“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 06 March 2016 00:00

Certe strade

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Alla Biblioteca Ambrosiana c’è voluto poco per entrare in contatto. Dopo la laurea mi ero preso un anno sabbatico, come si usa nei Paesi anglosassoni. Volevo riflettere senza condizionamenti. Poi avrei deciso sul tipo di lavoro che mi permettesse di puntare in alto. Valeria, che ha quattro anni meno di me, frequentava il corso di laurea magistrale in arti visive per passare in seguito a quello di filmaking.
Da qualche settimana la mattina mi fermavo un paio d’ore nel salone di lettura per fare ordine in certe mie confuse idee, consultando libri di ogni genere con particolare riguardo alla saggistica politica. Lei se ne stava seduta sempre al primo banco, seminascosta dai numerosi volumi che sfogliava con aria concentrata. Ogni tanto si alzava, puntava dritto al reparto computer che le era di fronte, premeva velocemente alcuni tasti e fissava il video per qualche secondo. Al termine dell’operazione annotava qualcosa su una minuscola agenda mentre tornava al banco. Ogni volta, prima di sedersi, scuoteva la testa come fosse delusa. Poi gettava all’indietro i capelli rossorame e lanciava un’occhiata panoramica verso il salone.

I nostri sguardi si sono incrociati per un solo istante in uno di quei momenti. Lei mi è parsa meno tranquilla del solito. Dalla mia postazione, due o tre file dietro di lei, osservo ogni sua mossa. La vedo alzarsi di scatto, raccoglie i volumi e con aria cupa li deposita pesantemente sul tavolo dello sportello ‘Restituzione libri’ facendo sobbalzare sulla sedia l’inserviente. Poi agguanta lo zainetto, se lo mette a tracolla e si dirige a razzo verso il bar riservato al pubblico e al personale della Biblioteca. Mi basta poco per convincermi che si muove bene, e che sarebbe un delitto non seguirla.
Al bar c’è un gran casino. Eccola lì, è appoggiata al bancone, lo zainetto è a terra. Lo tiene stretto tra gli stivaletti.
– Che studi fai? – le domando subito sfiorandole il braccio con il gomito.
– Seguo due corsi di due anni ciascuno, tremila ore di lezione in tutto, seminari, workshop e in più qualche viaggio.
– Però! Mi sembra tanto.
– Lo so.
Visto che ci sta a parlare, continuo il mio pressing mentre tutt’e due ci sforziamo di sorseggiare un caffè che ormai si sta raffreddando.
– Ma di’ un po’, a cosa ti serve tutto questo impegno? – le chiedo rendendomi conto che sto facendo la figura dell’imbecille.
– Oh, si vedrà. Quando avrò finito gli studi deciderò con calma cosa fare, può darsi che in un modo o nell’altro lavorerò nell’ambiente del cinema, mi dice con aria di sfida prima di piantarmi in asso.
Qualche giorno dopo sono tornato allo studio. Non vedo la ragazza al solito posto. Mi siedo distrattamente al mio banco. Passano alcuni minuti, da dietro una mano mi sfiora appena una spalla, mi giro. È lei, che prima mi fissa per un attimo con un sorriso da farti mancare il respiro, poi si abbandona a una allegra risata che fa alzare la testa a tutti gli occupanti del salone.
– Sai, l’altro giorno non ti ho neanche chiesto come ti chiami, dice.
– Già, mi chiamo Paolo.
– E che studi fai? – incalza lei.
– Per il momento nessuno. Mi sono laureato qualche mese fa in materie finanziarie, diciamo così. E adesso sto cazzeggiando... in attesa di decidere.
– Di fare che?
– Be’, tanto per cominciare tenterò la scalata in banca, più avanti si vedrà... la politica, forse.
– Dunque sei un bieco arrivista – ribatte fulminandomi con quegli occhi blu cobalto.
– In un certo senso è così – dico – ma adesso perché non ce ne andiamo al bar a completare con calma la reciproca conoscenza.
– Intanto, se ti può interessare, mi chiamo Valeria.
