“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 02 February 2017 00:00

Non si recensisce mai abbastanza

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Gennaio è stato il mese della fiera. Sì, quella di Bologna. Ci penso da dicembre. Arte e natura era il motivetto di quest'anno. Ho letto tutto quello che è stato scritto: le interviste alla Vettese; le opinioni sulla Vettese; i documenti della Vettese; le didascalie delle foto in cui c'era la Vettese.
E poi, ancora a digiuno: le mappe di ArteFiera; i programmi delle gallerie bolognesi; la mostra del pittore che dipinge come uno che sta a pochi chilometri dal mio quartiere; le critiche mosse alla grafica minimal dell'evento; le informazioni edite tutte dalla stessa casa editrice; quelle due di SetUp, sempre in posa, che si sono ispirate a Kierkegaard (ma chi, Søren, davvero lui?). Alla fine ad ArteFiera non ci sono andato, ma l'ho sognata. Ed è stato divertente.

Ecco un punto su cui mi sono concettualmente soffermato, che avrei maturato a passaggio tra gli stand se alla Fiera ci fossi stato fisicamente, e non per assopimento (da sveglio, questa domanda da Piccolo principe exuperiano, non l'avrei mai fatta, perché è vergognosamente infantile, esistenzialmente irrisolvibile): ma l'arte contemporanea, esteticamente perfetta, ha ancora qualcosa di artistico, tipo quella cosa indescrivibile in una scultura di Fidia, in un dipinto di Tiziano, in una nota di Monteverdi, della Piaf o di gelsomino, che fa lacrimare l'occhio, oppure è soltanto divertimento? Che ben vengano le fiere, le biennali, le quadriennali, le tredicesime, eh. Per le mie aspettative infantili equivalgono al parco giochi, e le reputo essenziali alla formazione di un individuo. Però dov'è finito, in questo secolo, il je ne sais quoi? Lo so che Benjamin ci aveva avvertiti; e nel suo piccolo, pubblicizzando qua e là Warhol, anche Danto lo aveva fatto. Ma c'è nostalgia. E Luca Rossi non fa che ripeterlo ogni giorno (... Luca Rossi è lo Spartaco dell'arte contemporanea).
L'arte non dovrebbe – mai, mai e poi mai – allontanarsi dalla sua missione pedagogica e insurrezionale. (Io, invece, mi allontano un attimo dal discorso iniziale, per completarlo).
L'unico modo per avvicinare i non addetti ai lavori alla bella pittura, dice lo zio Filippo dal suo caseificio, è trasformare le calde pennellate in qualcosa di cinematograficamente freddo. Se qualcuno volesse smentire ciò, dovrebbe smentire i dati registrati dalle gallerie o dai musei: che non crescono o diminuiscono, ma rimangono sempre uguali (anche qui il tono è exuperiano).
Inutile prendersi in giro, continua lo zio Filippo: oggi, una mostra, qualunque essa sia, è fruita perché l'artista è diventato di moda, perché sono stati trovati – dal nulla, e con cadenza giornaliera – suoi inediti, perché ha avuto un'abbondante promozione, perché gli interessi che la "spingono" sono fondamentali all'alta finanza. Anche se quella pittura, poi, non vale le cornici che la cingono.
Nulla è perduto. In queste mostre – avendo tempo libero, poiché da osservare, oltre le pareti intonacate di fresco, le calze delle hostess e lo spumante, c'è poco – l'argomento più divertente è cercare gli elementi esoterici che gli organizzatori hanno seminato per le sale; e ce ne sono eccome, soprattutto se la storia dell'umanità ricca (di quella povera chi se ne importa) sta attraversando un momento "sentimentale" difficile. Ma la pittura, dice stavolta il libro di storia dell'arte delle superiori (quello che costa molto meno dell'Argan, adottato dalle scuole di periferia come la mia), se è veramente bella lo sarà anche senza push-up, senza il curatore eccelso e senza l'ordine maniacale della sobria perfezione e isterica immunizzazione (non so se il libro lo dice veramente, ma dovrebbe dirlo). A Milano, pochi mesi fa, calpestando il velluto dei bei palazzi insomma, ho avuto questa impressione.
Dalle sale oniriche della Fiera a qualche giorno prima, indietro nel tempo. E così cambio argomento. Ma il nesso – nascosto – c'è. Ed è sempre l'arte e la natura.
