“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 28 March 2019 00:00

Il gregge espiatorio. Quattro salti fra Salvini e Girard

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Gli indios Kaingang, nel Brasile meridionale, sono un popolo che a lungo è stato preda di un sistema di faide interne che, insieme alla pressione dei colonizzatori bianchi, ha minacciato la loro stessa sopravvivenza. Tolleranti verso ogni tipo di offesa, incluso l’adulterio, se consumato all'interno del gruppo, erano invece pronti a reagire in modo cruento per molto meno contro i membri di altri clan, e questo finché la logica degli assassinii a catena non penetrava come un contagio anche nel gruppo elementare, mettendo a repentaglio l’incolumità di tutti.

Ne parlò l’antropologo americano Jules Henry in un libro del 1941, Jungle People, poi citato da René Girard, nel suo La violenza e il sacro (1972), come esempio dei pericoli di quella che il filosofo francese chiama “crisi sacrificale”. Una dinamica di violenza preventiva, quella dei Kaingang, in cui non basta ribattere prontamente al colpo, bisogna colpire per primi, in un gorgo che risucchia tutti e che, sempre secondo Girard, renderebbe necessaria l’elaborazione rituale dell’omicidio sacro.
La lettura di Girard – la cui opera risale ai primi anni ’60, quando l’idea di un desiderio mimetico e delle rivalità che ne scaturiscono si limitava all’analisi dei romanzi ottocenteschi e non era ancora una teoria generale della religione e, di conseguenza, della società – si arricchisce di una suggestione particolare (che i girardiani doc avranno già notato) in anni in cui assistiamo alla nascita e crescita di società parallele ancora primitive: le comunità virtuali dei social network. È lì, nelle reti sociali, che sembra essersi trasferito un certo tipo di lotta, particolarmente aggressiva proprio in quanto protetta dalla distanza fisica e dalla virtualità dei colpi inferti. Si tratta di battaglie in difesa o in spregio delle democrazie recenti, quelle nate dal trauma dell’ultima guerra mondiale e dai suoi lunghi postumi. Una bellicosità sempre latente, oggi arricchita dai potenti mezzi tecnologici messi a disposizione della circolazione delle idee o, se si vuole, delle “legioni di imbecilli”. La definizione, ormai famosa ma anche un po' troppo sbrigativa (perlomeno nella vulgata imbecille che se n’è tratta, e onore a un recente articolo di Michele Smargiassi per aver messo un po' di puntini sulle i), è di Umberto Eco, il quale comunque, nel dire “legione”, forse si dimostrava perfino ottimista, perché dava un’idea di ordine tattico, mentre nelle reti sociali siamo ancora all'orda primordiale.
In un testo (Scorciatoie e raccontini) uscito proprio all’indomani dell'ultima guerra mondiale, Umberto Saba scrisse che gli italiani non avevano mai fatto una vera rivoluzione perché non erano un popolo di parricidi, bensì di fratricidi. Qui il poeta ricordava Romolo e Remo e il brano aveva un suo effetto retorico indubbiamente forte quando ancora bruciava il ricordo di ben più recenti massacri, che in Italia, con Salò, avevano assunto valenze del tutto particolari e drammatiche. Eppure Girard ci dice che il parricidio, in fondo, non è che una variante della rivalità tra fratelli. “Di che reggimento siete/fratelli?”, scriveva Ungaretti dal fronte, nel 1916. Qualunque sia, è sempre un reggimento che viene a farci fuori. L'umanità discende da Caino e nella stessa tragedia greca, scrive ancora Girard a proposito di Edipo re: “Ognuno vede nell'altro l’usurpatore di una legittimità che crede di difendere ma non cessa di indebolire”. La difesa delle istituzioni nate da una crisi violenta genera altre crisi violente a intensità variabile.
Anche il dibattito politico nostrano ruota tutto attorno alla difesa di istituzioni che in fondo sono ancora giovanissime (sebbene amiamo far discendere le nostre democrazie da quella ateniese). Ed è una difesa spesso incentrata sull’attacco. Sintomatica è la facilità con cui, nei campi di battaglia virtuali, ci si dà del fascista o del comunista (Jules Henry registra fra gli indios Kaingang un impoverimento linguistico forse affine al nostro quando dice che si ricorre a un solo termine per indicare i parenti rivali, il resto dei brasiliani, i morti e i vivi e le differenze di ogni sorta). “La comunità è contemporaneamente attratta e respinta dalla sua stessa origine”, dice ancora Girard riferendosi all’origine violenta dell’ordine sociale, che attrae e repelle. “Prova il bisogno costante di riviverla in forma velata e trasfigurata; il rito placa ed inganna le forze malefiche perché non cessa di sfiorarle”.
E questo è il nostro destino tragico, perché, a furia di sfiorarlo, si finisce per svegliare il can (e il clan) che dorme. Prevenire il futuro significa prepararne fatalmente l’avvento e non schivarlo, ne sanno qualcosa Laio, Erode e i coniugi Macbeth. Fino a che punto, infatti, il grido d’allarme risveglia la parte che si suppone sana della società (e di ciascun singolo suo membro scisso) e non invece la dark side malefica? A questa condizione, che possiamo dire atavica, le reti sociali hanno impresso una dinamica nuova che, usando una metafora famosa, potremmo definire panottica, ma di un panopticon in cui tutti vedono tutto, dunque tutti sono vigili e vigilati. “Sentinelle in piedi” o sedute al computer, facciamo tutti la guardia e avvistiamo il nemico che si avvicina, ma avvistandolo ne affrettiamo la materializzazione. Non c’è tempo per lunghe attese da “deserto dei Tartari”.
