“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 14 April 2016 00:00

Su "Uomini e topi", una riflessione

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“I piani più accurati dei Topi e degli Uomini
Vanno spesso storti,
E non ci lasciano che dolore e pena,
Invece della gioia promessa"
.

(Robert Burns – To a Mouse)

 

Esistono libri destinati a una platea di lettori adulti, quei libri impossibili da comprendere se si è giovani e poveri delle esperienze che servono per assimilare pienamente la brutalità e la tenerezza di certe storie. Ho provato una cosa simile con Il vecchio e il mare di Hemingway, sentivo che l'apprendistato alla fine della vita toccato in sorte al pescatore, poteva capirlo solo chi arrivato, veramente, al termine dell'esistenza si ritrovi nuovamente a disfare e rifare tutto, come una prova immensa che ti colpisce quando sei troppo stanco per riprenderti qualcosa.

Uomini e topi di Steinbeck è un brevissimo racconto, ambientato negli Stati Uniti degli anni Trenta, asciutto e incisivo quanto serve per rendere la delicatezza e la poesia contenuta, ancora più lirica, molto più bella. A parte i temi che vengono magistralmente trattati e che non possono essere mai trascurati da uno scrittore americano, temi quali sono le grandi migrazioni interne al Paese, il residuo odio razziale, la condizione dei lavoratori stagionali negli sconfinati ranch del caldo West, a parte tali questioni il libro è più esistenziale di quanto sembri. Sfrutta motivi caldi e sociali per esasperare e rimarcare la vera condizione umana che riguarda un po' tutti, nessuno escluso. Delimita con un perimetro misero e crudo i caratteri, tenendoli ben stretti nel pugno della miseria, del realismo prosaico. Se fossero queste le condizioni la storia non commuoverebbe, invece affiorano come pesciolini feriti i personaggi un po' tipizzati, ma con una loro saggia collocazione nel contesto che li rende contrari e speculari e per questo parti di un tutto sfumato e variopinto che suscita empatia nel lettore coinvolto.
Il titolo deriva da una poesia settecentesca del poeta scozzese Robert Burns To a Mouse. In modo non troppo articolato Burns si rivolge a un topo, quasi a rassicurarlo che nessuno gli farà del male, si scusa per questa inesorabile divisione che l'uomo ha creato col mondo della natura e alla fine invidia la condizione del topo stesso perché per quanto, al pari dell'uomo, sia costretto a vedere infranto ogni suo desiderio, ogni sua speranza, cercando asilo in luoghi di fortuna dai quali verrà scacciato, il topo non è costretto a vivere col ricordo di un passato doloroso, né a volgere lo sguardo al futuro incerto, spesso già nero ancor prima di essere scorto. Il destino dell'uomo non è felice, non può esserlo, una monade, in mezzo a un mare in tempesta che chiede ragioni continuamente, indebolisce qualsiasi corazza, qualsiasi fortezza, nessun uomo è al sicuro dall'infelicità.
La solitudine, altro tema assillante in tutta la letteratura americana, qui si fa disperata, per il semplice motivo che i protagonisti tenteranno con titanico coraggio di scongiurarla senza successo, lasciando presagire l'ombra lunga di una tragedia amarissima. Nonostante la mia giovane età, l'incapacità di immaginare come possa essere la disillusione e la sconfitta che si traduce in una vita trascinata senza desideri – solo brevi e squallide occasioni di oblio – l'impianto dialogico del racconto è talmente reale, batte talmente bene il tempo naturale delle impressioni estemporanee umane, da coinvolgermi e farmi sentire parte di un mondo al quale sono estranea. Il vero talento della grande letteratura è anche quello di includere la tua vita sconosciuta nelle parole che usa per raccontare la vita completamente diversa di qualcun altro, la sua universalità è sconvolgente, però rassicurante, non è furba come un oroscopo che generalizza e inevitabilmente ti coglie, è sapiente nel non preoccuparsi di altro che non sia la dignità dei sentimenti umani, il loro diritto ad esistere anche se inaccettabili. George e Lennie sono semplicemente due persone che si fanno compagnia, coltivano un sogno, chi con intelligenza chi con l'incanto incosciente del bambino, ma comunque un sogno. Nel Paese dei grandi sogni George si prende cura di Lennie, gigante buono, ma con forti deficit mentali che non gli permettono di stabilire un contatto reale col mondo circostante, relegandolo a una condizione di incoscienza che non aliena del tutto la sua capacità di sentire. George è severo con Lennie, vuole proteggerlo da se stesso, dagli altri che non possono capire quanto di inconsapevole e quindi di non colpevole ci sia nelle azioni dell'amico. Il mondo col suo diritto ferreo e le sue leggi scritte e non scritte deve far rientrare ogni cosa in una dicotomia di giusto e sbagliato, per ristabilire un ordine nel caso fosse perduto o per mantenerlo. Lennie è scevro di convenzioni, di formalità, lui ama toccare e sentire sotto le dita ciò che reputa bello, spesso accarezza fino alla morte animali innocui, come topi o cagnolini, tutto quello che tocca per sentire sotto le dita la piacevolezza di un contatto felice diventa cadavere, muore sotto il peso di una foga buona che non sa dosare la forza e uccide il suo diletto. Al pari dei sogni quando stanno sul palmo della mano e ci scivolano via senza darci il tempo di sognarli, Lennie quando uccide non si capacita e, come è giusto che sia, si infuria contro chi si spegne con questa facilità, contro chi non resiste, proprio lui che è costretto a sopportare il peso della sua corporea bestialità e il desiderio gentile di carezzare la fragile tenerezza delle cose terrene. Lennie non può vivere perché la distruzione che porta è condannata da qualsiasi codice, perciò la sua morte è necessaria, inevitabile, una delle tante cose giuste da fare che fanno sentire gli uomini puri e protettori di qualche strano equilibrio. Nessuno lo sa ancora, ma nel breve futuro Lennie è un vincitore, nel mondo industrializzato, nel Paese della trasformazione nichilistica e della mercificazione, dell'alienazione tecnologica, nel deserto di cemento che sogna il cielo ma lo trafigge, Lennie è la vecchia guardia della storia, il manovale della bellezza, colui che non intende preservarla in teche di plexiglas, ma vuole toccarla, perché solo ai confini di due mondi vivi può nascere il senso di qualcosa.

 

 

 


John Steinbeck
Uomini e topi
traduzione Cesare Pavese
Milano, Bompiani, 1984 (1937)
pp. 119

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