Le uniche proiezioni del documentario che narra di Segantini e delle sue opere, in Sicilia, e per quello che ne so, sono avvenute a Palermo e a Catania (nella mia città non sarebbe stato possibile, poi vi spiego...). Tra le due, sono stato nella seconda. E ci sta anche: la scenografia notturna dei barocchismi etnei, della carne arrostita in strada, dell'aria da metropoli tanto mediterranea, della magnetica pietra vulcanica, si è legata alla tavolozza luccicante del pittore, odorosa dei campi in pascolo, e ha rivestito di fascino una serata caratterizzata dalla passività della fruizione. Sì, passività. Ammetto il mio limite: non capisco come possa risultare affascinante una disciplina tecnica chiamata cinema. Però i due euri imposti dal governo, e quelle masse del mercoledì in attesa di obliterare il biglietto per assistere a sparatorie che durante i tg evitano, e per imparare qualche posizione del kamasutra, un po' lo svelano (il giorno della proiezione fu un mercoledì; la bigliettaia, precauzionalmente, avvertiva del costo: otto euro. Avvertiva della proiezione fuori regola).
Per risolvere la questione, al Cinema Alfieri, lì dove il Segantini da dimenticato è diventato star, ci sono andato armato; e cioè in compagnia di V., fanciulla che ha deciso di campare facendo l'attrice di teatro. Insomma, un antidoto (un'attrice del palco, vivente) per non sentirsi eccessivamente preda di un lenzuolo bianco (cadaverico) sul quale un proiettore spara luce calda.
Tuttavia, c'è da essere contenti. Per fortuna, di Segantini, dopo la megamostra di un paio di anni fa, nonostante lo stordimento del cinema, in cui tutto è metallico, tranne le poltrone morbide, che attutiscono con discrezione le flatulenze, ne è stato rispettato il carattere (il documentario è da gustare, davvero).
Perché ce l'hai con le pellicole?, chiede il curioso. Il rischio che si produce, quando qualcuno decide di far recitare un pittore, è snaturarlo dal suo contesto, dunque trasformare un essere umano in un mito contemporaneo, romanticamente hip, al quale vengono addossate vicende che forse lo sceneggiatore avrebbe voluto vivere (di sicuro non l'artista in questione), e che fanno piacere al bohémienne disoccupato del 2000, che magari, nel tempo libero, dipinge anche, e dipingerà finché dieci gallerie su dieci gli diranno che oggi la pittura è cambiata.
Con Frida, per esempio, non molto tempo fa il rischio è stato il suddetto. Ella, dall'oblio dell'America del Sud, è approdata al sole sbiadito dell'Occidente; e oggi ci troviamo invasi da amanti improvvisi (improvvisati) della pittrice come di cachi-mela nei fruttivendoli, ma senza un perché. Non è la spontaneità, o il sapore dolciastro e croccante in un opera che rende artisti; mi pare.
Comunque... Bello Segantini. Uno degli ultimi interessanti pittori apparso in un epoca, l'ultima interessante epoca, in cui l'arte aveva ancora dei sogni, un'idea da raccontare, e la bellezza era la conseguenza dello splendore. Poco dopo, infatti, l'arte decise di impiccarsi dentro un orinatoio rovesciato, e regalarci un Novecento bizzarro: il quale non sappiamo bene se metterlo nell'umido o nel secco (tra meno di un decennio troveremo l'arte distesa sul lettino di uno psichiatra).
Poiché questa non può essere ritenuta una recensione a chi o cosa (o forse sì? E poi mica c'è una procedura professionale! La recensione, essendo coscienza commossa di ciò che esteticamente è stato vissuto, è bella proprio perché non ha schemi), si continua maleducatamente aggiungendo informazioni biografiche, almeno per concedersi con un finale, non per altro. Rispettando fedelmente dei principi olistici (ma quanto è brutta questa parola? Brutta quanto quelle parole che hanno sempre in bocca gli architetti, come serendipità o resilienza).
La serata della proiezione si concluse presso un ristorante vegetariano (vi chiederete: ma che senso ha? Beh, in una città in cui mangiano i cavalli ha senso ed è segantianamente anticonformista), cibandosi di cose incomprensibili e impronunciabili, ma immancabilmente bio, eco e slow, il tutto anticipato da una domanda dell'attrice, la quale desiderava sapere se fossi sereno (e prima di domandarmelo lo ero); pensando all'imminente Biennale di Venezia; pensando all'indecifrabile Simmel, che scrive: “Il primo conflitto e la prima unificazione sorgono per la coscienza umana fra l'io e il tu”; pensando al prossimo vincitore di Sanremo; pensando ad Artemisia Gentileschi che è a Roma e mi aspetta (prima che le dedichino un altro film); pensando a Pomeriggio Cinque, alla sua ontologia del quotidiano e alla décroissance del pensiero; pensando alla lite tra rapper, o quella tra Sgarbi e i tre che cantano per le giovinette isteriche, che ricorda vagamente il Paragone delle arti (in Italia siamo ancora al Rinascimento); pensando a Brunori Sas; pensando, inevitabilmente, a Melania, che è oggetto dei pensieri di tanti; pensando all'artista dei manifesti di Torino; pensando all'Abruzzo; pensando a Catania notturna; pensando al ritorno ad Agrigento: città che si candiderà a capitale della cultura – non sto scherzando, ripeto, non sto scherzando –, in cui non esistono recensori o teatri contemporanei, se dichiari di essere anarchico non lavori, e gli abitanti sono meno folk, ma sicuramente molto più maleducati e inaffidabili (tutto l'anno non fanno che programmare cineforum!). Il tutto leggendo Igor Sibaldi.
