“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 16 November 2019 00:00

Nel cuore di chi resta

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È uno scorcio d’autunno che indulge alla clemenza, l’aria è mite, al più digrada verso una frescura frizzante, di quelle che rendono incerta – e tendenzialmente fallace – la scelta di cosa indossare. Sono i “giorni dei morti”, come in generica crasi s’accorpano in definizione i primi di novembre, quelli dedicati al culto memoriale di chi non c’è più e alla processione più o meno sentita di frotte di persone che raggiungono le sepolture dei propri cari.

Per le strade di Napoli s’effonde, dalle bancarelle disseminate a bizzeffe lungo le strade, l’odore del torrone: mandorle e nocciole tostate, caramelle multicolore e zucchero filato stemperano in un inesausto sussulto vitalistico il senso d’impermanenza ineluttabile che pure suggerirebbe il culto dei defunti. Ma Napoli è così, vita e morte, gioia e dolore, sono contigue affezioni di una medesima sostanza, che materia l’animus di questa città, estrema, che muore un po’ ogni giorno, e che ogni giorno riesce a rifiorire ancora, e ride e piange con egual trasporto, un trasporto che a chi l’osserva da fuori può sembrare muoversi costantemente in punta d’eccesso, tra lo sberleffo sguaiato e il melodramma ostentato. E invece, semplicemente vive di sensazioni dilatate, pulsa della propria capacità d’emozionare e d’emozionarsi nel profondo.
È città dal ventre cavo, Napoli, si sa: antiche cisterne, all’occorrenza riattate a rifugi antiaerei in periodo di guerra, cavità che conservano le viscere misteriche di culti e tradizioni in cui il sacro e il profano si mischiano fino a confondersi in un coacervo indistinguibile, su cui s’appuntano forme di devozione in cui la fede s’intride di buona dose di superstizione. Tra i luoghi di questo “mondo di sotto” – fatto di ipogei e anime venerabili, di “capuzzelle” (teschi) a cui rivolgersi come a personalissimi dispensatori di taumaturgiche panacee, “anime pezzentelle” da adottare e invocare – c’è il Cimitero delle Fontanelle, che deve il suo nome alla antica presenza al suo interno di fonti d’acqua. Situato nel cuore del quartiere Sanità, il Cimitero è oggi un reliquiario reso oggetto museale, visitabile in tutta la sua suggestiva pregnanza simbolica e tradizionale. E, partendo da questa suggestione, Teatri Associati di Napoli vi ambienta uno spettacolo che ha tutti i crismi del site-specific, comprese le date stesse della programmazione, nei “giorni dei morti” (in realtà 31 ottobre e 1° novembre, ma il periodo resta quello), fino ad arrivare al titolo (e al significato stesso) della rappresentazione: Piccoli funerali.
A portarlo in scena Maurizio Aloisio Rippa, ideatore e voce narrante (e cantante) di questo spettacolo sui generis: “Ci sono molte parole, ma non è un testo teatrale; c’è molta musica ma non è un concerto”, si premunisce di dirci in esergo e non potremo che convenirne; accanto a lui, la chitarra di Amedeo Monda, precisa e puntuale all’accompagno; entrambi in nero, tinta decisamente consona all’argomento, ai giorni, al luogo.
Il tufo giallastro ci accoglie sotto la sua alta volta trapezoidale, cavea “porosa” – come Walter Benjamin ebbe a definire questa città – che funge da abbraccio scenografico, chiusa su tre lati e aperta verso il pubblico; tutt’intorno, sul muretto che corre lungo le tre pareti, una sfilza di piccoli lumi accesi, tre lumi più grandi sul fondo, ceri portacandela, una sedia dietro al leggio posto in centro scena, un'altra accanto al muro, in prossimità di un vaso, Sulla sedia accanto alla parete giacciono poggiate delle rose, ad ogni rosa che Maurizio Rippa infilerà nel vaso corrisponderanno una storia e un canto.
