“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 17 April 2016 00:00

C'è da andare al manicomio

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Gli O.P.G. chiusi lo sono sempre stati. Grossi muri e reti di recinzione proteggevano la “gente normale” dai “matti”. Spesso, l’unica follia dei rinchiusi era quella di essersi trovati soli al modo. La solitudine era una colpa nei confronti di una società che avrebbe dovuto badare a una persona abbandonata, randagia, magari un minore, magai una donna. Questa e altre piccole o grandi colpe, come aver tentato di rubare un pacchetto di sigarette o essere omosessuale, tenevano le persone rinchiuse in celle piccolissime a scontare pene terribili.

I detenuti degli O.P.G. erano cavie di terapie mediche, venivano regolarmente drogati, legati ai letti o alle sedie, violentati. Le donne rimanevano incinte in reparti di sole donne. A tutti era tolta qualsiasi possibilità di comunicare all’esterno quello che stavano soffrendo. La città che si muoveva fuori dalle mura di recinzione poteva sentire solo le urla di chi dentro veniva torturato ogni giorno.
Oggi l’ex O.P.G. di Sant’Eframo a Materdei è aperto. Di reclusi non ce ne sono più. Un gruppo di ragazzi, per la maggior parte studenti universitari, ha occupato l’enorme edificio dismesso nel 2008, con l’obbiettivo di farne un luogo di libertà. Ogni giorno, negli spazi occupati, tutti i cittadini possono entrare e svolgere svariate attività: dall’arrampicata sportiva al ballo, dai laboratori di disegno a quelli di fotografia e poi lo studio per gli adulti e i bambini e le chiacchierate, i caffè, i concerti, il teatro e tutto gratuitamente. Ad attraversare i muri non sono più le urla e il dolore, adesso le pareti sono colorate e custodiscono risate e gioia e soprattutto riconoscono parole nuove, pronunciate ad alta voce da ogni bocca, non più costretta a stare zitta ma libera di parlare ed esprimere pensieri. 
La scorsa domenica di parole nel teatro dell’ex O.P.G. di Sant’Eframo se ne sono dette molte. Claudio Ascoli, direttore artistico della compagnia teatrale Chille de la Balanza, ha accompagnato le tante persone presenti nella passeggiata teatrale C’era una volta... il manicomio. Con immagini proiettate, musica e il racconto dei suoi studi e della sua esperienza personale, gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari di tutta Italia sono stati aperti e svelati.
Il racconto non ha tralasciato nulla. Ad orecchie nuove perché prevalentemente di giovani, si è parlato dell’attività degli O.P.G., dall’apertura all’inizio del secolo scorso fino alla chiusura definitiva nel 2015. Come un maestro parla ai propri allievi, Ascoli ha domandato alla platea chi credeva venisse recluso in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario per poi spiegare con calma che solo per il 10% dei detenuti soffriva di disturbi psichiatrici e che l’altro 90% era costituito da poveri, artisti, anarchici, omosessuali, detenuti trasferiti dalle carceri perché non adattati alla vita da reclusi. Tutte persone che entravano con la mente lucida e venivano trasformati in malati di mente. Il racconto delle pratiche eseguite da infermieri che avevano come unico requisito richiesto la prestanza fisica è stato provato dagli spettatori che hanno legato o si sono fatti legare ad una sedia per dimostrare l’impotenza di una persona costretta alla contenzione fisica. E poi l’illustrazione di abitudini più piccole che hanno consentito ad Ascoli di offrire al pubblico un piatto di spaghetti servito soltanto col cucchiaio come facevano negli O.P.G. quando non servivano il brodo con la forchetta. Con sarcasmo Claudio Ascoli ha paragonato passato e presente, sottolineando la nostra libertà di cittadini non più costretti a subire trattamenti inumani per punire colpe inesistenti, non più discriminati perché omosessuali, la fortuna di noi cittadini sempre tutelati dallo stato e protetti da medici e forze dell’ordine ora che gli O.P.G. sono definitivamente scomparsi. Adesso che non esistono più i Franco Mastrogiovanni, i Giuseppe Uva, gli Stefano Cucchi e tutte le altre persone affidate allo stato e torturate fino alla morte.
Poiché la parola fondamentale è “liberazione” e mai l’ambiguo termine “libertà”, Ascoli ha poi raccontato il processo di liberazione dagli O.P.G. per mano di medici come Franco Basaglia o per l’azione di alcuni politici e del P.C.I. In video abbiamo assistito alla felicità dei reclusi quando i cancelli sono stati aperti.
La passeggiata ci ha colpiti più nel profondo quando, usciti dalla sala teatrale abbiamo visitato i cortili e le celle che hanno contenuto centinaia di vite. Una delle esigenze più sentite delle persone rinchiuse da poco tempo o da tanti anni era quella di comunicare e allora gli O.P.G. sono pieni di lettere mai spedite e di messaggi scritti sui muri. Queste parole non lette, non ascoltate, sono state dette ad alta voce da alcuni dei presenti. Poi un grande cerchio, tutti mano nella mano, per dire in silenzio che finalmente quelle parole hanno raggiunto le orecchie della gente.