Il giorno successivo, svegliatomi con i gorgheggi dell'attrice, e sorpreso di aver trovato una tavola imbandita per colazione e un suo augurio scritto su carta, andai a una seduta di meditazione, guidata da un grande omino, il quale anche lui mi pose una strana domanda, e cioè perché fossi chiuso. Evidentemente è arrivato il momento di farmi visitare.
E fu durante il viaggio di ritorno in autobus, per le strade dell'entroterra siculo sospese nel vuoto e che collassano di continuo (auguro a pochi di percorrerle), in compagnia di un viaggiatore che lamentava ogni fastidio con le gambe poggiate sul divano dirimpetto (i neri, diceva, circolano liberamente, ti mettono una bomba, e poi valli a catturare; i prodotti del supermercato costano un euro, tutto un euro; la politica italiana fa schifo, che schifo la politica italiana; e gli italiani?, bleah, che popolo!), sì, fu durante il viaggio di ritorno che sognai la Fiera. A fine esposizione, in fondo a un corridoio in oro, le cui pareti erano adornate dai portafogli dei collezionisti, e non dai dipinti, nulla di più distante dalla natura, con la bacchetta da maestrina fascista, vestito da Cenerentola, mi apparve Freud il quale, completando un discorso iniziato chissà quando con un gruppo di broker saltati fuori da un film di Meyer, aggiungeva: “I sogni erano semplici e palesi realizzazioni di desideri” (se non ci credete, cfr. S. Freud, Il sogno, Newton Compton Editori, pag. 59). Nel frattempo, in un momento non bene identificato del sogno, un moro, a Venezia, si uccise. “Abbiamo ucciso Otello”, sostiene lo zio Filippo con rabbia. Risolveremo costruendo un muro. Oppure, come sempre: votando.
Ultimi appunti. Ciò che vi è di buono qui in Sicilia, a parte il nascosto sapore della massoneria che disturba, sono le rosticcerie e le enoteche. E se le unisci entrambe fai centro. Puoi anche cenare per strada, finché il clima lo consente (e per circa dieci mesi lo consente), e aspettarti da qualche dolce vecchina un sonoro “Buon appetito” (così ho fatto ieri, osservando i consiglieri comunali sbevezzare caffè prima di entrare in aula).
Nell'isola, se i consigli comunali avessero il curioso appetito del gastronomo, potremmo vivere di cucina, e non di turismo (il quale, oggi, fa fatica a trasformarsi in sostenibilità, ed è eccessivamente "relazionale"). Ma poiché non c'è altro che la noia, il diletto maggiore rimane la lettura e RadioTre: praticata da pochissimi, la prima; ascoltata da ancora meno, la seconda. (Sia chiaro: i romanzetti di nessun spessore, delle case editrici ricche, sono letti; il problema è che i libri importanti fanno da mensa alle tarme).
Per caso, davvero per caso, ho trovato pochi giorni fa un libriccino, edito da Mimesis, e scritto da Franco Ricordi, intitolato Filosofia del bacio. In alcune pagine l'ho reputo una naturale e borgesiana continuazione di un altro libro, terminato da un mese, e che ancora mi ribolle dentro: Della seduzione, di Baudrillard, edito da SE. Ricordi, che, ricordiamo (non intendevo giocare con le parole) è anche regista teatrale e profondo conoscitore di Shakespeare, espone una mappa "geopolitica" (mi pare sia di moda questa parola) del bacio, dividendo la tesi in tre epoche. “Che senso possono avere un teatro e una letteratura dove non si realizzi ovvero non si argomenti mai, in maniera decisiva, sul tema dell'amore?”, domanda il filosofo a pagina 80.
In biblioteca, leggendo il mio libro (la biblioteca non compra saggi così belli), proprio mentre stavo osservando la soavità michelangiolesca della fanciulla dirimpetto, iniziavo a interessarmi alla terza epoca, e venivo informato da un ex militante di Lotta Continua della proiezione di un documentario. Trattandosi di cinema, anche in questo caso ho sfoderato un'arma: la compagna, questa volta, è stata un'avvocatessa (non si sa mai).
Bigotta la nota del critico, il quale non ha scritto ciò che non ci si aspetta dalla critica, ma il contrario (mai analizzare un'opera con la stessa logica della veglia). Per fortuna il Wolfango, un delizioso localino al centro storico, offre un amaro alla cannella e al peperoncino che anche cromaticamente vale i contrasti dei resti tufacei del palazzo in cui, annuncia la targa, dormì Goethe (stranamente non si tratta di Garibaldi!).
C'era una galleria, nello stesso palazzo. Chissà che mostra adesso che è chiusa.

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