Uno spettacolo che nasce dall’odio per i funerali (anche questo ci viene detto a mo’ di introduzione) e che ha debuttato in un cimitero abbandonato a Stromboli, dopo che – pochi giorni prima – in mare erano morte oltre cento persone. Ne scaturisce l’istinto di dedicare a quelle anime perdute in fondo al Mediterraneo un pensiero che confonda le lacrime con l’acqua che ha affogato, come il pianto di Laerte per l’annegamento di Ofelia (Amleto, Atto IV, scena 7). E Alfonsina y el mar è il primo canto che s’irradia, intenso e struggente.
Prende le mosse Piccoli funerali dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, silloge di necrologi (che avrebbe poi ispirato il concept album di Fabrizio De André Non al denaro, non all’amore né al cielo) e da Cartoline dai morti di Franco Arminio; ma entrambi gli spunti lavorano semplicemente da innesco ideale, da riferimenti culturali, saldi, ma liberamente rielaborati da Maurizio Rippa in chiave soggettiva, ripercorrendo storie personali e affetti privati. Dalle Cartoline provengono le parole di una prima storia/necrologio (“Qui la fine della primavera e la fine dell’inverno sono più o meno la stessa cosa. Il segnale sono le prime rose. Ne ho vista una mentre mi portavano nell’autoambulanza. Ho chiuso gli occhi pensando a questa rosa mentre davanti l’autista e i l’infermiera parlavano di un ristorante nuovo dove ti fanno abbuffare e si spende pochissimo”), una sorta di preambolo generale a racconti che avranno sapore di famiglia, odore di ricordo. Rippa modula la propria voce in un canto che si spande dolce, quasi carezzevole, a coronamento di ogni parte recitata; muove le mani, allarga le braccia, chiude gli occhi, stringe i pugni, conferendo alle sue interpretazioni una vivida compenetrazione, lasciando vibrare in arpeggio le corde leggere di una sincera commozione.
Prende forma uno spettacolo “raccontato”, covato e tenuto riposto in un cassetto, o meglio, in un file – che avrebbe poi dato il nome alla messinscena a cui assistiamo – dal quale fuoriescono storie che hanno aria di famiglia, in cui scopriamo una figura di nonna, in tutta la sua dignità di insegnante (“una delle prime insegnanti donna del ‘900”) e nel suo amore per i fiori e per le storie (per La storia di Elsa Morante, in particolare), conservato fino alla morte che la raggiunse a centouno anni. Casa sulitaria di Roberto Murolo fa da corona al racconto, l’interpretazione di Rippa è intensa e accorata, trasfondendo un pathos che ha il garbo proprio di chi entra in punta di piedi, con delicatezza estrema.
Piccoli funerali ci parla col linguaggio delle proprie atmosfere, che sposano versi e musica, narrazioni e canzoni; i gesti misurati e gli occhi socchiusi di Maurizio Rippa concorrono ad arricchire l’interpretazione con la tenerezza di un’elegia, mentre intona Danny Boy evocando la storia di un figlio che da lontano cerca di tornare al capezzale del padre morente prima che questi esali l’ultimo respiro.
L’acqua di rose usata per sciacquarsi il viso prelude al racconto in cui una donna trova la morte per un colpo di fucile esplosole in pieno volto da un marito all’apparenza imbelle; storia a cui, dopo il consueto interludio cantato, fa seguito altra narrazione in cui riecheggiano affetti famigliari, quelli di una figura materna che si dice “morta due volte”, vissuta fra circo e giostre e volata in cielo come una colomba bianca, da cui la scelta di coronarne l’omaggio filiale con la celebre Cuccurruccuccù paloma (che ci porta alla mente immediatamente Caetano Veloso). Altre storie si susseguono, altri canti... in inglese, in spagnolo; le parole accorate lasciano il