo smesso di fidarmi di loro da quando Damiano mi aveva raccontato dei suoi confetti e del barattolo di vetro in cui stavano, sporcandomi le idee di cui m’ero innamorato. Perciò decisi che quello sarebbe stato il mio tentativo di riprendermi le lettere, di farle mie di nuovo, come era stato fino a quel momento, lavorai a lungo sopra la mia preghiera e la scrissi così:



A te che guardi dall’alto
su noi
ti prego, concedimi
occhi più affilati
per meglio solcare
le cose del mondo,
pelle più sottile
per sentirlo al tatto
in tutte le sue forme.
orecchie profonde
per ascoltare
i suoi dolori,
narici ampie
per sentire odori
di vita e di morte,
un palato vuoto
per riempirlo tutto
dei suoi frutti.
E concedimi, ti prego
una lingua più agile
per poterne parlare
di tutto quanto
ho visto
toccato
ascoltato
odorato
mangiato.


E me ne stavo con questo foglietto di carta in mano, me lo ripassavo tra le dita aspettando il momento in cui l’avrei letto e le mie parole sarebbero diventate vere, fuori di me e dentro il mondo. La professoressa ci ha chiesto chi voleva leggere la sua preghiera per primo e io stavo per parlare ma qualcuno in quel momento si è alzato prima che io potessi aprire la bocca, era Claudia. Tutti ci siamo voltati a guardarla, lei che all’inizio era rimasta zitta per una settimana intera, che non partecipava di niente se non eri tu a tirarcela in mezzo, lei che spiccicava quattro parole al giorno e ognuna di loro era profonda come un tuffo nell’acqua salata. Proprio lei ora voleva leggerci la sua preghiera e la nostra domanda anche in quel momento era sempre la stessa: dentro o fuori dal cerchio? Volevamo sentire quello che aveva da dirci per cercare di risolvere finalmente questo mistero. La professoressa le ha detto di iniziare e Claudia ha fatto una piccola premessa, dicendo che la sua poesia era dedicata a Varuna, una divinità della tradizione vedica, severa e morale, che guarda e giudica i comportamenti degli uomini. Poi ha iniziato, recitandola a memoria, senza leggere da un foglio, come avrei fatto io, e la sua preghiera faceva così:



Varuna è scuro,
scuro come la notte,
i suoi occhi
sono tutte le stelle
del cielo.
Varuna cerca
il dolore
e la verità
nel petto
degli uomini.
Varuna sente
e conosce, conosce
e sente,
non accetta
la menzogna.
Sono io Varuna
e chi come me
vuole scoprire
senza chiedere mai
tregua

 

Siamo ancora in acqua noi due, sono rimasto zitto tutto questo tempo e le nostre ginocchia hanno smesso di toccarsi da un po’, Claudia mi guarda cercando una risposta che non ho. Mi ha chiesto se voglio vedere cos’è che sta nascosto sotto quest’acqua ma io in testa ho tutta la mia memoria e un sì o un no sarebbero due risposte troppo piccole, sarebbero incomplete. Senza dire una parola, Claudia si immerge e io capisco che ho perso la mia occasione, ora nuoterà fino a riva e io dovrò ripensare a questo momento e immaginare che cosa potevo vedere se non c’era tutta quell’acqua a scurire i nostri corpi. Mi metto una mano davanti agli occhi, per darle il tempo di raggiungere la spiaggia, asciugarsi e vestirsi senza che il mio sguardo le consumi la pelle. La sento riemergere ma il rumore è molto vicino, troppo vicino per essere lì sulla sabbia, e poi non sento i suoi passi, né il fruscio dei suoi vestiti, allargo l’indice ed il medio e ci infilo dentro un occhio, la riva è vuota. Mi guardo intorno, Claudia è ancora in acqua, a qualche metro da me, appena al di là della linea scura che separa l’ombra della montagna dal mare limpido e trasparente che si allarga oltre la sua cima tutta spezzata di pietra e di rami.

