“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 29 November 2017 00:00

“Black Mirror”, perché il peggio deve ancora venire

Written by 

Cresce l’attesa per l’arrivo della quarta stagione della serie britannica Black Mirror che sarà un reboot delle precedenti stagioni e che promette come queste di sconvolgere il pubblico mondiale, rimanendo il più possibile fedele a se stessa. Nell’epoca in cui “se non guardi serie tv sei fuori dal mondo”, tocca – per chi non l’ha ancora fatto, o non ci aveva pensato, o non gliene è mai importato nulla – rivedere le precedenti tre stagioni per capire le ragioni dell’attesa e i motivi dello scalpore.

Black Mirror, ovvero lo schermo nero di computer, cellulari e dispositivi elettronici dietro il quale ci rifugiamo per non vivere più. Per non vivere più, già, ho scritto proprio così perché se siamo in compagnia di un amico, di una persona cara o di un semplice sconosciuto e preferiamo un display colorato e sonoro, ma artificiale alle naturali curve degli zigomi di chi ci sta di fronte o al suono della voce umana, alle sue storie, alle parole con le quali potrà stupirci o annoiarci (da non sottovalutare l’importanza della noia come fondamento della crescita), beh evidentemente abbiamo perso di vista qualcosa.
Nei giorni in cui l’attesa per i prossimi episodi sale e viene fomentata dalla diffusione dei trailer di alcuni di questi, si provi quindi a capire le ragioni del successo: siamo davanti ad una serie che nel 2012  ha vinto un International Emmy Award come “Miglior miniserie televisiva” e che nel 2017 si è aggiudicata con l'episodio San Junipero della terza stagione l'Emmy Award come "Miglior film per la televisione”. L’Emmy Award come miglior film ci aiuta subito a comprendere un aspetto caratterizzante della serie: ogni episodio è a se stante, un piccolo film, un lungo-cortometraggio che in comune con gli altri ha l’ideazione e la produzione di Charlie Brooker per Endemol.
È dunque questa una serie antologica in cui i vari episodi (ognuno con una fotografia di immensa bellezza e potenza) non sono mai legati tra di loro, dal momento che cambiano di volta in volta personaggi e storie lasciando che ad unirli sia un unico fil rouge: il progredire delle nuove e più assurde tecnologie accanto ai diretti effetti collaterali e devastanti che queste comportano sul genere umano.
Ciò che stupisce, ma che in realtà non stupisce la mente di un pubblico attento e incline alla riflessione, è come tutte le tecnologie proposte siano assolutamente plausibili e realizzabili nel giro di qualche decennio, poco meno, poco più.
Non potremo entrare nel merito di tutti gli episodi, sebbene la serie si componga talvolta di soli tre capitoli (come proprio la prima stagione), ma analizzeremo alcuni di questi, provando a comprendere il punto di non ritorno, nel tentativo di evitarlo.

Torna con me
Martha perde in un tragico incidente suo marito Ash; non riuscendo ad accettare il lutto decide di utilizzare un nuovo servizio di cui ha sentito parlare, un software che permette di venire in contatto con i defunti. L’escalation con la quale Martha si chiude sempre di più nel dialogo con il presunto Ash con il quale chatta o parla al telefono è allarmante e si conclude con la sua inevitabile morte spirituale. Ma come è “nato” il nuovo Ash? Da ricerche comparate, dati elaborati, notizie e tracce di Ash reperite dai suoi profili social, dalle sue email, dalla attività svolte in rete, insomma da ogni impronta che l’uomo ha lasciato sulla tastiera.
Ma Ash nonostante somigli molto ad Ash, dia le risposte che presumibilmente lui darebbe e fa quello che lui avrebbe più o meno fatto (si arriva al paradosso in cui l’azienda produttrice del software decide di vendere anche manichini dalle sembianze del defunto, ovvero presunti esseri artificiali che camminino e parlino), non è Ash e Martha nei pochi momenti di lucidità lo sa e lo rifiuta. Ecco un nuovo paradosso. Non più l’elaborazione della morte di suo marito e quindi l’accettazione del lutto, ma l’elaborazione che quel manichino non sia suo marito.
Non erano più belle le donne vestite nel nero del lutto di certi paesi del Sud?
E le nenie mortuarie delle nostre nonne non erano forse più affascianti?
Siamo nell’epoca della tecnologizzazione di tutto: Her di Spike Jonze ci aveva già insegnato a parlare e fare l’amore con la voce di un software, Siri dell’iphone ci ha già garantito da anni un’amica dotta e onnipresente alla quale si può chiedere tutto, La corrispondenza di Tornatore ci aveva già spiegato come i morti continuino a parlare con noi presunti vivi, Black Mirror ci dice oggi quanto un giorno soffriremo perché un software non è abbastanza sviluppato da riportare in vita i morti.
Se invece imparassimo a lasciare che i morti muoiano davvero? La loro anima è libera e vola alta nel cielo, rigetta catene, non ha più bisogno di noi. Triste, ma vero.

