“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 26 July 2016 00:00

L'insostenibile peso della bellezza

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L'insostenibile leggerezza dell'essere è uno di quei libri che non si nasconde, la sua idea di base viene esplicata immediatamente fin dal primo capitolo, offrendo la chiave di lettura all'intero romanzo.

La storia in sé, o meglio dire, le storie narrate non sono altro che pretesti, i personaggi contenitori confortevoli per promulgare le forti intenzioni filosofiche di cui è permeato il libro. Le riflessioni intense e profonde si susseguono, una dopo l'altra, sulla scorta di caratteri costruiti sapientemente.
Tutto ruota intorno a questi due concetti millenari: pesantezza o leggerezza. Cosa scegliere, come orientarsi, quale adottare e quale indirizzo dare alla propria vita? Soprattutto, dove risiede il vero valore ontologico? A parte il contesto storico in cui si svolgono le vicende, che è favorevole alle speculazioni sulle vite umane, poiché nel pieno di una rivoluzione gli uomini si mostrano in tutte le loro sfumature, accentuando le inclinazioni fino all'esplosione del singolo nella babele collettiva, ma a parte ciò, per rispondere davvero alla domanda "cosa sia meglio, pesantezza o leggerezza" bisogna capire, in primis, cosa ciò significhi.
Kundera si affida a una vecchia guardia della filosofia, partendo da Parmenide fino ad arrivare a Nietzsche con la teoria dell'eterno ritorno. Se ogni cosa è destinata a ripetersi la storia viene depurata dal suo significato, ma questo non le impedisce di assumere un gran peso, quasi claustrofobico, poiché priva di alcun valore inerente all'unicità assume quella cadenza ossessiva che la rende gravosa seppur irrilevante. La fugacità invece di una vita unica, di una storia unica, ha lo splendido vantaggio di essere leggera poiché perdonabile, come afferma l'autore, la mortalità proietta sulle cose quella nostalgia che rende impossibile una condanna. A questo punto però la domanda è la seguente: davvero la leggerezza è meravigliosa?
Kundera offre questa risposta: solo ciò che grava sulla vita di un uomo come un fardello lo rende più vicino alla terra, perché nell'essere schiacciati rimaniamo a contatto con la realtà, vicinissimi al suolo, al piano orizzontale nel quale abbiamo affondato le nostre radici e dalle quali poi, anche se librandoci nell'aria, avvertiamo un senso di verità materiale senza la quale tutto diverrebbe un'illusione, un sogno.
Nel corso del romanzo troviamo punti di riflessione molto interessanti, come la questione del corpo e dello spirito, la dualità eterna ma anche la stretta e materna vicinanza tra le due dimensioni. Un mondo senza pudore, un corpo nudo come un verme, esposto e in marcia insieme ad altri corpi spogliati sono segno di un'uniformità avvilente, l'unicità e quindi la bellezza del corpo, che secondo Tereza proviene dal dialogo stretto e intimo tra quest'ultimo e l'anima, in un universo simile a un campo di concentramento, evapora senza lasciare traccia. Tereza (una delle protagoniste del romanzo) vive come un'umiliazione l'esposizione del corpo nudo in mezzo a tanti identici, come la perdita definitiva del senso di un essere nelle orge della carne senza individualità. Eppure, solo in seguito, spinta da una forte disperazione e solitudine, si renderà conto di quanto il corpo, pur essendo strumento sublimato dallo spirito, abbia una sua vita propria, una memoria, una volontà, un eccesso di ribellione fisica nei confronti del grande tribunale della mente. Il corpo si spinge ai limiti pericolosi delle cose che vive, risponde a leggi frustrate solo da una cultura centenaria che lo vuole mezzo e mai fine. Forse il corpo ha compreso prima di noi che amare è rinunciare alla forza, ma sia chiaro, forza e non violenza, perché se il gioco di potere non gli appartiene, proprio per la sua primitiva e atavica origine sa rispondere esclusivamente con una vitalità furibonda, più antica della serena legge demiurgica.
Insostenibile alla fin fine non è la pesantezza o la leggerezza dell'essere, insostenibile è la bellezza che si produce per errore, poiché in un mondo ormai cadenzato, esposto e nascosto allo stesso tempo, in un universo strutturato, idealizzato, la bellezza che sfugge ai persecutori è una bellezza tradita e selvaggia, un presentimento e un'eco lontana della vera natura dell'uomo che sempre crea e mai distrugge.

 

 

L’insostenibile leggerezza dell’essere
Milan Kundera
traduzione Giuseppe Dierna
Milano, Adelphi, 1989 (1882)
pp. 336

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