Così abbiamo cominciato col denunciare l’anonimo cittadino che faceva commenti orridi alle notizie più orride, per poi scoprire che lo faceva l’assessore comunale del paesino sperduto, ma anche quello del ricco e influente governo regionale, e via via sempre più in alto nella piramide istituzionale. Ne nasceva addirittura un genere letterario epigrammatico: il nostro commento smart al post troglodita del losco figuro di turno da immortalare in un printscreen ed esibire come uno scalpo sulla nostra bacheca. Come nei dialoghi della tragedia antica, tutto si decide in un botta e risposta tra duellanti verbali la cui posta in gioco sarebbe la salvezza collettiva. Ma l'intento di sventare la sventura cela anche un bisogno di affrettarla, affinché la nuova unità pacificatrice avvenga sotto il nostro vessillo. Ognuno, intanto, sa di poter essere eroe per un giorno e per qualche migliaio di seguaci, altrimenti detti followers.
L’operazione offre un ulteriore e notevole vantaggio transitorio se si pensa che l’individuazione del mostro fa tutto sommato bene alla nostra autostima. Come ricorda il filosofo portoghese José Gil, nel suo saggio Mostri, l’umanità ha avuto bisogno dei mostri sin dai tempi in cui li disegnava sui mappamondi oltre le Colonne d'Ercole, per sentirsi più umana (in questo senso, assai significativi risultano certi gruppi Facebook come quello dal titolo “Leggere i post di Salvini per sentirsi una persona migliore” al quale qualcuno ha risposto con “Leggere i post dei PDini per sentirsi una persona migliore”).
Certo, l'orrido sociale esisteva anche nella “Prima Repubblica”, quando a governare era una classe politica più abbottonata. Ce lo rivelarono, per un breve momento, i microfoni aperti di Radio Radicale. Ma ormai la gente non è più voce senza volto e senza nome, hanno tutti un profilo con foto e biografia uguale uguale ad Angelina Jolie. Così ci siamo accorti che questa uscita dalla condizione di anonimato regalava inattesa popolarità al figuro che si voleva “blastare” o “bannare” (queste nostre nuove comunità hanno riscoperto i vantaggi dell’esilio, anche solo temporaneo, nella forma dell’oscuramento newmediatico). Il militante di base diventava famoso e benvoluto e il segretario dello stesso partito doveva tenerne conto, l’opinionista di prestigio pure. Il “re dei pazzi” dei riti sacrificali, quello prescelto per essere incoronato e sputazzato, invece di essere crocifisso alla fine della festa rimaneva saldo sul trono, rimandando sine die la catarsi prevista. Tutt’al più la classe politica – che è allo stesso tempo bersaglio e manipolatrice della violenza verbale, come il fabbro delle società antiche, il riverito e disprezzato costruttore di armi citato ancora da Girard – cadrà vittima della superstizione del gregge solo quando sullo stesso gregge si abbatterà una sciagura esterna, che nelle società complesse e fragili come le nostre può non essere la peste bubbonica o il maremoto, basta una caduta del Pil o un'impennata dello spread.
In questo raffinato gioco all’apocalisse, in attesa della catastrofe totale, non manca la semina di cadaveri sacrificali meno metaforici. Ci sono e sono altrove, fuori da ogni schermaglia virtuale che li cannibalizza. Molti giacciono in mare e li hanno mangiati i pesci. Le migrazioni purtroppo ne offrono a iosa, a nessun dio. Si potrebbe rintracciare l’eziologia della nostra vergogna nello speronamento della Katër i Radës, episodio della nostra storia recente, un po' prima di Salvini, ma non prima della Lega. Nanni Moretti gli dedicò una bella e triste scena di Aprile, denunciando l'assenza delle autorità, anche solo per chiedere scusa e rendere omaggio ai morti. Per essere precisi bisogna dire che al governo c’era allora la sinistra (governo Prodi), mentre i leghisti e le nuove destre italiane erano comunque entrati nelle stanze del potere per restarvi, altro che “turisti della democrazia” (come urlava Berlusconi, un altro che, da destra, era venuto a salvarci dalla fine dei tempi, non a caso si faceva chiamare “Unto del Signore”). Proprio la terza carica dello Stato era allora la leghista Irene Pivetti e, dall’alto soglio della Camera dei Deputati, disse che i profughi albanesi nel canale d’Otranto andavano ributtati in mare. Detto fatto, il giorno dopo, una nostra corvetta in servizio nel blocco navale, decretato da un accordo bilaterale con l’Albania, speronò il barcone stipato di migranti facendone morire un centinaio. Era il 28 marzo 1997 e un Venerdì Santo, con il capitano della corvetta che si chiamava Laudadio. Al di là delle responsabilità penali, divise tra la nave italiana e la carretta del mare albanese, sembra davvero un pezzo da manuale girardiano.
La vergogna di Aiace che, folle di invidia e di rabbia, uccide gli armenti e poi si suicida, dipende dal fatto (è ancora Girard a parlare) che quelle uccisioni erano avvenute al di fuori della cornice rituale. Ogni morte violenta, per non schiacciarci la coscienza, deve parerci in qualche oscuro modo giusta o almeno inevitabile, certamente l’ultima. Fino alla prossima.

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