− resti lì?
− no
− vieni qui?
− ... non ancora

Mi immergo in acqua e nuoto nella direzione opposta a quella di Claudia. Riemergo dopo qualche bracciata e subito sento l’odore di roccia e di muschio che emana dalla parete della montagna ad un metro da me, e che m'impregna i polmoni da tutta la vita. Appena sopra il livello dell’acqua, c’è una croce scavata nella pietra, non è troppo grande, la parte verticale sarà mezzo metro al massimo, quella orizzontale forse trenta centimetri, poco di meno. E nei solchi dentro la roccia sono attaccate conchiglie e alghe che hanno preso dimora lì negli anni, accumulandosi onda dopo onda dentro questa croce profana di acqua e di terra. In paese la conosciamo tutti ma nessuno sa chi l’ha fatta, le donne e gli uomini spesso ci vengono a pregare qui, ma solo di notte, quando nessuno può vederli. Io per me non ci ero venuto mai, ci ero passato accanto un mucchio di volte ma mai che mi fossi fermato ad osservarla bene per qualche momento, a darle un po’ dell’attenzione che meritava. Prendo una di queste conchiglie, quella che sta nell’incrocio tra le due assi concave di pietra e la tengo stretta in mano, mi ritorna in mente la preghiera di Claudia. Quando l’ha finita si è seduta di nuovo sulla sua sedia e in classe è calato un silenzio infinito, la professoressa non sapeva che cosa dire, si vedeva bene che non se l’aspettava proprio una preghiera del genere. Claudia era il suo stesso Dio, non ne aveva altri con una carne e uno spirito diversi dai suoi.
È stato Damiano a riempire quel vuoto con le sue parole, si era tutto risentito che quei pochi versi di Claudia avevano attirato l’attenzione dei nostri compagni e anche della professoressa, che quella verità che stava nella sua preghiera aveva spento la sua e ci aveva convinti tutti senza troppo sforzo. “Inchiniamoci ora e preghiamo alla dea Claudia” aveva detto lui, cercando l’approvazione negli sguardi e nelle risate degli altri, che però erano rimasti fermi a guardarla, muti. Io mi sono rimesso in tasca il mio foglietto, di fronte alle parole di Claudia, le mie che avevo scritto con tanta cura ora mi davano addosso una sensazione di morte e mi facevano venire voglia di piangere. In quel momento ha suonato la campanella, io mi sono alzato e sono andato via di corsa, mi sono infilato nel pullman prima di tutti gli altri e lì ho iniziato a piangere davvero, circondato da sconosciuti. Quell’inchiostro sulla carta non era il mio Dio e quei segni che tracciava sul foglio non erano le mia parole, volevo andare più lontano possibile da loro, ho aperto il finestrino e ho fatto a pezzi la mia preghiera, lasciandola cadere sulla strada. Le porte del pullman si sono chiuse, stavamo per partire ma qualcuno è arrivato di corsa bussando sul vetro, ho alzato la testa sperando che non fosse uno dei miei compagni, che non avevo nessuna voglia di farmi vedere così. Era Claudia, il conducente le ha aperto la porta, lei è salita e siamo partiti, dal finestrino ho visto Damiano che correva verso la fermata cercando di raggiungerci e sono stato contento che sia rimasto a terra, quello non era il suo posto. Claudia si è avvicinata e si è messa a sedere accanto a me, io nemmeno ci ho provato a fingere che non stessi piangendo, non riuscivo a fermarmi e nemmeno lo volevo, abbiamo fatto tutta la corsa insieme, in silenzio fino alla sua fermata. Ad un certo punto lei si è alzata, ha poggiato un fazzoletto bianco di stoffa sulle mie gambe, io ho sollevato gli occhi per guardarla, lei mi ha sorriso e poi è andata via. Quel giorno ci siamo conosciuti davvero e poi tutto il resto ci è cresciuto attorno un po’ alla volta, piano piano, come fanno le piante quando mettono radici nel terreno profondo, per non staccarsi più.
Strofino l’indice sul dorso ruvido e rigato della conchiglia che stringo tra le dita, quel giorno avevo pianto a lungo e senza capire bene perché, ripenso alla mia poesia e al suo tentativo ridicolo di riassumere il mondo e l’uomo, la sua anima arida e la sua struttura ordinata e compiuta e penso che il mio Dio non è così. Il mio Dio si muove sempre tra noi e il cielo, ha gli occhi bagnati dal nostro dolore e vede di noi solo le sagome sgranate attraverso tutte quelle lacrime che gli inondano le pupille, il mio Dio sa di casa e di ignoto, è più umano degli uomini e tutto quello che fa è darci la possibilità di annegare o metterci in salvo. Il mio Dio è nel mare, dove sono anche io. Guardo ancora per qualche secondo quella croce scavata nella roccia, mi immergo un’altra volta e nuoto a bracciate larghe verso Claudia, che ancora mi aspetta tutta bagnata di luce. L’avverto di nuovo mentre sono in acqua, l’apnea muta che mi circonda e l’eco di me, come quando nuoto nella piscina vuota. Ma adesso quest’eco non parla, io e lei non dobbiamo più confrontarci ora, siamo una cosa sola, conciliati finalmente tra la sabbia e le onde, non ho bisogno di salire in superficie, la mia testa è piena ma leggera e scivola senza impedimento attraverso la corrente. Il sale brucia un po’ ma io tengo gli occhi bene aperti ed inizio a vedere qualcosa davanti a me, una sagoma sgranata, sono i piedi di Claudia. Restano fermi per qualche secondo, poi si muovono d’improvviso e una nuvola di sabbia si solleva dal fondo. Continuo a nuotare e i granelli piano piano si diradano, schiarendomi la vista, supero il confine scuro tra l’ombra della montagna ed il resto del mondo. Ora la nuvola di sabbia s’è diradata tutta e ci vedo di nuovo, di fronte a me c’è Claudia, anche lei si è immersa e se ne sta rannicchiata sul fondale, a guardarmi. Io mi avvicino ancora un po’, mi metto accovacciato come sta lei, ci guardiamo per intero, le nostre ginocchia si sfiorano ancora una volta.





immagine di copertina: Giulia Siciliano

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