“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 12 December 2016 00:00

Loguercio: un ponte per l'Appennino meridionale

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Il lunghissimo titolo del concerto spettacolo di Canio Loguercio, Studio per la messinscena di uno smarrimento fra l’Appennino lucano e una canzone d’Ammore, contiene già gli elementi necessari e sufficienti per comprenderlo e parlarne. L’esibizione è una sorta di rappresentazione a più voci e di più mestieri, tratteggiata ma intrigante.

Trattasi di uno studio, come il titolo suggerisce. La parola studium, in latino, ha un’accezione dinamica: significa applicazione a un argomento, aspirazione alla conoscenza e all’appropriazione (nel senso di comprensione ed acquisizione) di una materia, di un elemento. Lo studio non è indottrinamento statico, ma cammino intessuto di varianti e incontri, in questo caso semantici, tonali, geografici, storici, visivi, canori, figurativi. Questo è un piccolo, intenso viaggio, ancora in itinere. Ci sono diversi piani, diversi stili, diversi sintagmi esistenziali, a raccontare miti e riti dell’Appennino meridionale, particolarmente di quello che travalica i confini di Lucania e Irpinia.
Loguercio viene da un piccolissimo paese del potentino, Campomaggiore, confinante col materano, ed è cresciuto artisticamente a Napoli; rappresenta quindi un ibrido tra micro e macro, tra montagna e pianura, tra storia salda e caos in continuo movimento. I valenti artisti che lo accompagnano, il bravissimo organettista di Gaeta Alessandro D’Alessandro, il poetico archeologo perugino Emmanuele Curti, lo scanzonato e romantico scrittore e giornalista napoletano-casertano Antonio Pascale, i creativi ritagliatori di cartoncini e disegnatori Valentina Gaudiosi e Angelo Cariello, “mettono in scena” (e si torna al titolo dello spettacolo) un tentativo di rivitalizzare, attraverso valori e codici universali come l’amore e l’abbandono, la bellezza e il desiderio, il vuoto occupato sempre più dalla fisicità e mesta maestosità dei monti, e sempre meno dalla carnalità e complicata emozionalità dei corpi, del nostro Appennino meridionale.
E così si alternano sul palco approfondimenti semantici e filosofici, lievi ballate meridiane, immagini di elementi naturali e simbolici, battute sull’umanità e sul singolare, complesso vissuto contemporaneo, vibrazioni musicali ipnotiche. Il tutto ha l’obiettivo di ridestare l’interesse per il sud interno, e di ridestare la sonnecchiante componente umana che ancora popola, per scelta o, al contrario, per mancanza di essa, la dorsale appenninica irpino-lucana. Le canzoni (i segni, le parole) sono tutte d’”ammore”, il tentativo è apprezzabile. Manca però una solida e riconoscibile struttura, è evidentemente, questa, un’opera in fieri, in cui le parti andrebbero collegate più profondamente. Questi monti, questi venti, questi verdi, questi riti arcaici e miti accoglienti vanno meglio esplorati, vanno compresi dal di dentro, vanno detti probabilmente da chi li vive ancora, o li ha vissuti sempre, o li desidera vivere di nuovo. Queste storie devono tornare a vivere non soltanto nella memoria che è amore – come giustamente dice Curti – però anche passato, ma soprattutto in un rinnovato presente, altrimenti rischiano di diventare lettera morta, muscolo ipotonico che rischia di atrofizzarsi.
Se la bellezza non serve, e l’”ammore” è dolente, si deve forse partire dal conflitto, che, come viene sussurrato sul palco, serve per spostare i limiti. L’Appennino lucano e quello irpino, adiacente, come i due fossero un unicum orografico ed allegorico, sembrano addormentati... Hanno bisogno di ritrovare il gusto della conquista, la rabbia sana della rivolta che sola può dare la voglia di riappropriazione politica e antropologica, in primis, del proprio territorio e di tutti i suoi antichi segreti e delle sue lente meraviglie naturali, con l’obiettivo di uno studium volto alla rinascita dell’Italia interna, riserva di valore e di valori, di salubrità e semplici stupori. Bisogna ridare ai figli ed alle figlie dell’Appennino l’Ammore, cioè il senso di giustizia e l’entusiasmo che rendono l’esistenza piena di desideri e spingono a provare a compiere azioni per realizzarli. Se lo smarrimento del titolo diverrà solo lirico, anziché permeare a tratti la percezione della rappresentazione, il concerto-spettacolo ascenderà ad un buon livello.
L’ensemble di Loguercio ci si è approcciato in maniera interessante, meglio focalizzabile, certo, ma l’impegno e la voglia di mettere in primo piano questa parte della nostra penisola di solito alla ribalta solo per i terremoti violenti che sovente, a più latitudini, la attraversano, è degno di nota e le diverse sensibilità degli artisti hanno smosso nel pubblico avellinese languori, sorrisi ed emozioni. Occorrerebbero ora serie riflessioni, condivisioni, sforzi, ide-azioni, a livello politico, per evitare ulteriori evacuazioni di persone, che sono anche drammatici svuotamenti di senso e di storia.

 

 

 

Laceno d'Oro
Studio per la messinscena di uno smarrimento fra l'Appennino lucano e una canzone d'Ammore
concerto spettacolo di Canio Loguercio
con
Canio Loguercio (derive sentimentali), Alessandro D’Alessandro (paesaggi sonori), Emmanuele Curti (stratigrafie), Antonio Pascale (geografie intime), Valentina Gaudiosi e Angelo Cariello (tracciamenti)
durata 1h 30'
fonte immagini profilo Facebook dell'artista
Avellino, Auditorium Liceo P.E. Imbriani, 8 Dicembre 2016

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