Le piccole celle hanno una doppia porta di ferro. Quella più esterna ha un foro che permetteva a suore ed infermieri di guardare cosa il recluso stesse facendo all’interno. Quella più interna era a sbarre. Non esisteva privacy, nemmeno per quelli che erano nelle celle singole. Gli O.P.G. erano pieni di suore che gestivano le strutture e guardavano. A Sant’Eframo la cella numero 4 è piena di messaggi scritti sulle pareti. Disperate richieste di uscire. Tra le innumerevoli parole salta all’occhio la dichiarazione “non sono nessuno, non sono né buono né cattivo” o l’osservazione che il diavolo chiude la porta davanti alla bontà e alla virtù e la apre di fronte al vizio e alla cattiveria. Il diavolo personificato nelle suore che percorrevano avanti e indietro i corridoi. Pareti di parole da leggere nell’odore ancora forte di quel luogo. Sul pavimento scarpe, asciugamani, carta igienica. I ragazzi che hanno occupato la struttura e che adesso la gestiscono su concessione del Comune di Napoli, non hanno toccato niente di quella sezione. A rovinare la memoria storica dell’edificio ci hanno pensato il cinema e Gomorra. Per girare alcune scene ambientate a Poggioreale, gli scenografi di Gomorra hanno dipinto di nero porte e cancelli e poi hanno smontato il set lasciando tutto così, senza curarsi di ripristinare lo spazio e riportarlo allo stato in cui l’avevano trovato. Questi sono i modi in cui si cancella la storia e che un giornalista e studioso come Roberto Saviano dovrebbe, invece, tutelare.
La passeggiata tra le celle, nei lunghi corridoi, era segnata da alcuni brani del libro Vito il recluso OPG: un’istituzione da abolire scritto da Francesco Maranta, allora consigliere regionale del P.d.C.I. e impegnato nella battaglia per la chiusura di queste strutture detentive. Il piccolo libro ripercorre la vicenda di Vito De Rosa, arrestato a diciassette anni con l’accusa di avere ucciso il padre. Il ragazzino della provincia di Salerno era andato spontaneamente dai carabinieri per confessare la sua colpa. Il padre era un padre violento che lo picchiava tutte le sere fomentato dalla famiglia che accusava il piccolo Vito di vendere di nascosto l’olio. La famiglia De Rosa possedeva degli uliveti che gli zii di Vito volevano dividersi estromettendolo dall’eredità. Vito è stato condannato all’ergastolo senza nessuna attenuante e dopo qualche anno in carcere è stato trasferito a Sant’Eframo dove la sua reclusione è durata cinquantuno anni. Parlando di Vito, il libro parla della mostruosità degli O.P.G., delle pratiche, delle richieste di internamento da parte dei giudici. Soprattutto si sofferma su quanto difficile fosse uscire da un O.P.G. Nella maggior parte dei casi vi si entrava senza la speranza di uscire mai più. Per sperare di tornare fuori o almeno in carcere bisognava dimostrare di essere guariti ma pratiche come l’elettroshock rovinavano per sempre le menti.
Oggi che queste strutture di detenzione sono state dismesse ma che episodi di tortura sebbene in numero molto ridotto, in Italia continuano ad accadere, la cosa importante è non cancellare la memoria di ciò che è stato. Quando si conquista qualcosa con tanto sforzo, non bisogna mai smettere di lottare per conservare quella conquista. Adesso che Sant’Eframo è aperto ai cittadini bisognerebbe raccogliere le storie, studiare, diffondere le informazioni come Claudio Ascoli fa a San Salvi, l’ex manicomio di Firenze in cui risiede con la sua compagnia teatrale. Soprattutto c’è bisogno che i ragazzi che gestiscono l’edificio stiano attenti con i lavori di ristrutturazione. Oggi la sala teatrale a cui alcuni fortunati reclusi potevano accedere è stata trasformata in una sala teatrale nuova e la cucina è diventata una palestra con parquet e attrezzi al posto di cappe e fornelli. C’è da augurarsi che essi non commettano lo stesso errore dei realizzatori di Gomorra, perché quello che oggi offrono alla città è qualcosa di importante, una visione della vita comunitaria, diversa dalla realtà che va avanti oltre il muro dell’ex O.P.G., una realtà alternativa. Entrare nelle celle è stato però qualcosa di veramente intenso e anche quella realtà di violenza e bruttura in un certo senso vive e deve continuare a vivere come avvertimento. Un solo compito per tutti gli altri, quelli del quartiere e quelli che abitano più lontano: in un modo o nell’altro c’è da andare al manicomio.

 

 

 

 

Passeggiata teatrale "C'era una volta il manicomio"
di
Chille de la balanza
Napoli, Ex O.P.G. Occupato Je so' pazzo, 10 aprile 2016

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