passo ad aneddoti che hanno anche un risvolto divertente, quasi grottesco, come quando Maurizio racconta di una donna che la vita intera aveva costretto controvoglia fra le pareti della propria cucina, finendo “perseguitata” dalle maioliche che ne guarnivano la prigione domestica persino nella decorazione della sua tomba, o ancora quando racconta di un amore lasciato a sedimentare sospeso per una vita intera, il cui protagonista trova accidentalmente la morte proprio quando, in età avanzata, sta finalmente per coronare il sentimento sperato e coltivato lungo l’arco di interminabili anni di speranzosa attesa.
Si viaggia verso l’epilogo, che conterrà i momenti più toccanti, a cominciare dalla “cartolina” dedicata a sé stesso, alla necrosi del proprio cuore, avvenuta un venerdì 13 del ’17, un cuore “defunto” per il 45%, il cui restante 55% continua a battere “nel petto di uno sgangherato cantante”; ce lo dice con un sorriso stampato sul volto, Maurizio, un sorriso che suggella una complicità con noi seduti in platea, un’empatia che già s’era innescata e che stempera quella malinconica considerazione d’essere “l’ultimo” dopo il quale “non c’è più nessuno”, in cui sembra esserci l’eco foscoliana di chi sente di non lasciare eredità d’affetti, perché “uno non muore quando smette di respirare, ma quando nessuno lo nomina più”. Le ultime rose sono state infilate nel solito vaso, Maurizio Rippa porta la sedia in proscenio, ci si accomoda e ci lascia in sospensione prima di un finale da dedicare, da decidere, da compiere come una sorta di omelia laica in cui, a chi di noi se la senta, viene chiesto di partecipare, sussurrandogli all’orecchio il nome di un proprio affetto venuto a mancare. È un momento intenso, vera acme dello spettacolo, in cui in tanti ci rechiamo in processione a bisbigliare un nome e un ricordo da celebrare in una intimità che è a un tempo pudica e condivisa, in cui si mette in gioco una parte del proprio vissuto interiore continuando a custodirlo sì gelosamente nel proprio intimo, ma al contempo affidandone la celebrazione alla voce di un cantore; mi soffermo su un momento “di famiglia” un po’ più lungo, in cui ad avvicinarsi all’artista è qualcuno che gli è molto contiguo, gli sussurra qualcosa che deve appartenere a un ricordo condiviso e mi commuove quel sorriso protratto che li accomuna, tenero, commosso, eppure venato di una gioia sottile; come mi commuove il pensiero che scelgo di condividere e omaggiare, verso un affetto andato via troppo presto, mentre penso a quelle lacrime di cui ho compreso in età adulta quanto poco ci fosse da vergognarsi, come delle proprie umanissime fragilità, che sono invece una forza e una risorsa da preservare. Ma questa è un’altra storia, che conservo per me, rimuginando tra la vita e le emozioni, tra la memoria e gli affetti, mentre Maurizio Aloisio Rippa ci dedica (e si dedica) Over the Rainbow, lasciandoci nelle orecchie il balenio sonoro di un orizzonte in cui la malinconia della perdita si confonde con l’iridescenza della memoria affettiva di chi continua a vivere nello scrigno dei ricordi, oltre la curva visibile dell’arcobaleno, oltre la vita che passa, nel cuore di chi resta.





Piccoli funerali

di Maurizio Aloisio Rippa
liberamente ispirato a Antologia di Spoon River
di Edgar Lee Masters
e a Cartoline dai morti
di Franco Arimnio
con Maurizio Aloisio Rippa (voce), Amedeo Monda (chitarra)
foto di copertina Sara Petrachi
foto di scena Alberto Marchetti
produzione 369gradi
lingua italiano, spagnolo, inglese, napoletano
durata 1h
Napoli, Cimitero delle Fontanelle, 1° novembre 2019
in scena 31 ottobre e 1° novembre 2019

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