A Milano l’estate sembra liquefarsi sopra l’asfalto. Ed è come se i contorni dell’ambiente che ti circonda si dissolvessero in un tremolante vapore. Devi prenderla com’è questa città. È destinata a diventare un faro per l’Europa intera, e non solo.
I miei incontri con Valeria nel salone con puntatina al bar si erano intensificati.
Luglio fatalmente esploso, senza tregua.
Noi due stavamo passeggiando in cerca di fresco nei giardini attorno alla Biblioteca divagando volutamente dai miei programmi di lavoro e dal suo ultimo esame della stagione: se quel pomeriggio il clima fosse stato meno languido, forse non sarebbe successo niente di particolare. Ma il pensiero che nel mio monolocale stile single-in-agguato che i miei mi avevano comprato funzionasse un nuovissimo condizionatore d’aria mi ha spinto a iniziare un gioco che ormai era nelle cose. Così è finita che ci siamo fiondati in macchina, e nel volgere di mezz’ora stavamo già facendo sesso a casa mia.
Non saprei dire quante volte, in seguito, ci siamo trovati in quell’appartamento, prima di prendere la decisione improvvisa di metterci insieme in attesa di una sistemazione definitiva quando i tempi fossero stati maturi. Io parlavo poco, fa parte del mio carattere. Lei, invece, non la smetteva mai. E l’argomento era sempre il cinema. Ne parlava con passione, divertita: – Sì, il cinema è il mio ambiente, adoro i film, lì c’è quello di cui tutti siamo in cerca, talvolta senza nemmeno rendercene conto... Situazioni esistenziali che ti coinvolgono... Immagini e parole che si fondono, ti emozionano, le senti e percepisci come fossero il tuo vissuto... Il fascino dei colori... già, i colori... persino quando la pellicola è in bianco e nero... Insomma, la vita!
– Ma dài – la provocavo – c’è molta più vita in un raccontino di poche pagine che in tanti film girati per offrire al pubblico puro intrattenimento del tutto privo della forza di metterti in contatto con altra coscienze.
– Smettila! – era la sua reazione – lo sai che il cinema è la settima arte?
– Appunto, non a caso prima ce ne sono altre sei.
– Be’, io voglio provarci.
Quelle parole avevano il suono di un solenne giuramento che Valeria faceva a sé stessa.

Poi è cambiato tutto.
La fase propedeutica del monolocale è durata poco. Ci siamo sposati. Una decisione presa a modo nostro, fulminea. Subito dopo io sono entrato in banca. C’è stato l’acquisto del nuovo appartamento, e la nostra vita ha preso a procedere per il giusto verso, senza scosse né esitazioni. Puntavamo a un ambiente famigliare secondo un modello di agiata normalità. Avremmo avuto dei figli e sarebbero andati a studiare nelle scuole private più prestigiose della città. La piccola Alice e il fratellino Leonardo non si sono fatti attendere. Sono bastati poco più di quattro anni per completare il quadro.
Regolavamo la nostra vita come ci piaceva, e mettevamo una cura più che puntigliosa nel selezionare le relazioni sociali. In questo Valeria mi è sempre stata di grande aiuto.
Sentivo di essere destinato al successo. E in tempi brevi. Provavo un sottile piacere nel pensare che sin dagli inizi la mia strada sembrava essere lastricata a dovere; appena laureato con una tesi sui rischi delle transazioni finanziarie − qualche anno dopo la vita si sarebbe incaricata di chiarirmi ruvidamente che il “rischio” è qualcosa di più insidioso di una astratta eventualità − per me è stato un gioco da ragazzi essere segnalato ai vari istituti di credito da un docente con buone amicizie politiche che apprezzava le mie doti in materia di studi economici a tutto campo, ed essere quindi assunto all’ufficio mutui di una banca specializzata in quel tipo di operazioni.
Dopo meno di un anno mi ero già spostato dal salone open-space stipato da una decina di scrivanie in buona parte scolorite quanto i loro occupanti. Mi veniva assegnato un ufficio tutto mio, col grado di funzionario procuratore. E sulla porta dell’ufficio spiccava nuova di zecca la targhetta con il mio nome: Dr. Paolo Moraldi.
Avevo adesso una ragione in più per continuare a puntare con decisione verso l’alta dirigenza, e non dubitavo minimamente di potercela fare.
Per il momento avevo accantonato il progetto di mettermi in politica, mi bastava la mia famiglia.
Ma chi viveva con più evidente naturalezza quella situazione di vita famigliare come fosse una condizione preesistente al suo stesso essere era Valeria. C’era in ogni suo gesto, in ogni sua parola o decisione, una spontaneità disarmante. Ciò che la faceva apparire agli occhi di tutti come persona che non avrebbe potuto esistere se non vivendo gioiosamente in maniera esclusiva il suo ruolo di moglie e madre.
All’idea del cinema aveva rinunciato da un pezzo, ma non se ne rammaricava. Le donne hanno di queste risorse, così almeno la pensavo a quei tempi.

La faccenda del cinema. Nei nostri ultimi incontri nel monolocale − prima di sposarci − Valeria aveva smesso di parlarne. Strano. Dopo un po’ ho pensato che fosse bene portarla sull’argomento.
– Sarà il caso che ci organizziamo – le dico in un piovoso pomeriggio d’autunno mentre ci stiamo rivestendo – tra meno di un mese qualcuno in un ufficio comunale ci dirà che da quel momento siamo marito e moglie e se oggi ci domandassimo come imposteremo la nostra vita, ebbene non sapremmo cosa rispondere... come fossimo alla mercé di una corrente della quale non conosciamo il percorso... un flusso fuori controllo. E quanto a te, come vorrai metterla col cinema?
Sembra sorpresa, mi lancia uno sguardo enigmatico mentre colgo nei suoi occhi il riflesso del calore insinuante col quale fino a pochi istanti prima ha risposto alle mie pulsioni.
Decido di non mollare la presa. – Staremo qui ancora per poco, le dico, dammi solo qualche mese, è in arrivo una promozione e vedrai che ci trasferimento presto in un nuovo appartamento molto più grande dove potremo vivere a nostro agio. Ma tu, piuttosto, cose farai durante il giorno mentre io sono in banca?
– Voglio un figlio, anzi due, e subito! – mi risponde, così avrò il modo di non annoiarmi.
– D’accordo, ma immagino che dopo sarai costretta a portarti a casa tutti quei libri... Addio Ambrosiana... soprattutto ti mancherà il computer del salone di lettura col quale hai un rapporto così stretto, e poi, scusa se insisto, dovrai pure interessati su come entrare nel cinema una volta che ti sei laureata, e quale ruolo creativo o tecnico preferiresti svolgere in quell’ambiente di cui per ora hai un conoscenza soltanto vaga... Per non parlare dell’agguerrita competizione che c’è da quelle parti.
– Niente di tutto questo, ho deciso di piantare gli studi. E al diavolo il cinema!
Per un po’ ci ho pensato su. Ma a Valeria non ho mai chiesto quale fosse la vera ragione di quel repentino cambiamento. Sicché ho preferito lasciar perdere, anche questo fa parte del mio carattere.
Sono da sempre convinto che sia azzardato cercare nella memoria del passato le ragioni del presente. C’è il rischio di farsi delle idee sbagliate che possano malignamente condizionarti l’esistenza. Sta di fatto però che certe deviazioni che inaspettatamente si sono succedute in una fase piuttosto delicata della mia vita mi sembrano difficilmente catalogabili come fortuiti incidenti di percorso.
Tutto è cominciato dopo quello che mi è successo sul lavoro quando stava per scoccare il nostro quinto anno di matrimonio, più o meno due mesi fa. Il riferimento al matrimonio non c’entra niente coi miei rapporti con Valeria in quel momento, peraltro del tutto normali, lo dico solo per una più comprensibile collocazione temporale del fatto.
Si è trattato di un errore che neanche il più sprovveduto dei miei colleghi di primo impiego avrebbe fatto: ho preso un abbaglio nel valutare le condizioni per il rilascio di un mutuo ipotecario a cinque zeri. In altre parole, ho dato un indebito benestare all’erogazione immediata di una somma di cinquecentomila euro a un nuovo cliente della banca.
Per mia disgrazia, il giorno successivo all’erogazione l’impiegato addetto all’archiviazione della pratica si è accorto che in quell’incarto stracolmo di fogli qualcosa non andava. Uno di quei dannati documenti era stato alterato. Sto parlando dell’atto di visura della stabile, stilato da un perito di nostra fiducia o per maglio dire della banca. Scatta immediatamente il controllo del nostro ispettore amministrativo e salta fuori che il perito aveva stimato il valore dell’immobile in trecentomila euro, cifra che poi una mano ignota aveva abilmente gonfiato manipolando il programma del computer. Va da sé che del cliente e del malloppo si è subito perso ogni traccia. In seguito, grazie al vincoli ipotecario la banca è subentrata nella proprietà dell’immobile il cui valore per via del negativo andamento del mercato si è rilevato di poco superiore a duecentomila.

Il capo del personale è amico del docente che a suo tempo mi aveva raccomandato alla banca per l’assunzione − scorciatoia politica in perfetto stile nostrano. Il giorno successivo all’incidente mi aspettavo di essere convocato nel suo ufficio di prima mattina. Lui invece mi ha lasciato sulla graticola fino a sera, il mio telefono non si decideva a squillare e io mi domandavo in continuazione cosa aspettasse. L’ansia intanto montava. Verso le sette, quando ormai tutti avevano lasciato la banca, mi ha chiamato. Per stemperare la tensione salgo lentamente a piedi fino all’ultimo piano del grattacielo (non è granché alto) dove si trovano gli uffici dei massimi dirigenti. Nella pareti esterne dell’edificio, in corrispondenza delle scale, sono incastonate larghe vetrate che mi permettono una veduta pressoché completa del lungo viale, laggiù: fuori il buio tendente al violaceo della sera è attraversato da decine e decine di auto che, come un fiume dal lento corso, per un lungo tratto proseguono diritto per poi disperdersi in tutte le direzioni, ciascuna verso casa o in qualche altro posto che inutilmente mi sforzo di immaginare.
Mi riassetto la cravatta. La porta è socchiusa, entro nell’ufficio del capo senza bussare.
– Vede, dottor Moraldi, attacca subito secondo la sua collaudata tecnica di comunicazione, ieri lei ha avuto una sorta di battesimo sull’imponderabilità della vita. Di sicuro saprà che con quello che è successo potrebbe essere licenziato sui due piedi per giusta causa, una brutta conclusione non solo per lei, ma se permette anche per me, visto che ho agevolato, diciamo così, la sua assunzione. Ma non vorrei farla lunga, continua lui, un infortunio può capitare a tutti, e poi quel fatto presenta ancora dei lati oscuri che con ogni probabilità non saranno mai chiariti... In ogni caso ho parlato della faccenda con il direttore generale e abbiamo pensato di venirle incontro con un riposizionamento temporaneo delle sue funzioni. Guardi che le stiamo facendo un grosso favore! Forse un giorno o l’altro le converrà ricordarsene, mi sibila infine congedandomi nel posarmi una mano leggera sulla spalla.
Il giorno dopo vengo trasferito col grado di vice reggente in una piccola agenzia della banca situata all’interno di un ipermercato dall’altro capo della città. Ma prima, per potermi riprendere dall’accaduto, il capo del personale mi ha consigliato di prendermi una settimana di ferie.
Ho dormito molto in quei giorni, e ogni pomeriggio, mentre i nostri figli erano alla scuola materna, Valeria si infilava svelta nel letto. Finalmente un po’ di tempo solo per noi, esclamava, almeno in questi momenti!
Il lunedì mattina arrivo alla nuova destinazione qualche minuto prima dell’apertura dell’ufficio. Da casa ero uscito quasi un’ora prima del solito dovendo attraversare mezza città, con Valeria ho preso la scusa di un appuntamento fissato per le prime ore della mattina presso lo studio di un notaio dove c’era da sottoscrivere il rogito necessario al rilascio di un mutuo.
Poco dopo una macchina parcheggia proprio lungo il marciapiede antistante l’ipermercato. Riconosco la persona alla guida, che nel chiudere la portiera si gira verso di me sorridendomi. È il direttore dell’agenzia. Mi fa un cenno di riconoscimento, qualche mese fa abbiamo partecipato allo stesso corso di aggiornamento professionale.
Sebbene mi sia stata confermata la qualifica di funzionario procuratore come previsto dal contratto, ho dovuto fare ricorso a tutta la mia non comune capacità di adattamento per accettare la modesta posizione di vice reggente di un ufficio composto di solo quattro dipendenti. Devo comunque ammettere che lo stesso ambiente del centro commerciale in un certo senso mi ha aiutato a superare le difficoltà del momento.
Siccome le responsabilità delle decisioni importanti sono del direttore, svolgo un ruolo di filtro del lavoro degli impiegati controllando i tabulati dove vengono registrate le operazioni del giorno.
Certo, non mi ammazzo di lavoro. Per fortuna allo sportello della nostra cassa c’è un brioso avvicendarsi di giovani ragazze, sono in buona parte commesse dell’ipermercato. Da dietro i vetri del mio piccolo ufficio mi sorprendo osservarle con una curiosità che mi è inconsueta. Cerco di capire cosa sto provando... Bisognerà pure...
Così, appena ne adocchio una di quelle carine non perdo occasione per uscire dall’ufficio con una scusa qualsiasi. Mi avvicino alla cassa, e lancio una battuta che vorrebbe essere spiritosa. Basterebbe insistere quel tanto...
Ho aspettato una decina di giorni prima di dire a Valeria della storia del mutuo e delle relative conseguenze. Ormai avevo esaurito ogni scusa plausibile per uscire di casa così presto.
Ancora oggi sono convinto che sul momento l’avesse presa bene. – Sei il solito distratto − mi ha detto accennando un vago sorriso − chissà a cosa stavi pensando quando esaminavi quella carte!

La felicità è un rischio che si deve correre. Basta non farsi sorprendere impreparati quando capita che ti viene a mancare. E così è successo. D’un tratto la nostra vita famigliare ha subìto uno sconvolgimento.
So soltanto che una sera, appena rientrato a casa dal lavoro, Valeria mi sbatte in faccia queste parole: – Sai Paolo, non vedo come io abbia fatto fino a oggi a sopportare l’idea di avere rinunciato senza una comprensibile ragione di mettere a frutto tante ore di studio della materia che una volta mi stava tanto a cuore.
– Che significa? – le chiedo.
– Voglio dire che anch’io ho diritto di esprimere qualcosa di mio, risponde fissandomi duramente, e che ho deciso di fare un salto a Roma; ho sentito dire da una mia ex-compagna di università che lì avrei la possibilità di farmi strada, nonostante non abbia portato a termine gli studi, se solo riuscissi a dimostrare di essere abbastanza preparata per svolgere uno di quei ruoli tecnico-artistici necessari per quel tipo di mestiere.
Mi alzo dal divano, stordito da quelle parole di cui vorrei non avere capito il senso, ho bisogno di farmi un drink ma lei mi si avvicina, fa scorrere lente le mani lungo il mio corpo e in un attimo mi slaccia i pantaloni, si abbassa fino a toccare il pavimento con un ginocchio, la sua bocca che cerca il contatto è calda. E la fellatio insolitamente prolungata.
Il mattino seguente, verso mezzogiorno, ricevo una telefonata in ufficio. Sono i genitori di Valeria, tutti e due sono ormai sui settanta o giù di lì: – I vostri figli sono qui a casa nostra, Valeria ci ha chiesto di tenerli da noi fino a quando lei non tornerà, mi dicono avvicendandosi al telefono. Poi concludono la curiosa conversazione a senso unico informandomi che essendo nel pieno delle vacanze estive è meglio per loro − per i miei figli mi pare di capire − se si godono il fresco della Brianza, considerato che a Milano il caldo è al massimo e che la loro mamma non potrebbe portarli in piscina per la semplice ragione che se ne starà via chissà fino a quando.
Chiamo casa, non risponde nessuno. Il cellulare di Valeria è spento. Qualche minuto dopo, sempre in ufficio, ricevo un fax. È di Valeria. L’ha spedito da un locale dell’aeroporto di Linate. Con poche stringate parole mi spiega che è in partenza per Roma, non sa quanto si fermerà. Poi taglia corto dicendomi sta’ tranquillo, non cercarmi, non assillarmi con le tue telefonate ansiogene. Sappi comunque che se dovesse apparire il tuo nome sul display del mio cellulare non risponderò. Lasciami fare, mi farò viva io al momento opportuno... ti scriverò se necessario... poi dovremo prendere una decisione. Così non si può andare avanti. Per i bambini non devi preoccuparti, sono in buone mani.
Mi sono dovuto organizzare come meglio potevo. Non mi restava  che arrangiarmi come mi permette la mia indole.
La colf filippina alta poco più di un metro e trenta che fino a poco fa era al nostro servizio è stata cacciata sui due piedi da Valeria quel giorno che nello stirare aveva bruciacchiato un paio di mie camicie. Lei, poveretta, aveva tentato di giustificarsi dicendo che la sua altezza non le permetteva di maneggiare agevolmente il ferro sull’asse, doveva lavorare in punta di piedi. Ma Valeria è stata irremovibile, e adesso io non ho nessuno che mi possa aiutare nei lavori di casa, salvo nel fine settimana quando il custode dello stabile ha qualche ora da dedicarmi.
Per ora vivo una sorta di tran-tran. Mi perdo in confuse riflessioni su quello che mi sta succedendo. Sono del tutto inadatto a questo tipo di vita.
Con i genitori di Valeria ho un pessimo rapporto. L’altro giorno ho dovuto persino alzare la voce quando sono andato a prendere Alice e Leonardo per passare qualche ora con loro.
I ragazzi mi sembrano tranquilli, e non sospettano nulla. Al contrario di me che comincio a farmi prendere dall’ansia.
Intanto mi domando come ho fatto a incasinarmi in questo modo, se sia possibile immaginare cosa covava sotto la nostra appagante vita fatta di puntuali ritualità. Adesso mi viene da pensare che magari si trattasse di abitudini ingannevoli. Di quelle che alla lunga finiscono per affievolire ogni slancio vitale. Forse Valeria e io avevamo perso la capacità di stupirci, davamo tutto per scontato e credevamo di essere felici per il solo fatto di sentirci al riparo dei rischi che il nuovo a volte porta con sé, non importa di che si tratti. Fosse anche un brusco stop alla mia carriera. Casomai, in definitiva, dovevamo avere il coraggio di domandarci se quella rassicurante continuità non era altro che il rovescio di un inconfessabile timore per imprevedibili ma pur sempre possibili cedimenti. Chi di noi due non si è accorto che in qualche momento della nostra vita matrimoniale (ma quale?) è venuta a mancare la libertà di vivere con autentica pienezza la propria esistenza? E, semmai, perché escludere che quella distrazione sia successa a entrambi?
Voglio vedere coma cazzo va a finire!
Queste cose le sto pensando mentre sono in macchina, sulla strada di casa. È finita una noiosa giornata di lavoro, si sono viste poche ragazze in agenzia.
Cerco di consolarmi guardandomi attorno mentre procedo in un traffico la cui lentezza una volta tanto non mi provoca alcun disagio, ma al contrario mi diventa gradevole.
Con l’approssimarsi dell’autunno questa è l’ora più bella, qui a Milano. Se getti lo sguardo in giro resti sorpreso dalla varietà di sfumature blu che colorano il cielo riflettendosi in forme ineguali sugli edifici. Anche la gente per le strade ne è avviluppata.
Sarà che sono solo, e sento la mancanza di Valeria. Da quando è partita ho preso l’abitudine di cambiare ogni giorno percorso per andare in ufficio, talvolta anche per tornare a casa. Piccole variazioni di rotta, se vogliamo, ma sufficienti per darmi l’impressione che in un certo senso hai la possibilità di scegliere. Come fosse una trasposizione viabilistica della mia condizione esistenziale.
E adesso sono davanti a casa, parcheggio l’auto nel box. Salgo di corsa fino alla casella della posta: è vuota.
Non me la sento di preparami la solita, insipida cena. Decido per la trattoria.

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