“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 03 May 2016 00:00

La città delle contraddizioni (parte III): la perla nera

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La terza e ultima tappa del nostro viaggio si coagula intorno alla città di Braşov. Snodo obbligato lungo la via ben più gettonata verso Bran e il suo letterario castello, Braşov ha una storia lunga secoli che si dipana attraverso lotte, incursioni, incendi.

Mentre passeggio per le vie ordinate su cui si affacciano edifici colorati e remoti come quelli di un quadro, ripenso agli eventi che hanno fatto la storia della città. Stento a credere che queste tranquille vie dai colori pastello siano state un tempo testimoni di vessazioni e soprusi, come quelli perpetrati dagli ungheresi e dai sassoni nei confronti del popolo rumeno, costretto per questo a vivere al di fuori delle mura e a dedicarsi solo all’agricoltura, mentre in città nascevano tipografie e biblioteche, istituiti superiori e periodici.
Il freddo è pungente: un soffio gelido si leva dalle cime imbiancate che sovrastano la piazzetta illuminata dal solecchio del tardo pomeriggio, troppo debole per riscaldarci davvero. La scritta a caratteri cubitali con il nome della città, di hollywoodiana memoria, occhieggia da un versante spruzzato di neve, ricordandoci che nulla è originale e la naturalezza di un luogo è solo apparenza.
Scaccio quella squallida sensazione di posticcio che mi assale ogniqualvolta poso gli occhi sulle lettere bianche che compongono il nome di un luogo, sulla linea irregolare che tracciano sul versante, e mi lascio catturare da un edificio che sembra sovrastare tutti gli altri: un enorme gigante dalle pareti di un grigio scurissimo, in cui mattoni di diverse tonalità si affastellano gli uni sugli altri fino a sparire, assottigliatisi in guglie e pennacchi. Si tratta della Biserica Neagră, la Chiesa Nera, così chiamata perché affumicata dai roghi del 1689, quando la città rifiutò di sottomettersi alle forze austriache. Prima di allora era solo una chiesa gotica dal nome molto meno affascinante, sebbene da molti considerata la più grande d’Oriente.
L’edificio è effettivamente mastodontico, sembra un meteorite atterrato tra le ridenti casette di un villaggio ameno; vengo catturata dall’austerità delle sue forme che poco concedono ai verticalismi del gotico puro, dall’insolita facciata spoglia e lineare che solo al confine con il cielo sembra concedere qualcosa a questo stile rapsodico. Purtroppo la biserica è chiusa; continuiamo ad aggirarci nei pressi delle sue pareti bruciate, affascinati da questa costruzione fuligginosa che, a dispetto della sua funzione, sembra levarsi direttamente dalle profondità dell’Inferno. Alberi spogli e dai rami contorti, anch’essi scuri e vagamente sinistri, si intrecciano a formare arabeschi al tempo stesso affascinanti e tetri. Lo stesso edificio ha un fascino simile, ha una bellezza remota e minacciosa, apparentemente tranquilla nel suo raccoglimento architettonico. Credo che la Biserica Neagră rappresenti lo spirito di questa remota regione tra i monti meglio dei famigerati castelli: è esattamente con questa atmosfera che la Transilvania popola il mio immaginario e senza dubbio è così che continuerò a ricordarla. È come se fosse un emblema perfetto anche delle caratteristiche di questo popolo, la cui peculiarità e bellezza culturale si trovano proprio in ciò che sceglie di non mostrarti. La Transilvania per me è – e sarà – una perla nera incastonata tra i monti innevati, ma martoriati dal gusto discutibile cui è piegata la “facciata ufficiale”.
Lasciamo questa chiesa dal fascino quasi letterario e continuiamo a passeggiare, attraversando i giardini curati e la folla fumosa catturata dagli psichedelici colori di alcune auto pronte a correre un rally. Affrettiamo il passo: l’ultimo treno della giornata sta per partire. La stazione non è troppo lontana, ma le deviazioni imposte al traffico in favore della ci fanno perdere tempo. Arriviamo in stazione che stiamo praticamente correndo: abbiamo preso un taxi per percorrere l’ultimo paio di chilometri, ma siamo consapevoli di doverci comunque sbrigare, in quanto il biglietto è acquistabile sono con una decina di minuti d’anticipo rispetto alla partenza del convoglio. Diversamente non ti permettono di “sprecare” soldi in una corsa che non potrai prendere. In lontananza il rombo delle auto da corsa scuote l’aria della città. Ci incolonniamo di fronte alla biglietteria illuminata dalla malsana luce di un neon; un bambino, che non avrà più di cinque anni, giocherella svogliatamente con un bastoncino sottile alto il doppio di lui. Non è la prima volta da quando sono qui che vedo dei clochard, e gli occhi affamati che scrutano le banconote traslucide che stiamo maneggiando per pagare la corsa me ne danno l’amara conferma.   
Questo bambino è troppo piccolo per desiderare davvero del denaro, non è un desiderio che può appartenergli. Io e il mio ragazzo ci guardiamo atterriti e frustrati dalla sensazione di non poter fare quasi nulla; poi lui si volta per darmi libero accesso allo zaino che porta sulle spalle e mi sussurra: "Prendi il cioccolato. Il Ritter Sport alle nocciole".
Fa cenno al bambino di attendere. In men che non si dica, il piccolo essere dagli occhi profondi come pozzi stringe una barretta intonsa grande quanto la sua testa. Se ne va felice, anche se intimidito, indicando debolmente col bastoncino che ha stretto per tutto il tempo quel tesoro dall’aria squisita.
È così che voglio andarmene da qui: me ne vado con l’immagine di un bambino che stringe una barretta di cioccolato.

 

 

Leggi anche:
Eleonora Cesaretti, La città delle contraddizioni. Parte I (Il Pickwick, 2 aprile 2016)
Eleonora Cesaretti, La città delle contraddizioni. Parte II (Il Pickwick, 28 aprile 2016)

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