Orso bianco
Victoria si risveglia e non ricorda più nulla. Tutte le persone che le sono intorno si rifiutano di parlare con lei, anzi non fanno altro che inseguirla e riprenderla con la telecamera del cellulare. Ad un certo punto viene inseguita da un uomo che vuole ucciderla; comincia una serie di peripezie in cui la donna incontra un’altra donna che la aiuta a scappare e a mettersi più volte in salvo. Il dramma continua, Victoria è sempre più spaventata dagli avvenimenti e dall’immagine di una bambina che le torna sempre più forte nella mente e che lei crede essere sua figlia. Solo sul finale si scoprirà che quella è la bambina che il suo compagno ha rapito e ucciso e la cui morte è stata ripresa dalla telecamera del cellulare dalla stessa Victoria. Il cerchio si chiude, la messinscena organizzata dai gestori del distretto penitenziario nel quale si trova la donna termina con la rivelazione dei fatti alla donna stessa davanti al pubblico astante che ha partecipato a tutte le scene con le riprese dal cellulare.
Così tutto riprende da capo; Victoria viene riportata nel set iniziale, sottoposta ad uno shock elettrico legata ad una sedia che le annulla tutti i ricordi.
Victoria si risveglia e non ricorda più nulla.
Ricomincia tutto da capo.
L’episodio ha del sadico e il progresso è qui, più che mai, un regresso a tutti gli effetti; è il ritorno di tutto ciò che abbiamo combattuto nei secoli: è la vittoria della legge del taglione, dell’occhio per occhio dente per dente sul principio nobile, ma fragile, della pietas. A farne le spese di tutto questo uscendone chiaramente sconfitta è l’umanità e ogni principio riabilitativo della pena, ogni tentativo di proteggere Caino.

Ricordi pericolosi
Nel prossimo futuro tutti saranno dotati di un microchip che memorizza tutto ciò che fanno, vedono e sentono. La fine del genere umano, delle relazioni, ma soprattutto della spontaneità.
Colleen sospettando il tradimento di Ffion rintraccia nella sua memoria tutti i gesti, gli sguardi e le prove che confermino ciò che lui crede.
Inevitabilmente i suoi sospetti si trasformano in dati di fatto che Colleen proietta sullo schermo dal momento che i ricordi possono essere rivisti nella propria mente o su un supporto esterno.
Che cosa ci ha guadagnato Colleen? È impazzito dal dolore e dalla rabbia e soprattutto ha smesso di ragionare. Il delirio si è impossessato di lui.
Una volta esistevano le agenzie di investigazione per giungere a risultati come questo e forse per i nostalgici, un po’ retrò, un po’ noir, era tutto molto più affascinante. Oggi Facebook, Instagram & co. semplificano il tutto e garantiscono la scoperta di tradimenti e personalità nascoste.
Ma così è tutto più triste, l’amore è più triste, parlare di like “tattici”, commenti ad hoc, post di canzoni mirati, poesie postate e mai lette, è più triste.
Avevamo un grande potere nelle mani: grosse piattaforme online con cui condividere pensieri, riflessioni, idee rivoluzionarie, potevamo organizzarci in rete e scendere nelle piazze insieme, potevamo essere migliaia e migliaia, potevamo cambiare il mondo, invece abbiamo preferito creare la più grande bettola virtuale di tutti i tempi, dove se scrivi una riflessione più impegnata sei una persona pesante, se condividi un pensiero che vada oltre le dieci righe, sei fuori dal mondo e quasi ti senti in dovere di giustificare in testa o in calce le ragioni della tua prolissità.
È la fine della poesia: a confronto con il deserto e l’aridità del virtuale, viene da pensare a quanto fossero belle, ma molto più belle le case chiuse di un tempo con l’odore di sesso e sudore dietro le persiane abbassate.
Che fare a questo punto?
Forse si potrebbe tentare un ritorno al sudore e all’amore senza cellulare alla mano, senza aver prima controllato l’altrui profilo Facebook. Si potrebbe ipotizzare una rinascita della magia dei rapporti e della scoperta dell’altro dove la fiducia è alla base delle cose, dopotutto ogni relazione è un atto di fede, se non c’è fede non c’è storia, ma solo ossessione e vacuità.
Qual è dunque la lezione che possiamo trarre da Black Mirror?
La domanda è lecita data la visione apocalittica e alquanto catastrofica che la serie tv propone; e pensare, tra l’altro, che fino a pochi decenni fa il massimo che si potesse ipotizzare era di essere continuamente spiati e manipolati da un Grande Fratello di orwelliana intuizione.
Viene da pensare senza dubbio che il peggio deve ancora venire, ma anche che noi possiamo ancora spengere il telefono, lasciarlo a casa, prendere per mano la persona che amiamo e passeggiare nel parco.
Se ci va possiamo adottare un cane o un figlio e al figlio insegnare che la tecnologia è solo un’estremità del mondo, prima c’è l’Umanità, il più bello e il più brutto spettacolo di tutti i tempi.

“Dopo tutto c'è soltanto una razza: l'umanità”.
(“After all there is but one race – humanity”).
George Moore, The Bending of the Bough, 1900

 

 


Black Mirror
Ideato e prodotto da
Charlie Brooker
produzione Endemol
paese Regno Unito
lingua originale inglese
colore a colori
anno 2011 (in produzione)
durata stagioni 1 e 2: 40-50 min.; speciale di Natale e stagione 3 60-90 min.

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook