“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 29 November 2016 00:00

Voce del verbo viaggiare

Written by 

– Per tutti i botanici da marciapiede.

Alla vigilia del mio primo viaggio da sola sento agitarsi dentro di me un entusiasmo nuovo, una febbre diversa che mi espone completamente, mi rende vulnerabile e come in tutte le esperienze nuove fa capolino la paura. Da quando ho memoria il modo più naturale per vincere il timore verso qualcosa di ignoto è sempre stato, per me, dare una forma, attraverso le parole, l’elaborazione di frasi, a questa paura. Che le parole fossero mie o di altri, non ha molta importanza, rimangano comunque i chiodi più resistenti con i quali ho inchiodato al muro le angosce e i dispiaceri. Non è un’esorcizzazione, ma un semplice modo di circoscrivere in una definizione esatta quello che mi sembrava e mi sembra il più grande ostacolo alla vita, un modo per guardare in pieno viso quello che mi terrorizza o mi ferisce, come fosse una persona da capire e non un mostro informe dal quale fuggire. Ho costruito una letteratura sul dolore, l’ho fatto attraverso i libri letti e attraverso stralci di pensieri buttati su carta e custoditi nei miei diari. Perciò oggi conservo una vita scritta, se pur breve, e una vissuta, ed entrambe non potrebbero esistere l’una senza l’altra, quello che ho trasformato in parole mi ha permesso di uscire di casa, non l’avrei mai fatto, probabilmente, se prima non fossi uscita allo scoperto, non avessi trovato parole sufficienti per vincere e partire.

Anche questa volta, ormai avvezza ai meccanismi che mi determinano, mi sono recata in libreria ed ho acquistato un libro consigliatomi da una mia cara amica, anche lei viaggiatrice instancabile e veterana della prima persona singolare del verbo viaggiare. Io viaggio da sola di Maria Perosino ha la pretesa simpatica di voler essere un breve manuale sul viaggio in solitaria che una donna può e dovrebbe fare prima o poi. E non solo uno, ma tanti. Il brio contenuto in questo libro, ma anche le riflessioni intime e meno intime che accompagnano la scrittura, mi hanno fatto sorridere spesso, infondendomi la voglia di fare il conto alla rovescia per l’ennesimo viaggio che mi attende. È una chiacchierata al bar con un’amica girovaga, di quelle che non stanno mai ferme e che quando chiami per i più svariati motivi senti distintamente, dall’altra parte del telefono, il rumore di un treno in corsa o il vociare brulicante delle stazioni o, ancora, l’affanno dell’interlocutrice perché “viaggiare da sole non significa affatto essere sole. Significa che vi dovete arrangiare a portare la valigia, e questo è un problema risolvibile”.
Non aspettatevi un capolavoro che svisceri il sentimento metafisico del viaggio, del tempo e dello spazio, questa guida è condita con tantissimi luoghi comuni, cliché, però niente disturba in fondo, perché il tono della scrittrice è talmente colloquiale e gioioso, pieno di entusiasmo e voglia di fare e scoprire, che soffermarsi a certe definizioni di comodo sarebbe come interrompere un’amicizia decennale solo perché la vostra amica al bar ha detto che gli uomini sono tutti stronzi, dopo essere stata lasciata dal pischello di turno. Quindi abbandoniamo per un po’ quel senso ipercritico che ci contraddistingue e lasciamo che Maria Perosino imbastisca intorno a noi un universo un po’ anomalo, fatto di treni, stazioni, città sconosciute, fiumi e ponti, ristoranti e camere d’albergo, persone e storie che si aggiungono alla nostra, a volte, altre diventano la nostra propria storia, fatta di passato ingombrante e doloroso, futuro incerto ma fiducioso e un presente che è sempre un altrove, un puntino impazzito su un planisfero che nel mio caso si vede dall’alto, perché al sole i miei capelli rossi luccicano come un lampione.

Un viaggio in potenza
Maria Perosino era un Sagittario, un centauro con la smania costante di viaggiare. Lei non si è mai sottratta, quando per lavoro, quando per piacere. Il viaggio è sempre stato un elemento carico di potenziale simbolico attraverso il quale la sua vita si è dipanata e arricchita. Anche quando il viaggio si è trasformato in una fuga dal dolore a causa della morte del compagno, ha trovato la forza di partire e brindare con le sue ombre, con i suoi fantasmi schierati. Ha compiuto un processo che definisce splendidamente: Ora so che in verità quello che stavo facendo era comporre una nuova geografia degli affetti”. Una consapevolezza rimane nella sua mente, a quel tempo, offuscata dalla sofferenza: il viaggio non deve e non può diventare un ripiego. Accortezza non solo nei confronti del proprio dramma, che non merita di essere offuscato o negato attraverso uno stordimento, ma anche nei confronti del viaggio stesso, di questa splendida avventura dalla quale, chi viaggia davvero, non torna mai perché diventa un’appendice del proprio corpo, come gli occhiali per gli occhi. Le espressioni ‘tornare a casa’ o ‘partire’ si confondono, i veri viaggiatori sono ovunque a casa grazie all’incredibile capacità di costruirne una ovunque si rechino. Quindi, dicevamo, inizia a viaggiare, in un primo tempo freneticamente, poi qualcosa cambia, e cambia anche grazie alla solitudine di certi viaggi, senza la quale saremmo più soli, come ci ricorda Emily Dickinson. Ci racconta di quella volta in cui ha consumato un aperitivo a Instanbul su un terrazzo vista Bosforo, all’ora del tramonto. Forse un giorno ci ritornerà con l’amore della sua vita, forse questo soffrirà di vertigini e quindi addio terrazzo, oppure può darsi che non ci sarà più un amore della sua vita; ma una cosa è certa, quell’esperienza c’è, esiste, è sua e resta. La bellezza è preziosa, non bisogna rinunciarvi per nessuna cosa al mondo.

(tra parentesi)
Io ho iniziato a viaggiare con i miei, quando ero molto piccola. I giorni che precedevano la partenza erano saturi di elettricità, il viaggio che mi attendeva era un tour in giro per l’Italia, qualche regione in particolare, un’infinità di chiese da vedere, fontane dai nomi strani, villaggi caratteristici e agriturismi dove dare sfogo a desideri culinari e scoperte che passavano per il senso del gusto. La vecchia Zenit di mio padre, le foto al galoppo sui leoni della Reggia di Caserta, il sorriso di mia madre che mi aiuta a fare un puzzle sul lungomare di Salerno, perché sì, da bambina non compravo cartoline ma puzzle che non potevo attendere di fare a casa, perciò ogni luogo di fortuna per me era ideale. Poi le cose cambiano, ho iniziato a viaggiare senza la scorta di protezione dei miei genitori, ho iniziato per amore, perché se da piccola amavo i puzzle, da adolescente ho incontrato il solo grande amore della mia vita: la letteratura. Attraverso di essa ho immaginato e tra queste immagini ho riconosciuto un altro amore, ho capito che c’è sempre spazio per nuovi amori, il cuore ha più stanze di un bordello (mi disse tempo fa Màrquez); quell’immagine è stata un sogno prima e una realtà ancora più bella del sogno dopo – come smentire gli amori platonici. A Parigi la mia vita è cambiata, dopo di lei anche la paura della morte è diventata più piccola. C’è qualcosa di immenso là fuori ed io mi sono sentita come una radice che affiora dalle rovine, le sere dorate a Parigi non hanno solo riscattato gli anni, ma, cosa più importante, hanno vivificato le ore, i momenti.
La felicità esiste e non lascia indietro niente, non sublima niente, però esiste e la mia è lì, completa, sulla Rive gauche.

Bagagli e alberghi: l’ABC del viaggio
L’autrice aveva un modo tutto suo di fare la valigia, buttava giù un elenco e si atteneva a quello, per non dimenticare niente, ma soprattutto perché il viaggio non è una pausa dalla vita reale, ma una nuova dimensione che si schiude con all’estremità due grandi e massicce braccia che devono stringere affettuosamente il quotidiano, così che il caffè che solitamente prendiamo al mattino, magari con vista Vesuvio, possiamo continuare a prenderlo ugualmente, ma con vista Torre Eiffel. Non c’è e non deve esserci sospensione, ma assimilazione, il viaggio è una cornice mobile che dà nuovi effetti al quadro, è una serie di predicati possibili attraverso i quali la sostanza non solo si dà, ma si crea.
La Perosino non smetteva di leggere quando viaggiava, o se capitava, di lavorare, portava le sue abitudini e i suoi riti in nuove dimensioni con diversi sfondi, forse solo così la vita si impreziosisce con quei movimenti che le sono congeniali, oserei dire indispensabili per non prosciugarsi come una pozzanghera non alimentata. Anche nella scelta dell’albergo o degli ostelli bisogna tener conto, a suo parere, di molti fattori. Tra questi le nostre esigenze che non possiamo ignorare, ma anche la praticità, la posizione rispetto ai luoghi di interesse (interesse sempre personale, quindi variabile), infine la scoperta, la febbre dell’avventura, l’esperienza della diversità. Insomma, l’ABC del viaggio ha un nome proprio per ciascuno, l’unico imperativo categorico è conoscere desideri e bisogni e organizzare il viaggio in modo che il necessario incontri il possibile.

(tra parentesi)

Anche io compilo un elenco delle cose indispensabili da portare in viaggio, solo che è un elenco molto esiguo, consta di: macchina fotografica (fedele compagna), una guida (per la quale non bado a spese, perché spesso grazie a questa ho scovato posti di nicchia, ma magici e imperdibili) e uno zaino che può rientrare nella categoria ‘bagaglio a mano’ dove accumulo senza perizia lo stretto necessario tra indumenti e libri che potrei avere desiderio di leggere o rileggere sotto le ogive di Notre-Dame (vuoi mettere il capolavoro di Hugo letto accanto alla chiesa che lo ha ispirato? Mi sembra di vederla Esmeralda con la sua capretta e Frollo, dall’alto della chiesa che la ama con una passione insopportabile).

Treni, stazioni e città
I luoghi mentre si viaggia sono come i paesaggi che sfrecciano e si dissolvono ai fianchi di un treno in corsa. Luoghi immaginati, che abbiamo visitato probabilmente, ma dai quali adesso il treno ci porta lontani, verso altri posti da scoprire, da vivere e amare. Il treno è romantico per antonomasia, è un tòpos della letteratura mondiale. Leggere un libro in treno per me è sempre stato magico, l’ambiente intorno quasi ovattato e, spesso, chiassoso e frenetico, mi permette di immergermi nella storia che ho davanti meglio che a casa mia. Mi sento io stessa la storia, perché insieme a quella che sto leggendo formo un unicum compatto che si muove e attraversa una parte di mondo. Il treno in corsa mi lancia verso una meta che non mi riguarda per l’intero tragitto, perché che io legga o ascolti musica, che sia triste o felice, dentro il vagone di un treno vivo una porzione di vita ad alta velocità. In un effetto matriosca il mio spazio vitale si riduce e la mente si dilata, il paesaggio che distrattamente o attentamente guardo attraverso il vetro può essere una promessa, un saluto rapido a qualcosa di già vissuto, oppure una nostalgica compagnia di cose bellissime e rapidissime a passare. Il viaggio in treno esaspera ogni pensiero e ogni sentimento, così se sono triste sono ancora più triste perché sento ancora di più il passaggio troppo rapido di fronte alle cose che andrebbero tenute in mano, ma se sono felice sono ancora più felice perché la velocità con la quale il paesaggio là fuori sfreccia abbrevia il tempo che mi separa dalla felicità.
Poi ci sono le stazioni o gli aeroporti, i posti più belli al mondo: mentre si è lì si è già via e non si è ancora altrove. Luoghi di passaggio verso i quali possiamo avere un atteggiamento distaccato (nel senso: è solo l’anticamera della casa che voglio) oppure sentirci in piena confidenza, talmente tanta da viverli come qualcosa che esiste e non come un’eterotopia che ci smarrisce. In una stazione si accumulano i viaggi che ogni viaggiatore sta per intraprendere o ha compiuto, si accatastano, come valigie messe una sopra l’altra, a formare una piramide, un totem simbolico che fa l’atmosfera satura di sensazioni che solo in stazione possiamo riscoprire. Questi luoghi di passaggio ci accomunano, sono un sostrato vivo di senso comune: l’attesa, le speranze, gli entusiasmi, le preoccupazioni, gli incontri e la fine di qualcosa o di tante cose, stanno lì come storie di ognuno e di tutti. In stazione abitiamo un mondo in potenza edificato con i nostri slanci.
Così arriviamo alle città, o comunque alle mete, le destinazioni di queste avventure più piccole vissute tra una stazione e un treno (vale per gli aeroporti e gli aerei).
Maria Perosino scrive: Ora quelle strade sono il vostro quartiere, chi le abita i vostri vicini. Lasciate che catturino la vostra attenzione, consentitegli di attraversarvi e di lasciare la loro impronta, è l’unico modo per non perdersi. E per trovare una sponda per quando ci si perde davvero, e ci si perde non tra quelle strade, ma nel passato e nel futuro, per quando ci si perde nella paura”.
Cosa aggiungere? Le città sono persone, bisogna fidarsi prima o poi, lasciare indietro la prudenza e camminare con gli occhi famelici di tutto, perché solo costruendo una nostra personale mappa, attraverso gli indizi che la città fornisce, potremo ritrovare la strada di casa, che per il momento è e deve essere la nostra stanza d’albergo. Il mondo è una costruzione per lo più abusiva, seguiamo la sua architettura potente, forse così riusciremo ad orientarci per le strade di una città o per quelle più tortuose della mente.

Gli agguati della malinconia
“Del resto, se siete arrivate qui, vuol dire che i vostri piedi non sono d’argilla”.
No, non lo sono, ve lo assicuro. Perciò quando si viaggia da soli può capitare che la tristezza o la malinconia facciano veri e propri agguati alla nostra serenità, ma, per esperienza, questo capita anche (soprattutto) quando si viaggia in compagnia di qualcuno. La tristezza però non è un mostro, soprattutto se la si sa gestire. Poi se siete come me, allora troverete il modo di romanzarla, attività pericolosa, molto pericolosa. Sulle sponde del Danubio a Vienna, in pieno natale, penso di aver sperimentato il sentimento contrario a quello provato sulle sponde della Senna. Sarei potuta fuggire, rifugiarmi nella metro (date le temperature proibitive), ma sono rimasta ad assaporare il gusto amaro di quel momento, aspettandomi qualcosa, un risarcimento poetico da quel fiume che ormai non è più tanto blu, ma rimane comunque il fiume del più bel valzer di sempre. Si, forse ero triste, più di quanto potessi sopportare, ma se oggi porto nel cuore ogni minimo alito di vento, ogni rumore strozzato della corrente, questa fotografia dai pochi elementi, è grazie a quella malinconia, è stata la camera oscura che ha portato alla luce un ricordo, ed io non ho nessuna intenzione di privarmene. Certo un viaggio è fatto di tante cose, e la tristezza spesso non è una buona alleata, soprattutto se non siete abituati a caricarvela senza motivo in spalla ogni mattina. Perciò l’autrice di questa guida dà un suggerimento che a me è sembrato molto prezioso. Non trascuratevi. Se si viaggia in due in dieci o da soli, la cosa importante è non dimenticarsi di se stessi. Come farlo? Partendo dalle piccole coreografie, spruzzare la quotidianità di eleganza, prendersi cura delle cose trascurabili, avere riguardo dei dettagli, viziarsi anche, solo così alla fine lo spettacolo finale sarà l’insieme riuscito di piccoli atti d’amore verso di noi (se viaggiamo soli) o verso gli altri. Quando si viaggia non ci si arrende e non ci si lascia andare alla svogliatezza, esiste un’alternativa a tutto, basta cercarla, basta crearla.

(tra parentesi)
Il grande insegnamento che ho ricavato dai viaggi che ho fatto e da quelli che ho desiderio di fare è che non è mai troppo tardi per innamorarsi ancora e ancora e ancora. Anche se non si ha pratica più di certe cose, il viaggio fatto o programmato è già un innamorato che ci attende.

Il capitale umano
È questo il vero arricchimento di un viaggio. Strade, ponti e fiumi, musei e giardini botanici, colonne greche e escursioni sottomarine non ci daranno mai il quantitativo di bellezza e ricchezza che possiamo ricavare dagli incontri che durante un viaggio collezioniamo. Entrare nella storia di qualcuno, anche solo per pochi minuti, è un’esperienza vastissima, una scorta eterna e mai in esaurimento di vita. Prima cosa da fare, anche se rischiosa, abbandonare qualsiasi difesa o timore, è vero il rischio va sempre messo in conto, ma spesso è ripagato, anzi quello che ne ricaviamo supera di gran lunga quello che abbiamo dovuto cedere. La gente che incontriamo in viaggio non solo è la più affidabile e autentica guida che possiamo desiderare per conoscere in profondità un luogo, ma è anche la voce di questi posti, il coro che ha modulato con le sue esigenze e i suoi desideri la cultura e la società, il vero scheletro sotto strati di cemento, acqua e pietra. A meno che il nostro viaggio non contempli un’escursione nel deserto, dove la natura vince sull’uomo (o quasi, gli uomini che abitano nel deserto avrebbero molto da raccontarci), in una città, paese o villaggio che sia, è l’uomo con le sue tensioni prima individuali e poi collettive che ha modellato e liberato l’armonia della forma dal blocco grezzo. Non si può conoscere fino in fondo, sentire visceralmente un luogo fin quando i suoi abitanti ci restano estranei. Poi, a prescindere dalla nostra sete di conoscenza rispetto a ciò che visitiamo, rimane il fatto inalienabile che siamo comunque uno, in mezzo a centomila, aprirsi all’universo contenuto in una singola persona, appassionarsi alla sua storia, significa intraprendere un altro viaggio, a mio avviso il più bello. Le storie degli altri aprono immense vetrate sulle nostre, la luce filtra e l’aria rinnova, come in un riciclo infinito, la vita. Aver paura di questo viaggio significa non viaggiare affatto, non vivere affatto, significa sorvegliare quell’esistenza fatta per essere condivisa, impreziosita, regalata, rischiata e amata, consapevoli che alla fine andrà restituita. Perciò sgualcitela, non c’è modo migliore che stropicciarla con quella degli altri, a causa degli altri. E viaggiate, quanto potete. Innamoratevi di tutto, non scoraggiate la tristezza, scegliete un ponte dove essere felici e uno dove essere infelici. Cambiate scenografia perché non siamo uomini di cenere, e la polvere di una vita immobile somiglia molto alla cenere.

Incontri, partenze, separazioni e identità.
Per chi è partito senza tornare, senza voltarsi indietro, senza lasciare niente e quel niente pesante nelle tasche vuote.
Per chi è rimasto sull'uscio di una porta a contemplare una valigia non sua, pronta per qualcun altro, qualcuno che una volta andato non avrebbe fatto ritorno.
Per chi non ha potuto fare a meno di partire, nonostante la paura.
Per chi si incontra, si scontra, si unisce come in una stretta di mano amica.
Per chi conosce gli occhi, per chi porta come un segreto gli odori e i suoni della propria terra in un'altra terra, diversa, lontana.
Per chi poi ritorna, per chi non dimentica niente.
Per chi ha imparato il diffidente rito di fidarsi, di stringere, di abbracciare.
Per chi si lascia guardare, per chi non è mai scappato, per chi oltrepassa i confini perché non esistono confini.
Per chi non confonde, ma arricchisce, crea e trasforma.
Per i coraggiosi viaggiatori, per quelli disperati, per quelli che attraversano i mari e quelli che stanno imparando ad attraversare lo spazio esiguo che li divide, semplicemente, da qualcuno.

 

 



Maria Perosino
Io viaggio da sola
Einaudi, Torino, 2012
pp. 144

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook